IL “PIANO B” DI TRUMP PER USCIRE DAL VICOLO CIECO DI GAZA

DiOld Hunter

3 Ottobre 2025
Il piano Trump è una “Riviera 2.0” per alleggerire la pressione interna e internazionale sulla Casa Bianca e su Israele, senza concedere nulla ai palestinesi. Ma il fallimento è dietro l’angolo.
Photo by Mohammed Abubakr

di Roberto Iannuzzi, robertoiannuzzi.substack.com, 3 ottobre 2025

Presentato con grande fanfara mediatica, il “piano di pace” del presidente americano Donald Trump per Gaza è essenzialmente un coup de théâtre per tentare di uscire da una situazione sempre più ingestibile per la Casa Bianca, e pericolosamente fallimentare per Israele.

La rivolta dell’opinione pubblica mondiale

La reputazione dello Stato ebraico sta crollando a livello internazionale. Perfino negli Stati Uniti, paese storicamente amico, la maggioranza degli americani ritiene che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza.

Ma il dato più preoccupante, per la Casa Bianca e per Tel Aviv, è quello dei giovani statunitensi. Fino al 61% della fascia compresa tra i 18 e i 29 anni ormai è schierato dalla parte dei palestinesi, appena il 19% è a favore di Israele.

Ad inquietare particolarmente Trump è la spaccatura all’interno del movimento MAGA (Make America Great Again) che lo sostiene, dove una componente in ascesa accusa Israele non solo dello sterminio di Gaza, ma di indebite ingerenze nelle scelte di politica estera degli Stati Uniti.

L’assassinio del giovane attivista conservatore Charlie Kirk, divenuto via via più critico nei confronti dello Stato ebraico partendo da iniziali posizioni filoisraeliane, ha suscitato un vespaio nella base trumpiana e seri grattacapi non solo per il presidente, ma anche per il governo Netanyahu.

Dopo la scellerata decisione Israeliana di bombardare la capitale del Qatar (uno dei principali alleati di Washington in Medio Oriente) nel tentativo (fallito) di decapitare la leadership di Hamas all’estero, Trump aveva anche il problema di riconquistare la fiducia fortemente scossa delle monarchie arabe del Golfo.

Significativo poi il panorama emerso dall’Assemblea generale dell’ONU a fine settembre. Al palazzo di vetro la questione palestinese, oltre a provocare la dura quanto scontata condanna di Israele da parte di tutti i paesi arabi, ha costituito il principale collante di una crescente mobilitazione del Sud del mondo contro l’ingiusto ordine mondiale a guida americana.

Facendosi portavoce di molti, il presidente colombiano Gustavo Petro ha chiesto che le Nazioni Unite autorizzino l’invio di una forza internazionale a protezione dei palestinesi, attraverso la procedura “Uniting for Peace” che permetterebbe di aggirare lo scontato veto americano attraverso una maggioranza qualificata all’Assemblea generale dell’ONU.

Sul quotidiano israeliano Ma’ariv, il noto commentatore Ben Caspit ha osservato che il discorso del premier Benjamin Netanyahu all’Assemblea generale ha convinto gli israeliani ma non il resto del mondo, “che ci vede come assassini di bambini, eredi dei nazisti e perpetratori di un genocidio”.

Perfino Francia, Regno Unito, Canada, Australia, Portogallo e Belgio, per distanziarsi da Israele, hanno ritenuto opportuno riconoscere lo Stato palestinese alle Nazioni Unite.

Sebbene la mossa sia meramente simbolica – ed anche sostanzialmente ipocrita visto che nessuno di questi paesi ha imposto sanzioni economiche a Israele, e molti continuano perfino a vendere armi allo Stato ebraico – essa mette ulteriormente in imbarazzo la Casa Bianca.

Una simile decisione, peraltro, è dettata anche dalla necessità di “rabbonire” le piazze occidentali mobilitatesi in maniera crescente contro il genocidio, nuovamente in fase di accelerazione con la spaventosa offensiva su Gaza City.

I grattacapi di Israele

Tali piazze alimentano iniziative come quella della Global Sumud Flotilla, che a loro volta contribuiscono a mantenere alta l’attenzione internazionale su Gaza e costituiscono un ennesimo problema per lo Stato ebraico.

