Con i costanti progressi di Mosca da febbraio (ora ha conquistato il polo minerario di Selydovo nel Donetsk), Kiev sta annunciando piani per arruolare altri 160.000 soldati nel suo esercito. Secondo un’analisi dei dati dell’Institute for the Study of War, la Federazione Russa, solo a ottobre, è avanzata di 478 chilometri quadrati (185 miglia quadrate), un record da marzo 2022.

Uriel Araujo per Global Research – Traduzione a cura di Old hunter
Inoltre, l’esercito ucraino, secondo un articolo dell’Economist, è in una situazione di sopravvivenza, ovvero “lotta per sopravvivere, non per vincere” (come da titolo del rapporto). I suoi comandanti si preoccupano per le direttive stesse della guerra, essendo il paese “sulla difensiva, militarmente, economicamente e diplomaticamente”. Da quando Kiev ha riconquistato Kherson alla fine del 2022, in realtà non ha fatto quasi alcun progresso. Già nell’aprile 2023 avevo scritto di come, per esempio, l’establishment ucraino stesse ripensando all’idea stessa di “riconquistare la Crimea“.
Il già citato articolo dell’Economist descrive le unità ucraine come “sottodimensionate e sovraccariche”, nonostante la nuova drastica legge sulla mobilitazione, con una “allarmante crisi demografica”, una “limitata scorta di proiettili” e “una carenza di intercettori per la difesa aerea”. Oltre a ciò, si dovrebbe anche considerare quanto segue:
- Washington sta fondamentalmente, come ho già detto, spostando gli oneri dell’Ucraina sull’Europa, mentre fa perno sul Pacifico. L’establishment americano è ormai libero di ammettere che “la guerra in Ucraina non rappresenta un problema esistenziale“. È interessante notare che (in termini di priorità) gli Stati Uniti stanno dispiegando le loro truppe in Israele e inviando allo Stato ebraico il sistema antimissile THAAD, quello stesso sistema che Kiev ha ripetutamente chiesto, senza alcun risultato.
- Secondo Forbes, il leader ucraino Volodymyr Zelensky rischia un colpo di stato “ultranazionalista”.
- Il nuovo “Piano della Vittoria ” di Zelensky conta in gran parte sul sostegno dell’Europa e della NATO. L’Europa, tuttavia, è in grado di agire solo fino a un certo punto, dato che la superpotenza americana sostanzialmente controlla l’Alleanza Atlantica e normalmente ha l’ultima parola.
In breve, l’Ucraina e gli europei si ritroveranno a dover affrontare una guerra per procura impossibile da vincere, mentre le strutture europee avranno il compito di accogliere e integrare uno Stato diviso (in stile sudcoreano) che può essere descritto solo come estremamente corrotto e incline all’etnocrazia autoritaria (vedi sotto).
È interessante notare che due terzi delle suddette conquiste militari russe sono avvenute nella regione di Donetsk, che fa parte della più ampia area del Donbass. Il Donbass è infatti teatro di conflitti dal 2014, ovvero da poco dopo la rivoluzione etnonazionalista di Maidan che ha trasformato il Paese in un centro globale per l’estrema destra e i suprematisti bianchi, come ha descritto un articolo della rivista TIME del 2021.
Nell’ultimo decennio, la regione del Donbass è stata spesso sottoposta a pesanti bombardamenti dell’artiglieria ucraina, mentre i leader ucraini dicevano ai russi etnici della regione di “andare in Russia“. Il record ucraino di atrocità e violazioni dei diritti umani in quell’area (inclusa la violenza neonazista e di estrema destra controllata dallo stato per mezzo di battaglioni come quello di Azov) è solitamente sottostimato, almeno nei resoconti dei media occidentali di oggi.
