L’escalation di Nuova Delhi sul fiume Indo non è solo una questione ambientale: è strategica, esistenziale e segna un nuovo fronte nella guerra di logoramento con Islamabad.

di Abbas Al-Zein per The Cradle — Traduzione a cura di Old hunter
La crisi tra India e Pakistan non si limita più ai missili o alle schermaglie in Kashmir. Oggi, il controllo del sistema fluviale dell’Indo segna un nuovo campo di battaglia nella lotta per il potere in continua evoluzione nell’Asia meridionale.
Dopo il mortale attacco di aprile nel Kashmir occupato dall’India, che ha causato 26 morti, Nuova Delhi ha sospeso la sua partecipazione al Trattato sulle acque dell’Indo. Il Primo Ministro Narendra Modi ha incaricato il suo governo di accelerare la costruzione di dighe sul Chenab, sul Jhelum e sull’Indo, fiumi cruciali per l’agricoltura e l’economia del Pakistan. La dichiarazione di Modi, secondo cui “il Pakistan non riceverà una sola goccia d’acqua che appartiene all’India”, non era retorica, ma politica.
Nonostante il cessate il fuoco sia entrato in vigore il 10 maggio, il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha chiarito che l’India non avrebbe rinnovato il suo impegno nel trattato finché il Pakistan non avesse adottato misure decisive contro la militanza transfrontaliera.
Contemporaneamente, l’India ha accelerato la costruzione di infrastrutture idriche su larga scala nella contesa regione del Jammu e Kashmir e ha interrotto lo scambio di dati idrologici vitali, azioni che hanno aumentato drasticamente il rischio di inondazioni improvvise nel territorio pakistano. Islamabad ha risposto definendo la sospensione del trattato “un atto di guerra”.
Quando i fiumi diventano armi
Questa decisione aggressiva ha segnato una svolta nella militarizzazione delle risorse naturali in tutto il subcontinente. Il precedente cosi creato non solo mina decenni di diplomazia idrica, ma segnala anche una nuova e pericolosa modalità di scontro tra due stati dotati di armi nucleari .
Non è la prima volta che l’acqua viene politicizzata nel subcontinente. Dopo l’attacco di Uri del 2016, Modi avvertì che “sangue e acqua non possono scorrere insieme”, una frase ripresa nell’attuale crisi. Nel 2019, dopo l’attentato di Pulwama, il ministro indiano dell’Acqua ha annunciato l’interruzione del flusso dei fiumi orientali verso il Pakistan. Eppure, la prevista risoluzione del trattato nel 2025 segna un’escalation senza precedenti, dalla retorica alla realtà.
Il Trattato sulle acque dell’Indo, mediato dalla Banca Mondiale nel 1960, suddivideva il controllo di sei fiumi tra l’India a monte e il Pakistan a valle. Il Ravi, il Beas e il Sutlej furono assegnati all’India, mentre l’Indo, il Jhelum e il Chenab furono riservati al Pakistan. Nonostante guerre, colpi di stato e sconvolgimenti politici, il trattato è sopravvissuto come simbolo di una pur minima cooperazione tra stati nucleari ostili.
Quel fragile equilibrio ha cominciato a sgretolarsi all’inizi degli anni 2000, quando l’India lanciò diversi progetti idroelettrici sui fiumi occidentali. La diga di Baglihar fu completata nel 2008, seguita dal progetto di Kishanganga nel 2018. Entrambi i progetti scatenarono controversie legali, ma l’arbitrato internazionale non riuscì a frenare le ambizioni di dighe dell’India. Il riempimento illegale di Baglihar ha causato gravi carenze idriche in Pakistan, mentre il conflitto di Kishanganga è diventato emblematico dell’aggressiva politica idrica di Nuova Delhi.
Il tentativo dell’India di deviare il Chenab attraverso il Canale di Ranbir è stato un altro campanello d’allarme. Delhi ha inquadrato queste mosse come necessità interne, necessarie per soddisfare le richieste locali nel Jammu, in Kashmir e nell’Himachal Pradesh. Ma Islamabad le vede come una minaccia esistenziale. Agli occhi del Pakistan, l’India non rispetta più i termini del trattato; li sta riscrivendo unilateralmente.
