LA “GUERRA SANTA” DI NETANYAHU VACILLA: SETTE FRONTI, ZERO VITTORIE

DiOld Hunter

13 Settembre 2025
La “guerra su più fronti” di Israele, durata due anni e guidata dall’autoproclamata “missione storica e spirituale” di Benjamin Netanyahu, sta minando il sostegno internazionale e alimentando il riconoscimento palestinese, trasformando i guadagni militari a breve termine in un’imminente sconfitta strategica.

di Mohamad Hasan Sweidan, thecradle.co, 12 settembre 2025   —    Traduzione a cura di Old Hunter


Da quasi due anni, Israele sta conducendo quella che Netanyahu definisce una “guerra su più fronti”. Questa guerra, oltre a Gaza, include Libano, Siria, Iraq, Yemen, Cisgiordania occupata e Iran. In una delle sue interviste, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato di sentirsi impegnato in una “missione storica e spirituale” e di essere “profondamente legato” alla visione della Terra Promessa e del Grande Israele. Con queste parole, Netanyahu conferma che quella che definisce una “guerra su più fronti” è motivata da motivazioni sia religiose che politiche. 

Il pericolo risiede nel fatto che Netanyahu e la destra sionista religiosa radicale credono che il mondo debba avvicinarsi all’orlo di una grande guerra “affinché il Messia discenda e lo salvi”. Per questo motivo, incoraggiano il proseguimento e l’espansione della violenza a Gaza, in Libano, Iran e oltre, vedendo questa come “l’era del Messia”.

I sette fronti della guerra

Il 9 ottobre 2023, appena due giorni dopo l’Operazione Al-Aqsa Flood, durante un incontro con i sindaci delle città di confine meridionali colpite dall’attacco del 7 ottobre, il Primo Ministro israeliano ha dichiarato che la risposta di Tel Aviv all’assalto multifronte senza precedenti lanciato dai combattenti palestinesi da Gaza “cambierà il Medio Oriente“. Da quel momento, è diventato chiaro che la guerra non sarebbe rimasta confinata a Gaza, ma che Israele l’avrebbe estesa per raggiungere il suo obiettivo principale, ovvero un nuovo ordine regionale in cui l’equilibrio di potere favorisca Tel Aviv.
I leader israeliani hanno ripetutamente affermato di combattere simultaneamente su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Cisgiordania occupata e Iran, descrivendo tutti questi conflitti come mirati a un “asse guidato dall’Iran” che presumibilmente cerca di “distruggere lo Stato ebraico”.

Per raggiungere questo obiettivo, Israele persegue due strade principali: indebolire i suoi nemici e imporre con la forza il rispetto degli altri stati della regione, compresi gli alleati degli Stati Uniti. Sulla prima strada, Israele si è affidato ad attacchi militari diretti, inquadrandoli come “guerre su più fronti” con una logica “difensiva”. 
Per quanto riguarda la seconda strada, ovvero imporre il rispetto degli accordi con la forza, Israele ha ripetutamente attaccato la “nuova Siria”, uno stato non più ostile a Israele o agli Stati Uniti, e ha occupato parti del suo territorio. Le aperture costantemente positive della Siria verso Tel Aviv non hanno scoraggiato Israele che ha continuato nei suoi attacchi e nella continua occupazione.
Nel frattempo, il recente attacco israeliano al Qatar il 9 settembre si inserisce in due percorsi paralleli della sua politica. Il primo è diretto ai leader politici di Hamas, a indicare che non esiste un rifugio sicuro per loro in nessuna parte del mondo. Il secondo trasmette un messaggio chiaro al Qatar e agli altri alleati degli Stati Uniti nella regione: l’approccio di Israele non si basa su interessi condivisi, ma sul timore delle conseguenze. Le alleanze basate su interessi comuni sono una cosa, e l’obbedienza imposta attraverso la paura è un’altra. In questa fase, questo è esattamente il messaggio che Trump cerca di inviare agli stati della regione: “Obbeditemi, o non posso garantire che Israele rimarrà lontano da voi”. Fondamentalmente, questo avvertimento è rivolto a tutti gli stati della regione, senza eccezioni.

