
di Elijah J. Magnier sul suo ejmagnier.com del 19 maggio – Traduzione a cura di Old hunter
Mentre Israele lancia la sua ultima, aggressiva e sanguinosa campagna militare a Gaza – l’Operazione Carri di Gedeone – dopo diversi giorni di intensi e indiscriminati bombardamenti su Khan Yunis e nella parte settentrionale di Gaza, che hanno ucciso centinaia di palestinesi ogni giorno, e dopo oltre venti mesi di guerra prolungata, l’operazione viene presentata come uno sforzo decisivo per smantellare la restante infrastruttura militare di Hamas, paralizzarne l’apparato di governo e ottenere il rilascio degli ostaggi rimasti. Eppure, al di sotto di questi obiettivi dichiarati, si cela una complessa rete di contraddizioni strategiche, vincoli logistici e rischi politici che mettono seriamente in dubbio la fattibilità e la sostenibilità a lungo termine dell’operazione. Con solo venti ostaggi ritenuti vivi e trentotto morti confermati, le aspettative di una svolta in questa fase finale appaiono sempre più irrealistiche. Dopo una serie di operazioni infruttuose nell’ultimo anno e mezzo, non è ancora chiaro come l’esercito israeliano intenda raggiungere in quest’ultimo assalto finale ciò che ha costantemente fallito in passato.
Il piano in tre fasi
Secondo fonti israeliane e statunitensi, Gideon’s Chariots è strutturato in tre fasi sovrapposte. La prima, già in corso, si concentra sulla “distruzione delle infrastrutture militari e delle capacità di governance di Hamas”. Prevede inoltre la preparazione della striscia di Gaza meridionale a trasferimenti di popolazione su larga scala, attraverso l’istituzione di centri di distribuzione di aiuti umanitari sotto il controllo militare israeliano, gestiti da aziende americane.
La seconda fase mira a trasferire la popolazione civile di Gaza in “zone sterili”, separate dai centri di comando di Hamas, controllando al contempo i residenti per affiliazioni militanti. Nella fase finale, le Forze di Occupazione Israeliane condurrebbero manovre terrestri nelle zone sgomberate, eliminerebbero i rimanenti agenti di Hamas e stabilirebbero una presenza occupante prolungata.
Il piano prevede cinque strumenti di pressione: l’occupazione militare permanente di corridoi chiave, la separazione di Hamas dalla popolazione civile, il diniego di accesso agli aiuti umanitari, la disaggregazione delle reti di comando e controllo di Hamas e la guerra psicologica. Tuttavia, molti di questi elementi si basano su un livello di controllo logistico e di acquiescenza internazionale che potrebbe non concretizzarsi.
Il dilemma dell’occupazione
Una lacuna strategica fondamentale dell’Operazione “Gideon’s Chariots” è la questione di cosa accadrà il giorno dopo. I funzionari israeliani non hanno offerto una visione coerente su chi governerà Gaza una volta rimosso Hamas. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha respinto il ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese e potenze regionali come Egitto ed Emirati Arabi Uniti si sono rifiutate di colmare il vuoto. In pratica, uno smantellamento riuscito di Hamas costringerebbe Israele ad assumerne il controllo amministrativo.
Nell’agosto 2024, Israele ha nominato il Generale di Brigata Elad Goren a capo degli Affari Civili a Gaza, agendo di fatto come suo governatore militare. Questa nomina segna un passo avanti verso una presenza israeliana a lungo termine nella Striscia, che rispecchia il ruolo del capo dell’Amministrazione Civile in Cisgiordania. L’istituzione di questa posizione indica l’intenzione di Israele di supervisionare direttamente le questioni umanitarie e civili, rafforzando ulteriormente il suo controllo su Gaza.
La creazione di questa figura suggerisce che Israele si stia preparando a un’occupazione prolungata, con il governatore militare che sovrintende non solo alla sicurezza, ma anche alla gestione quotidiana di Gaza. Questo sviluppo solleva preoccupazioni sul futuro dell’autonomia di Gaza e sul potenziale aumento delle tensioni nella regione.
Israele ha già annunciato la presenza di cinque divisioni (3 a sud di Gaza City e 2 a nord) già operative sul terreno. Tuttavia, questa realtà implica la necessità di un numero di truppe compreso tra cinque e sette per occupare completamente Gaza: un impegno di 60.000 e 80.000 unità, con decine di migliaia di soldati necessari per la stabilizzazione e l’amministrazione. Questo numero rispecchia la lunga e dolorosa esperienza di Israele nel Libano meridionale prima del ritiro del 2000, e rappresenta esattamente lo scenario che Ariel Sharon cercò di impedire nel 2005.
L’esercito israeliano è già schierato su più fronti, tra cui la Cisgiordania e il confine settentrionale con Hezbollah, da dove Israele ha trasferito due divisioni per sostenere l’occupazione di Gaza. Un’occupazione a lungo termine della Striscia non solo metterebbe a dura prova le risorse militari, ma imporrebbe anche un costo politico che probabilmente approfondirebbe la polarizzazione all’interno di Israele.