L’evoluzione della politica idrica dell’India rappresenta oggi non solo una violazione degli impegni legali, ma anche una sfida diretta alla sovranità e alla sicurezza alimentare del Pakistan.
Un sistema sull’orlo del baratro
Oltre l’80% del territorio agricolo pakistano dipende dai fiumi provenienti dall’occidente. Il solo Indo sostiene oltre il 20% del PIL e fornisce i mezzi di sussistenza a quasi il 68% dei pakistani rurali. Qualsiasi interruzione del flusso devasta i raccolti, fa aumentare i prezzi dei prodotti alimentari ed erode l’occupazione nelle campagne.
Il Punjab, il granaio del Pakistan, è il più vulnerabile. A seguito della sospensione del trattato da parte dell’India alcune stazioni idrologiche in Pakistan hanno registrato cali del livello dei fiumi fino al 90%. Tali shock si ripercuotono sull’economia, minacciando la sicurezza alimentare e la coesione sociale.
Il crollo dei mezzi di sussistenza rurali aggraverà la dipendenza economica e la frammentazione sociale, creando terreno fertile per i disordini. Le conseguenze vanno oltre l’agricoltura. Con il prosciugarsi dell’acqua, le popolazioni rurali migrano in massa verso città sovraffollate. Le infrastrutture pakistane, già sotto pressione, cedono sotto il peso delle comunità sfollate e della riduzione delle risorse.
La crisi climatica aggrava quella politica. Lo scioglimento dei ghiacciai himalayani – principali fonti di approvvigionamento del bacino dell’Indo – sta accelerando i cicli idrici di eccesso e scarsità. Piogge irregolari e inondazioni si alternano a siccità prolungate. I sistemi di stoccaggio progettati per un passato stabile non sono più in grado di far fronte al presente volatile. E l’acqua non è più solo una risorsa. È un fattore scatenante.
L’imprevedibilità del clima conferisce all’India ancora più potere: ogni diga e ogni bacino idrico rappresentano ora un potenziale punto critico.
La dottrina indiana della pressione
La svolta dell’India non si limita all’ingegneria, ma è strategica. Rajesh Rajagopalan, nella sua analisi del 2016, ha descritto un passaggio dalla “ritorsione massiccia” alla “deterrenza graduale” – una dottrina di coercizione continua e non militare. L’uso dell’acqua da parte dell’India rientra in questo modello: controllare i flussi fluviali per esercitare pressione sul Pakistan evitando al contempo una guerra diretta e calda.
Questa strategia graduale aggira i deterrenti tradizionali. Dai test nucleari del 1998, entrambe le nazioni hanno fatto affidamento sulla distruzione reciproca assicurata per prevenire l’escalation. Ma la pressione dell’acqua elude questa logica. Destabilizza senza far scattare l’allarme. La diga diventa un’arma.
È una forma di governo che mina senza allertare, dissangua senza far esplodere. Delhi non ha più bisogno di carri armati o missili per infliggere danni. Basterà una valvola di una diga.
Quella che era nata come una questione tra India e Pakistan è ora parte di un’equazione strategica più ampia. La Cina, il più stretto alleato del Pakistan, controlla la sorgente del Brahmaputra in Tibet. Se le tensioni dovessero aumentare, Pechino potrebbe usare questa leva per interrompere i flussi verso l’India nord-orientale.
L’emergere di una “deterrenza idrica” multi-vettore significa che la prossima guerra nell’Asia meridionale potrebbe iniziare non con le armi da fuoco, ma con delle dighe.
La guerra idrologica non è più un’ipotesi. È realtà. E l’esempio dell’India potrebbe ispirare altri. In una regione già destabilizzata da dispute di confine e disuguaglianze economiche, la militarizzazione dell’acqua segna una fase nuova e pericolosa.
Il bacino dell’Indo, un tempo simbolo di una improbabile cooperazione, sta diventando l’epicentro del prossimo grande conflitto dell’Asia meridionale.
