La retorica aggressiva di Erdogan sulla Siria smaschera un disperato tentativo di distogliere l’attenzione dalla crisi interna attraverso l’espansione militare e il rilancio di miti nazionalisti.

di Aydin Sezer, thecradle.co, 4 settembre 2025 — Trasduzione a cura di Old Hunter
La spada sulla penna: il nuovo messaggio di Ankara
La politica in Turchia, in particolare la sua politica estera, è un gioco in codice di simbolismo e spettacolarità. La recente dichiarazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, “Se la spada esce dal fodero, non ci sarà spazio per la penna e la parola”, rilasciata durante le commemorazioni del 954° anniversario della battaglia di Malazgirt (la vittoria dei Selgiuchidi del 1071 che segnò l’inizio del dominio turco in Anatolia), è stata ben più di un semplice sfoggio retorico. Era un segnale, un manifesto schietto per l’avanzata dell’agenda militare di Ankara e per la sua ricalibrazione politica all’interno della Siria.
Questa dichiarazione è stata fatta mentre il governo riconsiderava la questione curda come parte di una “Turchia libera dal terrorismo”. Erdogan ha continuato:
“Come tutti i popoli fratelli in Siria, la sicurezza, la pace e il benessere dei curdi sono garantiti in Turchia. Chi si orienterà verso Ankara e Damasco vincerà. Chi rispetterà la legge della fratellanza e del buon vicinato vincerà. Chi si perderà e cercherà nuovi protettori stranieri alla fine perderà”.
La frase che riassume queste affermazioni, “Se la spada esce dal fodero, non ci sarà spazio per la penna e la parola”, non è una mera metafora, poiché riflette l’intenzione di Ankara di rimodellare le equazioni interne e regionali attraverso un’azione militare decisiva, possibilmente irreversibile.
Sfruttare l’escalation israeliana
Per decifrare la politica di Ankara in Siria, è essenziale andare oltre i titoli dei giornali. Mentre le escalation israeliane in Siria dominano il dibattito regionale, per la Turchia offrono una cortina fumogena strategica. Anziché affrontare direttamente lo stato di occupazione, Ankara sfrutta questi momenti per sondare le risposte dei principali attori – Russia, Stati Uniti, Iran – e per testare la resilienza delle strutture di autonomia curde e druse nel nord.
Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha ribadito questo approccio affermando: “Non rappresentiamo una minaccia per un altro Stato, finché un altro Stato non rappresenta una minaccia per noi”.
Ankara vede opportunità in ogni frammento. L’instabilità alimentata dagli attacchi israeliani apre alla Turchia uno spazio di manovra per consolidare la sua influenza ad Aleppo e oltre, non “affrontando” Tel Aviv, ma riallineando i pezzi che ha sparso.
Verso Aleppo: campagne di conquista e distrazione
In prima linea in questi obiettivi ci sono Aleppo e i suoi dintorni, e perfino il Rojava. Tra le crescenti speculazioni sulle elezioni anticipate, Erdogan cerca un trionfo in politica estera per compensare le crisi interne, in particolare il declino economico. Mosse come commissioni parlamentari e iniziative di pace di “nuova generazione” servono solo a distrarre.
Il vero obiettivo è molto più audace: una campagna per assorbire Aleppo e Rojava nella sfera di influenza della Turchia prima delle elezioni.
Sono allo studio due scenari:
Il primo prevede un’operazione congiunta delle Forze Armate turche e dell’Esercito Nazionale Siriano per creare un corridoio che raggiunga il centro di Aleppo. Ciò garantirebbe a Erdogan un colpo di stato di propaganda nazionalista – il “Conquistatore di Aleppo” – e soffocherebbe opportunamente le tensioni economiche.
Il secondo scenario, più radicale, prevede referendum ad Aleppo e nella Siria settentrionale sotto il controllo turco, spianando la strada al rinvio delle elezioni con il pretesto della “sicurezza nazionale” e della “stabilità regionale”. In questo caso, il governo guadagnerebbe tempo e rafforzerebbe la propria legittimità politica.
