Le monarchie del Golfo Persico si stanno silenziosamente spostando da Tel Aviv e Washington verso Teheran e un ordine di sicurezza multipolare più promettente.

Il corrispondente di The Cradle nel Golfo Persico, thecradle.co, 8 luglio 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
Il recente scontro tra Iran e Israele ha segnato un cambiamento decisivo negli equilibri di potere regionali, in particolare nel Golfo Persico. La risposta militare diretta e calibrata dell’Iran, attuata attraverso il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), ha messo a nudo le vulnerabilità strategiche di Tel Aviv e ha costretto le capitali del Golfo, soprattutto Riyadh, a riconsiderare i presupposti di lunga data sulla sicurezza regionale.
La ricalibrazione guidata dall’Arabia Saudita non è emersa isolatamente. Anni di fallimenti politici, militari e diplomatici cumulativi sotto l’egida di Stati Uniti e Israele hanno spinto gli stati del Golfo Persico a ricercare accordi di sicurezza più sostenibili e non conflittuali. Ciò a cui stiamo assistendo è il lento smantellamento di alleanze obsolete e l’apertura di canali pragmatici e orientati agli interessi con Teheran.
La strategia di guerra dell’Iran ridefinisce le aspettative del Golfo
La gestione da parte di Teheran dell’ultimo scontro militare – con il suo affidamento su attacchi di precisione, alleanze regionali e un’escalation calibrata – ha dimostrato un nuovo livello di deterrenza. Utilizzando le sue reti regionali, le basi missilistiche e droni sofisticati, Teheran ha gestito lo scontro con molta attenzione, evitando di essere trascinata in una guerra totale, ma allo stesso tempo inviando chiari messaggi al nemico sulla sua capacità di dissuadere ed espandere lo scontro se necessario.
Il messaggio al Golfo era chiaro: l’Iran non è né isolato né vulnerabile. È in grado di influenzare gli esiti su più fronti senza sfociare in una guerra su vasta scala.
In un’intervista a The Cradle, un diplomatico arabo ben informato afferma:
Questa guerra ha segnato una svolta nel pensiero saudita. Riyadh ora comprende che l’Iran è una potenza militare matura, immune alla coercizione. La pressione tradizionale non funziona più. La sicurezza saudita ora dipende da un impegno diretto con l’Iran, non da Israele, e certamente non dall’ombrello di sicurezza americano in declino.
Al centro del malcontento saudita c’è la crescente aggressività di Tel Aviv contro i palestinesi e il suo netto rifiuto delle iniziative di pace arabe, tra cui l’Iniziativa di pace araba del 2002 guidata da Riyadh. L’intransigenza del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu – in particolare l’aggressiva espansione degli insediamenti a Gerusalemme e nella Cisgiordania occupata – ha allarmato i sauditi. Queste provocazioni non solo sabotano gli sforzi diplomatici, ma colpiscono anche la legittimità panislamica del regno, costringendo a rivalutare l’utilità di Israele come partner strategico. Come osserva la fonte diplomatica:
“Questa situazione di stallo politico in Israele spinge l’Arabia Saudita a riconsiderare le sue scommesse regionali e a considerare l’Iran come un fattore di potenza regionale che non può essere ignorato”.
Riad si rivolge a Teheran: contenimento anziché scontro
A porte chiuse, l’Arabia Saudita sta portando avanti una strategia di “contenimento positivo” con l’Iran. Questo segna un netto distacco dall’era delle guerre per procura e dell’ostilità ideologica. Riad non cerca più lo scontro, ma il coordinamento, in particolare sulle questioni della sicurezza regionale ed energetica.
Fonti diplomatiche informano The Cradle che la riapertura delle ambasciate e il rafforzamento del coordinamento in materia di sicurezza non sono semplici effetti collaterali della mediazione cinese. Riflettono una più profonda convinzione saudita: che la normalizzazione dei rapporti con Israele non produca significativi vantaggi in termini di sicurezza, soprattutto dopo le vulnerabilità di Tel Aviv rivelate durante l’ultima guerra.
Il nuovo percorso di Riad segnala anche la sua crescente propensione a trovare soluzioni regionali lontane da Washington, una posizione sempre più condivisa da altri stati del Golfo Persico.
