Nel cuore del continente africano, la Cina sta costruendo il futuro mentre l’America si aggrappa al suo passato e, in questo silenzioso capovolgimento, si sta giocando la fine di un mondo e la nascita di un altro.

di Mohamed Lamine Kaba, chinabeyondthewall.org, 1 novembre 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
Da vent’anni, il continente africano è diventato un importante campo strategico nella rivalità tra due potenze globali: da una parte gli Stati Uniti, dall’altra la Cina. Questo scontro non si limita più a una semplice competizione economica. Incarna uno sconvolgimento geopolitico, una sfida all’egemonia occidentale e, implicitamente, una logica multipolare in cui la Cina è costantemente inscritta, mentre gli Stati Uniti appaiono sempre più come un attore esausto e cauto. In tutto il continente africano, le relazioni tra Cina e Stati Uniti si stanno polarizzando sempre di più, rivelando una dinamica in cui Washington appare ogni giorno più debole. Questa analisi cerca di mostrare come il forte coinvolgimento della Cina in Africa – infrastrutture, commercio, partnership strategiche – stia sconvolgendo l’ordine africano e globale, e perché questo non piaccia a Washington e ai suoi ambasciatori europei/NATO.
È stato nel 2000 che Pechino aprì la prima breccia con il Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC), una vera e propria cornice diplomatica per una presenza economica e diplomatica destinata a trasformare il continente. Tredici anni dopo, nel 2013, Xi Jinping lanciò la Belt and Road Initiative (BRI), un progetto di portata globale che, lontano dalle astrazioni occidentali, si basa su risultati tangibili: strade, ferrovie, porti, centrali elettriche, reti digitali e zone industriali. Questi progetti, visibili e misurabili, stanno ridisegnando le mappe del commercio mondiale e sconvolgendo la gerarchia delle dipendenze. D’altra parte, Washington, prigioniera delle sue routine diplomatiche, risponde con accordi commerciali obsoleti come l’AGOA e discorsi moralizzanti senza sostanza.
La svolta strategica è arrivata nel 2017, quando la Cina ha inaugurato la sua prima base militare a Gibuti. Questa struttura, situata a pochi chilometri dalla base americana, simboleggiava un cambiamento storico: per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, una potenza non occidentale rivendicava apertamente una presenza militare in Africa. Pechino e Gibuti affermavano di voler proteggere le rotte marittime e i reciproci interessi economici, mentre Washington vi vedeva la materializzazione di una minaccia sistemica alla propria influenza regionale. Da quel momento in poi, la rivalità sino-americana si è spinta oltre l’ambito economico per diventare completamente geopolitica.
Tuttavia, ciò che distingue la Cina non è solo la sua capacità di costruire, ma anche la sua filosofia d’azione. Laddove gli Stati Uniti predicano la democrazia in cambio dei loro aiuti, la Cina promuove il principio di non interferenza. Laddove Washington condiziona i suoi finanziamenti a riforme “strutturali” spesso distruttive, Pechino prima finanzia e poi discute. Questa differenza di approccio, lungi dall’essere aneddotica, sta sconvolgendo l’equilibrio di potere: i governi africani, stanchi di essere trattati con sufficienza da partner occidentali paternalistici, ora preferiscono una cooperazione che non li giudichi. Pechino tratta gli stati africani come partner sovrani, non come studenti indisciplinati da correggere.
La Cina sta costruendo ferrovie elettrificate, come la linea Addis Abeba-Gibuti, porti ultramoderni come Doraleh, centrali idroelettriche in Uganda ed Etiopia e, soprattutto, sta dotando il continente di infrastrutture digitali e spaziali. Dal 2022, ha firmato più di venti accordi spaziali bilaterali, ha costruito una fabbrica di satelliti in Egitto e sta implementando una cooperazione scientifica prima impensabile per molti paesi africani. Nel frattempo, Washington lotta con le sue contraddizioni: tagli al bilancio degli aiuti allo sviluppo, vuota retorica sui “valori universali” e una cronica incapacità di offrire alternative concrete alla BRI.
Peggio ancora, invece di competere con la creatività, gli Stati Uniti rispondono con le punizioni. Nel 2025, hanno imposto dazi punitivi a diversi stati africani con il pretesto del “commercio equo”, mentre la Cina, con un clamoroso gesto diplomatico, ha eliminato i dazi su quasi tutti i prodotti africani. Questo contrasto, crudamente eloquente, mette a nudo l’ipocrisia di una Washington che si proclama paladina della libertà ma si aggrappa ai suoi privilegi commerciali punendo chi si emancipa. Gli africani, da parte loro, non si lasciano ingannare: tra una potenza che costruisce strade e un’altra che erige barriere, la scelta diventa del tutto naturale.