Gli stati della regione devono comprendere che ciò che un tempo proteggeva le loro capitali dall’aggressione israelo-americana era la presenza dell’Asse della Resistenza, che ha mantenuto per anni un equilibrio di deterrenza regionale. Una volta indebolito questo asse, Israele è stato liberato dai vincoli e ha iniziato a operare senza limiti. Non bisogna dimenticare che il Qatar è ufficialmente designato come “principale alleato non NATO” degli Stati Uniti, uno status conferito dall’amministrazione Biden dal marzo 2022. Inoltre, il Qatar ospita la base aerea di Al-Udeid, che è molto più di una base militare convenzionale, ma funge da quartier generale del Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) nella regione, rendendolo uno dei centri strategicamente più importanti per Washington a livello mondiale. Ma niente di tutto ciò ha impedito a Tel Aviv di attaccarlo.

Cosa ha ottenuto Israele?

Dobbiamo iniziare definendo il risultato strategico. Nelle relazioni internazionali, un risultato strategico può essere definito come il raggiungimento di obiettivi a lungo termine che rimodellano l’equilibrio di potere, rafforzano la sicurezza dello Stato o espandono l’influenza nel sistema internazionale. Il risultato strategico differisce dai guadagni tattici o operativi a breve termine in quanto “produce cambiamenti nelle strutture fondamentali di interazione tra Stati e attori non statali”. Ciò significa che il risultato strategico deve consolidare un vantaggio duraturo nell’arena geopolitica.
Da questa prospettiva, Israele non è riuscito finora a ottenere alcun risultato strategico in Asia occidentale. Al contrario, negli ultimi due anni, ha accumulato una serie di guadagni tattici che cerca di trasformare in vantaggi strategici. A Gaza, Tel Aviv non è ancora riuscita a eliminare Hamas, e in Libano non è riuscita a smantellare Hezbollah, pur essendo riuscita a indebolire entrambi i movimenti di resistenza. In Iran, i suoi tentativi di cambiare il regime o di dissuadere Teheran dal sostenere i movimenti di resistenza sono falliti. In Yemen, le sue azioni non hanno fermato il sostegno di Sanaa a Gaza.

Pertanto, il nocciolo della battaglia attuale è impedire a Tel Aviv di trasformare i suoi guadagni tattici in guadagni strategici consolidati. Se Israele non riesce a eliminare la resistenza palestinese, non riesce a isolare e disarmare Hezbollah in Libano, vede l’Iran continuare a sostenere i movimenti di resistenza e il discorso anti-egemonia, e se il fronte di sostegno yemenita rimane saldo, allora Israele avrà esaurito il massimo del suo potere per imporre una realtà regionale che gli garantisca una superiorità temporanea, neutralizzando la resistenza per un certo periodo, ma rimanendo fragile e insostenibile nel medio e lungo termine.

L’esito di questa lotta dipende in ultima analisi dalla capacità degli oppositori di Tel Aviv di superare le molteplici sfide create dalle sue guerre in Asia occidentale. O le forze della resistenza riescono a sventare i tentativi di Tel Aviv di trasformare guadagni temporanei in un risultato strategico a lungo termine, oppure Tel Aviv e Washington riescono a sfruttare questi guadagni tattici per imporre una nuova realtà strategica che serva i loro interessi.
Sorge quindi una domanda cruciale: quale prezzo ha pagato Israele per raggiungere i suoi attuali “risultati”? 

In un recente articolo intitolato “Israele sta combattendo una guerra che non può vincere”, Ami Ayalon, ex capo della Marina israeliana ed ex direttore dello Shin Bet, scrive:

“La rotta che Israele sta attualmente seguendo eroderà i trattati di pace esistenti con Egitto e Giordania, approfondirà le divisioni interne e acuirà l’isolamento internazionale. Alimenterà un maggiore estremismo in tutta la regione, intensificherà la violenza religioso-nazionalista da parte di gruppi jihadisti globali che prosperano nel caos, indebolirà il sostegno dei politici e dei cittadini statunitensi e provocherà un aumento dell’antisemitismo in tutto il mondo”.