Da parte sua, la Repubblica Islamica si sta muovendo rapidamente per convertire la leva militare in capitale politico. Oltre a mettere in mostra le sue capacità missilistiche e di droni, l’Iran sta ora corteggiando attivamente gli stati arabi del Golfo Persico con proposte di cooperazione economica, integrazione regionale e costruzione di un’architettura di sicurezza interna.
Fonti informate rivelano a The Cradle che l’Iran sta perseguendo un dialogo completo con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Oman. Questo include partnership economiche e un allineamento su questioni regionali chiave, dallo Yemen alla Siria e all’Iraq.
La posizione di Teheran è coerente con la sua visione affermata da tempo: la sicurezza del Golfo Persico deve essere decisa dagli stati e dai popoli che lo circondano, non da interessi stranieri.
Nel Golfo sta prendendo forma una nuova alleanza
Questa non è più una questione esclusivamente saudita. Gli Emirati Arabi Uniti stanno ampliando la cooperazione economica con Teheran, mantenendo al contempo canali di sicurezza aperti. Il Qatar mantiene una solida linea diplomatica con l’Iran, sfruttando la sua credibilità per mediare i principali colloqui regionali. L’Oman rimane il ponte di fiducia e il mediatore discreto della regione.
Un diplomatico arabo informato sui recenti sviluppi racconta a The Cradle:
I prossimi incontri tra Golfo e Iran riguarderanno la navigazione nello Stretto di Hormuz, il coordinamento energetico e più ampi dossier regionali. Si sta creando consenso sul fatto che l’intesa con l’Iran apra le porte a una fase più stabile nel Golfo.
In mezzo a questi riallineamenti, Israele si ritrova emarginato a livello regionale: il suo progetto di creare un asse anti-Iran è crollato. Gli Accordi di Abramo, mediati dagli Stati Uniti e un tempo strombazzati come un trionfo strategico, ora suscitano poco più di un cortese disinteresse in tutto il Golfo, con persino i firmatari arabi che hanno fatto marcia indietro sul loro impegno.
L’élite politica di Riyadh ora mette apertamente in discussione l’utilità della normalizzazione. Mentre Tel Aviv continua la sua guerra contro Gaza, le popolazioni del Golfo diventano più esplicite e i leader sauditi più cauti.
La posizione saudita è taciuta ma inequivocabile: Tel Aviv non può più garantire la sicurezza, né può più essere considerata il custode della stabilità regionale.
Il pragmatismo vince sull’ideologia
Questo disgelo tra Arabia Saudita e Iran non è ideologico, è una realpolitik intransigente. Come ha dichiarato a The Cradle un altro alto diplomatico arabo:
Riad sta abbandonando le illusioni. Il dialogo con i vicini, non l’alleanza con Washington e Tel Aviv, è ora la via per salvaguardare gli interessi sauditi. Ora si tratta di fatti, non di vecchie lealtà. L’Iran è ormai una componente fissa dell’equazione della sicurezza del Golfo.
Il binomio “Golfo contro Iran” sta svanendo. L’ultima guerra ha accelerato una tendenza in atto da tempo: il crollo della Pax Americana e l’emergere del regionalismo multipolare. Il Golfo sta tracciando una nuova rotta, meno soggetta ai diktat di Stati Uniti e Israele.
Oggi, l’Arabia Saudita vede Teheran non come una minaccia da neutralizzare, ma come una potenza da coinvolgere. I quadri di sicurezza regionale vengono costruiti dall’interno. Israele, nel frattempo, nonostante le sue numerose pontificazioni su un “Medio Oriente” guidato da Tel Aviv e allineato agli arabi, sta lottando per rimanere rilevante.
Se queste dinamiche si manterranno, saremo sull’orlo di una transizione storica, che potrebbe finalmente consentire al Golfo Persico di definire la propria sicurezza e sovranità, alle proprie condizioni. Questo non è un futuro ideale. Ma è un passo avanti strategico dopo decenni di sottomissione. L’Arabia Saudita si sta volgendo verso l’Iran, non per amore, ma per logica.