Per contestualizzare le cose, il fatto è che, qualunque cosa si pensi dell’esperimento sovietico (in termini di economia, politiche sociali e ideologia), il crollo sovietico è stato probabilmente una delle “più grandi catastrofi geopolitiche del secolo”, come l’ha notoriamente descritto il presidente russo Vladimir Putin. Da un lato, la situazione dei confini post-sovietici nell’Europa orientale e nel Caucaso rimane problematica, con i suoi “conflitti congelati” e gli Stati non riconosciuti o le repubbliche de facto che hanno un riconoscimento contestato o limitato – e tutti i drammi etnopolitici interni provocati dagli sforzi di alcune delle repubbliche post-sovietiche per “costruire una propria nazione”.
Inoltre, a prescindere dal fatto che si apprezzino o meno le politiche russe attuali o la sua campagna in Ucraina, tutto ciò che riguarda la politica ucraina di estrema destra fa parte del contesto più ampio che sta dietro ai referendum per l’annessione del Donbass, per dirne una. Come ho già scritto, si può solo immaginare cosa accadrebbe alla regione e ai suoi abitanti in caso di vittoria di Kiev.
Nicolai N. Petro, professore di scienze politiche all’Università del Rhode Island, è uno degli esperti che ha avvertito (scrivendo per Foreign Policy) che l’Ucraina ha effettivamente un “problema di diritti civili” per quanto riguarda le sue minoranze filo-russe, russofone ed etniche russe, con politiche che “relegano di fatto i russofoni a uno status permanente di seconda classe” e che potrebbero, anche dopo il raggiungimento della pace, “alienare, criminalizzare o deportare una parte significativa della popolazione del paese”. Questi problemi di “diritti civili” relativi all’etnopolitica, alla politica della memoria e dell’identità sono una parte importante delle tensioni e dei conflitti che si sono verificati nella regione slava orientale almeno dal 2014..
A gettare benzina sul fuoco, c’è naturalmente il sempre il tema pressante dell’attrazione occidentale, dell’espansione della NATO e dei suoi rischi, nel contesto più ampio di una politica americana di “doppio contenimento” e di “contrasto” e “accerchiamento” della Russia. Sorprendentemente, le analisi giornalistiche e i reportage laici sulla regione tendono a minimizzare o a ignorare del tutto questi due aspetti chiave – quello geopolitico e quello etnopolitico – (come dice l’accademico) “naturalizzando”, cioè prendendo per buoni i discorsi sulla costruzione della nazione ucraina post-Maidan e le rivendicazioni territoriali. Lo fanno demonizzando allo stesso tempo le prospettive e le preoccupazioni russe, non solo quelle dello Stato russo ma anche quelle di gran parte della popolazione del Donbass.
Peggio ancora, in un clima da Nuova Guerra Fredda, aggravato dall’attuale “cancel culture”, qualsiasi analisi informata che affronti le suddette questioni chiave rischia di essere “denunciata” come “propaganda russa”, e ci sono vari istituti e giornalisti che si guadagnano da vivere riportando tali cose. A volte i bersagli sono studiosi che sono persino molto critici nei confronti di Mosca ma che comunque osano parlare delle politiche etno-chauviniste ucraine o dell’allargamento della NATO o del nazismo letterale tra le forze militari e paramilitari ucraine.
Tutto questo fa parte dell’elefante nella stanza, e non affrontare tali questioni (o chiudere un occhio su di esse come ha fatto l’Unione Europea) è una ricetta per il disastro e per la continuazione del conflitto nell’Europa orientale. Inoltre, questo mette in cortocircuito alcuni dei valori chiave dell’Europa occidentale stessa: in parole povere, accogliendo l’Ucraina post-Maidan come una dei suoi, il blocco europeo e occidentale nega gran parte del discorso sui diritti umani che è stato costruito per essere il nucleo e la ragion d’essere delle sue istituzioni chiave.
Da una prospettiva europea, gli sforzi di Kiev per realizzare il suo progetto di costruzione di una nazione etnocratica (di cui ho parlato altrove) e, inoltre, la lotta ucraina per “sopravvivere” mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’Europa, almeno nel modo in cui l’Europa occidentale è arrivata a concepire sé stessa.