Quest’ultimo deve fare i conti con una guerra che si protrae ormai da due anni, e che ha visto l’esercito israeliano, costituito in gran parte da riservisti e non strutturato per affrontare conflitti di lunga durata, estendere le sue operazioni su sette fronti, come sostiene il governo Netanyahu: non solo Gaza, ma anche Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen.

Questo prolungato sforzo bellico sta logorando la società e l’economia israeliana, oltre che naturalmente l’esercito. Ciò ha portato più volte a duri scontri fra i vertici militari e il governo.

Ultimamente, il comandante delle forze armate Eyal Zamir ha messo in guardia Netanyahu sul fatto che l’offensiva militare su Gaza City non ha un obiettivo politico definito, e mette inutilmente in pericolo gli ostaggi e i soldati israeliani. In precedenza egli aveva definito l’operazione “una trappola” per le forze armate israeliane, oltre che un’impresa che avrebbe richiesto svariati mesi.

In occasione del bombardamento della capitale del Qatar, il governo Netanyahu è stato costretto a organizzare l’operazione affidandosi all’aeronautica e allo Shin Bet (il servizio segreto interno) a causa del rifiuto del Mossad e dell’esercito di prendervi parte. Cosa che ha contribuito al suo fallimento.

Ultimatum ai palestinesi

È questo panorama infuocato a livello internazionale e sul fronte interno, a cui si sommano le crescenti difficoltà strategiche di Israele, ad aver spinto l’amministrazione Trump a concepire un “piano B” rispetto alla “Riviera del Medio Oriente” proposta dal presidente a febbraio.

Se quest’ultima prevedeva la pulizia etnica e la “riqualificazione” della Striscia di Gaza al fine di trasformarla in una specie di Dubai sul Mediterraneo riservata ad un’élite internazionale di super-ricchi, il nuovo piano Trump si differenzia dall’idea originaria principalmente per il fatto di rinunciare alla deportazione dei palestinesi.

Ma esso continua a mostrare numerosi problemi.

Presentato in pompa magna da Trump alla Casa Bianca, alla presenza di Netanyahu, tale piano non costituisce una proposta negoziale, ma un ultimatum nei confronti di Hamas e dei palestinesi, che non sono stati in alcun modo consultati.

Sia il presidente statunitense che il premier israeliano hanno chiarito che non offrono scelta a Hamas. Se il gruppo palestinese rifiuterà il piano, “Israele avrà il mio pieno appoggio per finire il lavoro” distruggendo la Striscia, ha dichiarato Trump.

Il piano articolato in 20 punti prevede un cessate il fuoco, immediatamente seguito (entro 72 ore) dalla liberazione degli ostaggi israeliani in cambio del rilascio di palestinesi detenuti da Israele.

Il ritiro delle forze armate israeliane sarà progressivo e dilazionato nel tempo, subordinato al disarmo di Hamas ed alla creazione di un governo di transizione supervisionato da un organismo internazionale (il “Consiglio di Pace”) guidato dallo stesso Trump e dall’ex premier britannico Tony Blair.

Un “piano di sviluppo economico” per la ricostruzione di Gaza verrà formulato da un “consiglio di esperti che hanno contribuito a dar vita ad alcune delle fiorenti e moderne ‘città miracolo’ del Medio Oriente”.

Il piano precisa che “nessuno sarà costretto a lasciare Gaza”, mentre coloro che desiderano farlo “saranno liberi di tornare”.

Durante la presentazione, Trump ha addossato ad Hamas l’intera colpa del conflitto, trascurando totalmente l’immane devastazione provocata da Israele nella Striscia, la pluriennale occupazione militare israeliana e le origini della questione palestinese.

Fonti arabe e palestinesi hanno sottolineato che il piano manca di un calendario definito e di una chiara strategia di implementazione. In particolare, manca un programma dettagliato per il ritiro delle forze armate israeliane dalla Striscia. Altri hanno osservato che l’organismo internazionale di supervisione rischia di trasformarsi in un “governo straniero permanente”.

Lo stesso Netanyahu ha dichiarato in presenza di Trump che Israele manterrà un generale controllo di sicurezza sulla Striscia, in particolare su un “perimetro di sicurezza” entro i confini dell’enclave, a tempo indeterminato a prescindere dalla prevista presenza di una forza internazionale di pace.

Egli ha aggiunto che il governo di transizione non includerà né Hamas né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), “ma solo coloro che si impegnano per una vera pace con Israele”.