In entrambi i casi, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) al potere mira a riscrivere la mappa politica della Turchia modificando la realtà territoriale della Siria.
Il fantasma del Patto Nazionale
Tali mosse richiedono una copertura storica. Entra in gioco il “Misak-i Milli” (il Patto Nazionale), un tempo sbiadito ricordo ottomano, ora risorto come dottrina strategica. Che sia per nostalgia ottomana o per l’esercito turco, entrambe le narrazioni convergono su un unico punto: Aleppo, Latakia e Deir Ezzor vengono riformulate come rivendicazioni ancestrali.
In un discorso dell’ottobre dello scorso anno, Erdogan ha affermato:
“Chiunque minacci la nostra patria, non esiteremo ad agire, indipendentemente da chi sia. Non permetteremo alcun intervento o alterazione, né sui nostri 782.000 chilometri quadrati di territorio nazionale, né all’interno dei confini del Patto Nazionale”.
Chiaramente, non si tratta di mero revisionismo, ma di una forma di mitologia politica usata come giustificazione per la ridefinizione dei confini, mascherata dal linguaggio del dovere spirituale e storico. Ankara sta elaborando una missione sacra per ambizione geopolitica.
Economia dell’annessione: energia, commercio e premio agricolo
La potenziale presenza della Turchia sull’asse di Aleppo e nella Siria settentrionale è di importanza strategica dal punto di vista militare, politico, economico ed energetico. Il potenziale agricolo della regione e la sua posizione lungo i corridoi energetici e le rotte commerciali che collegano il Levante all’Anatolia influenzano anche gli interessi economici a lungo termine di Ankara.
In questo contesto, la visione di Misak-i Milli dovrebbe essere valutata non solo dal punto di vista dell’integrità territoriale, ma anche da quello dell’indipendenza economica e della sicurezza energetica in un ordine sempre più multipolare.
Rischi e riallineamenti in una tempesta multipolare
Niente di tutto questo avviene nel vuoto. Ogni mossa di Ankara per ridisegnare i confini o trincerarsi più profondamente nel territorio siriano si scontra con i limiti stabiliti dal diritto internazionale e dalla rivalità geopolitica.
Le modifiche ai confini tramite la forza restano radioattive con l’attuale ordine, una realtà che non sfugge al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, all’UE e a Washington. Se Tel Aviv intensificasse l’aggressione, i già deboli schieramenti regionali della Turchia potrebbero ulteriormente rompersi.
Il campo di battaglia stesso è sovraffollato. Resti dell’apparato frammentato del precedente governo sono ancora aggrappati a parti dello Stato. Milizie curde sostenute dall’Occidente dominano ampie zone del nord. Il conflitto settario con la minoranza drusa è rimasto irrisolto, le forze russe rimangono radicate, mentre decenni di dura influenza iraniana sono atavici. Queste presenze concorrenti non solo complicano i calcoli di Ankara, ma minacciano anche di trasformare qualsiasi incursione in uno scontro più ampio.
Eppure, per Erdogan, questa volatilità è una risorsa. Lo spettacolo del conflitto distoglie l’attenzione dalla crisi interna. Il senso di assedio diventa una risorsa politica. La diplomazia, in un clima del genere, diventa performance. Ciò che conta è chi controlla il territorio, chi detta il ritmo e chi emerge con la narrazione. Per Erdogan, non c’è spazio per la de-escalation.
La prossima fase della politica turca in Siria non sarà scritta in comunicati o accordi di cessate il fuoco. Sarà impressa sul terreno, negli avamposti militari, nei confini modificati e nei fatti compiuti politici. E una volta che la polvere si sarà depositata, la storia non sarà raccontata dai diplomatici. Sarà raccontata da chiunque detenga ancora la “spada”.