In definitiva, questa rivalità rivela due visioni inconciliabili della globalizzazione. La Cina sostiene una globalizzazione infrastrutturale, inclusiva e multipolare, in cui ogni Stato, indipendentemente dalle sue dimensioni, può esercitare influenza attraverso la cooperazione. Gli Stati Uniti, da parte loro, cercano di preservare una globalizzazione gerarchica, controllata dalle stesse istituzioni – FMI, Banca Mondiale, NATO – che hanno a lungo confiscato la sovranità del Sud. In altre parole, Pechino parla di partenariato mentre Washington parla di allineamento. La differenza non è solo semantica: è di civiltà.
Da parte sua, l’Africa non è più il “continente senza destino” descritto dagli strateghi di ieri. Le sue terre sono ricche di minerali critici del XXI secolo – cobalto, litio, rame – indispensabili per la rivoluzione verde e le nuove tecnologie. Posizionandosi in anticipo, la Cina si è assicurata un vantaggio industriale decisivo, mentre gli Stati Uniti, accecati dalla loro arroganza, scoprono tardi di aver perso il controllo delle catene di approvvigionamento essenziali e il monopolio delle iniziative strategiche. Da qui la febbre di Washington, che moltiplica iniziative tardive – corridoi ferroviari, promesse di partenariato, vertici simbolici – senza riuscire a convincere o a competere efficacemente con Pechino.
In realtà, Pechino non sta solo rilanciando l’economia africana, ma sta sconvolgendo l’intero ordine mondiale. Presentando la cooperazione sino-africana come modello di emancipazione, la Cina sta disarmando ideologicamente gli Stati Uniti. Sta dimostrando che è possibile esistere al di fuori della tutela occidentale, raggiungere lo sviluppo senza ricorrere al catechismo del FMI. Questa realtà, insopportabile per Washington, segna la fine di un mito: quello di un’America indispensabile, centro di gravità del cosiddetto mondo “libero”. D’ora in poi, le capitali africane si rivolgono a Pechino, Mosca, Ankara, Riyadh o Nuova Delhi – in breve, al resto del mondo – e Washington non è più solo un attore tra gli altri, ma un attore marginalizzato.
Gli Stati Uniti, abituati a imporre, non hanno mai saputo cooperare alla pari. Il loro modello è esaurito, la loro influenza si sta sgretolando, la loro retorica suona vuota. Continuano a parlare come padroni quando ormai non sono altro che rivali. La loro ossessione anti-cinese non è un segno di forza, ma di angoscia esistenziale. Mentre loro predicano, la Cina costruisce. Mentre loro sanzionano, la Cina investe. E mentre loro minacciano, la Cina convince. Questa differenza di ritmo, tono e visione spiega perché, oggi, la battaglia per l’influenza in Africa stia chiaramente pendendo a favore di Pechino.
Ma al di là dei giganti, l’essenziale rimane: l’Africa stessa. È l’Africa, puntando sulla diversificazione delle sue alleanze, che sta trasformando la presenza cinese in una leva di sovranità e modernizzazione. Pechino, attraverso il suo approccio basato sul rispetto reciproco e sulla cooperazione win-win, offre agli stati africani l’opportunità di negoziare alla pari e di garantire partnership che apportino know-how, tecnologie e infrastrutture sostenibili. Facendo leva su questa dinamica, il continente può non solo trarre vantaggio dalla concorrenza internazionale, ma soprattutto accelerare il proprio sviluppo in un quadro di equilibrio, rispetto e reciproco vantaggio. Se la Cina apre le strade, spetta all’Africa scegliere la direzione.
Per concludere, nella cruda verità del mondo contemporaneo, l’Africa non è più lo scenario, ma il perno di una riconfigurazione globale. La Cina, pragmatica e paziente, si erge a costruttrice della realtà; gli Stati Uniti, arroganti e nostalgici, si rivelano i becchini di un ordine che non comprendono più. Ed è forse lì, su questa terra a lungo sfruttata, che si gioca la fine di un mondo – quello dell’unipolarismo – e la nascita di un altro: quello di un equilibrio in cui l’Occidente non è più il centro, ma una periferia tra le altre.
E per quanto riguarda l’aspetto shock, così come si sta progressivamente staccando dall’influenza francese, l’Africa finirà, prima o poi, per liberarsi anche dalla tutela americana.
Mohamed Lamine Kaba
Sociologo ed esperto di geopolitica della governance e dell’integrazione regionale presso l’Istituto di Governance, Scienze umane e sociali dell’Università Panafricana.