Conclude affermando:

“La deterrenza militare di Israele è stata ripristinata, dimostrando la sua capacità di difendersi e dissuadere i suoi nemici. Ma la sola forza non può smantellare la rete di delegati dell’Iran né garantire una pace e una stabilità durature a Israele per le generazioni a venire”.

Inoltre, a causa dei crimini israeliani a Gaza, la responsabilità della catastrofe umanitaria è passata da Hamas a Israele. Per molto tempo, Tel Aviv ha cercato di dipingere Hamas come il principale responsabile della difficile realtà umanitaria di Gaza. Tuttavia, l’aggressività illimitata di Israele ha minato questo tentativo.

Un sondaggio condotto dal Ministero degli Affari Esteri israeliano per valutarne la reputazione a livello globale ha rilevato che gli intervistati di Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Francia ritengono che la maggior parte delle persone uccise da Israele a Gaza siano civili. Il sondaggio ha anche rivelato che gli europei, in particolare, “concordano nel definire Israele uno stato che pratica il genocidio e l’apartheid, nonostante la loro opposizione ad Hamas e all’Iran”. Inoltre, un recente sondaggio della Quinnipiac University ha indicato che il 37% degli elettori statunitensi sostiene i palestinesi, rispetto al 36% che sostiene gli israeliani. Il rischio di queste cifre è che mostrino che Israele sta perdendo terreno nell’opinione pubblica occidentale, il che potrebbe rendere il sostegno a Tel Aviv una questione chiave nelle future elezioni occidentali.
Inoltre, nove stati hanno completato le procedure legali necessarie per riconoscere formalmente lo Stato di Palestina lo scorso anno, il più grande incremento annuale dal 2011:

Data Stato
20 aprileBarbados
23 aprileGiamaica
2 maggioTrinidad e Tobago
7 maggioBahamas
28 maggioNorvegia
28 maggioIrlanda
28 maggioSpagna
4 giugnoSlovenia
21 giugnoArmenia

Questi riconoscimenti hanno portato il totale globale da 138 a 147 nel 2024, il che significa che quasi tre quarti degli Stati membri delle Nazioni Unite (147 su 193) riconoscono ufficialmente lo Stato di Palestina.
Inoltre, tre dei principali alleati degli Stati Uniti – Francia, Regno Unito e Canada – hanno annunciato l’intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, mentre diversi altri Paesi stanno prendendo in considerazione la stessa iniziativa. Questo segna un cambiamento significativo che isola ulteriormente Israele, in un contesto di crescente preoccupazione internazionale per la crisi umanitaria di Gaza. Questi tre Paesi diventeranno i primi membri del G7 a riconoscere formalmente uno Stato palestinese, una chiara sfida per Israele. Se dovessero procedere, gli Stati Uniti rimarrebbero l’unico membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a non riconoscere la Palestina.

Una nuova dottrina di combattimento

Non c’è dubbio che il 7 ottobre abbia segnato una svolta nella strategia militare di Israele. Da quella data in poi, Israele abbandonò per la prima volta la dottrina di combattimento stabilita da David Ben Gurion, il primo Primo Ministro israeliano. Le guerre lampo non erano più la sua opzione preferita, la questione del recupero dei prigionieri non era più una priorità centrale e la soglia per le perdite umane e materiali in qualsiasi confronto militare aumentò significativamente. Questo cambiamento costringe tutti gli stati della regione a ricalibrare le proprie strategie per adeguarle alla nuova dottrina di combattimento di Tel Aviv.
È importante sottolineare che Ben Gurion progettò la dottrina di combattimento di Israele per adattarla alle sue realtà geografiche e demografiche. Questo potrebbe aver spinto il colonnello israeliano in pensione Gur Laish, ex capo della pianificazione bellica dell’Aeronautica Militare israeliana e un partecipante chiave alla pianificazione strategica dell’esercito, a pubblicare un documento il 19 agosto presso il Begin-Sadat Center for Strategic Studies, in cui metteva in guardia i leader israeliani dall’adottare una nuova dottrina di sicurezza che ignorasse i limiti del potere di Israele. Tuttavia, resta aperta la seguente domanda cruciale: Netanyahu riuscirà a dimostrare l’efficacia del nuovo approccio di Israele, oppure l’abbandono della dottrina di Ben Gurion segnerà l’inizio della fine di Israele?

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