Rischi umanitari
Il tentativo di Israele di gestire le ricadute umanitarie attraverso l’istituzione di centri logistici a Rafah e nel corridoio di Netzarim è irto di rischi. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) si è rifiutato di partecipare, citando violazioni del diritto internazionale e l’inadeguatezza dei modelli di distribuzione degli aiuti. Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno rifiutato di partecipare.
Senza partner internazionali credibili, l’onere della distribuzione degli aiuti potrebbe ricadere direttamente sulle forze israeliane, uno scenario osteggiato dal Capo di Stato Maggiore israeliano Eyal Zamir. Inoltre, se Hamas rimanesse operativa in qualsiasi forma, è probabile che prenda di mira i convogli umanitari e il personale delle forze di occupazione, compromettendo ulteriormente lo sforzo umanitario e alimentando il risentimento della popolazione.
L’immagine di uno sfollamento, unita al deterioramento delle condizioni della popolazione di Gaza, potrebbe causare danni a lungo termine alla legittimità internazionale di Israele. I Paesi Bassi hanno già chiesto all’Unione Europea di rivedere il suo accordo commerciale con Israele, con conseguenti ripercussioni diplomatiche più ampie.
Hamas: danneggiata, non sconfitta
Dall’inizio della guerra, Hamas ha subito perdite significative. La sua capacità di operare in grandi formazioni paramilitari è diminuita. Eppure si è adattata passando a tattiche di guerriglia, tra cui il fuoco dei cecchini, le imboscate, gli ordigni esplosivi improvvisati (IED) e gli attacchi mordi e fuggi – metodi che richiedono molte meno risorse ma possono seriamente minare un’occupazione prolungata.
Nel gennaio 2025, l’intelligence statunitense ha valutato che Hamas aveva reclutato 15.000 nuovi agenti durante il conflitto e che la sua struttura residua conserva una resilienza sufficiente per opporre una resistenza prolungata. Secondo quanto riferito, il gruppo avrebbe anche iniziato a riutilizzare munizioni israeliane inesplose per trasformarle in IED, una tattica derivata dai conflitti in Iraq e Afghanistan.
Nel frattempo, Hamas continua a esercitare un controllo parziale sui servizi essenziali a Gaza, spesso coordinandosi con ONG internazionali. Sebbene la sua governance sia sotto pressione, rimane di fatto il garante dell’ordine in molte aree. In quanto tale, conserva un capitale politico e la capacità di ricostituirsi sotto occupazione.
Mentre i politici israeliani affermano che i Carri di Gedeone produrranno una Gaza “post-Hamas”, il piano non prevede alcun meccanismo per la transizione politica. La smilitarizzazione senza un’alternativa credibile di governance civile difficilmente durerà. L’assenza di una soluzione politica a lungo termine probabilmente alimenterà un’insurrezione anziché pacificare il territorio.
Inizialmente, gli Stati Uniti hanno manifestato sostegno al diritto di Israele di rispondere agli attacchi di Hamas. Ma con il protrarsi dell’operazione, Washington potrebbe iniziare a ricalibrare la propria posizione. I commenti del presidente Donald Trump durante la sua visita in Medio Oriente – che ha definito la guerra “orribile” e si è impegnato a porvi fine “il più rapidamente possibile” – suggeriscono un desiderio di moderazione.
Gli Stati Uniti stanno già portando avanti negoziati indiretti con Hamas per ottenere il rilascio degli ostaggi e disinnescare la situazione. Questa divergenza dalla strategia “tutto o niente” di Israele potrebbe indicare una crescente pressione da parte di Washington affinché interrompa l’operazione o ne riconsideri l’esito finale, ma certamente per consentire un flusso controllato di aiuti umanitari nella Striscia.
Una scommessa strategica senza un piano d’uscita
Il paradosso fondamentale di “Gideon’s Chariots” è che la sua logica militare è minata dall’assenza di una soluzione politica. Sebbene possa indebolire Hamas nel breve termine, non offre alcun quadro valido per il futuro. Più a lungo Israele rimane a Gaza, più rischia di cadere in una trappola familiare: estensione eccessiva, condanna internazionale e un movimento di resistenza rafforzato.
Il governo di Netanyahu potrebbe credere che il tempo e la pressione produrranno alla fine un esito più favorevole, o quantomeno preserveranno la sua fragile coalizione e rafforzeranno la sua posizione di primo ministro. Tuttavia, in assenza di un’autorità di transizione concordata, di un consenso regionale o di un allineamento con gli obiettivi strategici statunitensi, l’Operazione Carri di Gedeone rischia di ottenere solo un successo tattico a scapito di una duratura instabilità strategica. I Carri di Gedeone potrebbero rivelarsi non una via di soluzione, ma una campagna impantanata a tempo indeterminato nel pantano politico e militare di Gaza.
[…] Fuente tomada: Giuebbe Rosse News […]