Un progetto neocoloniale

Tornato in patria, Netanyahu ha candidamente rivelato al pubblico israeliano qual è, a suo giudizio, l’obiettivo del piano di pace lanciato da Trump:

“Questa è una visita storica. Invece di essere isolati da Hamas, abbiamo ribaltato la situazione e isolato Hamas. Ora il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini che abbiamo stabilito insieme al presidente Trump: rilasciare tutti i nostri ostaggi, vivi e deceduti, mentre le IDF [le Forze di Difesa Israeliane] rimangono nella maggior parte della Striscia. Chi l’avrebbe mai creduto? Dopotutto, la gente dice sempre che le IDF dovrebbero ritirarsi… Assolutamente no, non succederà”.

In altre parole, egli ha ammesso che il piano Trump è un’operazione volta ad alleggerire la pressione internazionale su Israele scaricandola su Hamas. Ed ha aggiunto che non intende ritirare l’esercito dall’enclave palestinese.

Il “piano di pace” rischia dunque di somigliare ai precedenti accordi sul cessate il fuoco: un artificio per ottenere la liberazione degli ostaggi e la resa incondizionata dell’avversario, oppure un modo per giustificare la continuazione dello sterminio a Gaza sulla base del rifiuto, da parte di Hamas, di un accordo capestro.

Nel primo caso, Gaza verrebbe ceduta al “Consiglio di Pace” guidato da Trump e Blair, insieme a figure come il genero di Trump, Jared Kushner, e grandi imprenditori americani e della regione, secondo una bozza di documento visionata dal Guardian.

Tale organismo rischierebbe di esautorare completamente i palestinesi, trasformandosi a tutti gli effetti in una sorta di impresa neocoloniale.

Blair, uno dei principali responsabili della disastrosa invasione dell’Iraq, ha successivamente svolto lucrose attività di consulenza per le monarchie del Golfo ed altri governi autoritari.

Il Tony Blair Institute (TBI) ha registrato un forte incremento di introiti supportando “programmi di modernizzazione” in paesi come Bahrein e Arabia Saudita. Blair ha già avuto un ruolo di primo piano nel precedente progetto di “Riviera del Medio Oriente” promosso da Trump per Gaza.

Insieme a Kushner, che ha stretti rapporti d’affari nel Golfo, egli è un ottimo trait d’union con questi paesi, i quali a loro volta sono legati a Israele da interessi incentrati sull’industria militare, sulla cyber-sicurezza e sull’intelligenza artificiale. Si può comprendere dunque come molti paesi arabi siano stati cooptati nel piano Trump.

L’ottavo fronte di Israele

È altrettanto interessante rilevare come uno dei principali finanziatori del TBI sia il miliardario ebreo americano Larry Ellison, cofondatore di Oracle, una delle maggiori compagnie tecnologiche negli USA.

Ellison conosce personalmente Netanyahu, e nel 2017 donò 16,6 milioni di dollari alle forze armate israeliane.

Skydance, società presieduta dal figlio David, ha acquistato la Paramount e ottenuto il controllo della CBS. Ellison ha anche preso parte alla scalata a TikTok, social in precedenza accusato di essere troppo filopalestinese.

Durante una recente conversazione con “social media influencer” filoisraeliani negli Stati Uniti, Netanyahu ha definito l’acquisto di TikTok da parte di Ellison come il più importante accordo, in questo momento, per preservare il consenso americano nei confronti di Israele.

La campagna farebbe parte di quello che responsabili israeliani hanno definito “l’ottavo fronte” (oltre ai sette sopracitati sui quali è impegnato Israele) per influenzare l’opinione pubblica americana a favore di dello Stato ebraico, anche pagando profumatamente influencer americani di area conservatrice allo scopo.

È nell’ambito di questo stesso programma che Israele ha ingaggiato una compagnia guidata da Brad Parscale, ex responsabile della campagna elettorale di Trump, per “inondare i social media di contenuti favorevoli a Israele.

Tale compagnia dovrebbe anche “addestrare” modelli di intelligenza artificiale come ChatGPT con contenuti filoisraeliani. L’obiettivo è riconquistare l’opinione pubblica americana.

Come ha ammesso Netanyahu, il piano Trump per Gaza fa anch’esso parte di una campagna per rovesciare la narrazione nei confronti dello Stato ebraico: se il piano dovesse essere rifiutato da Hamas, Israele avrebbe la giustificazione per proseguire la campagna militare a Gaza, con il pieno appoggio di Trump.

Qualora invece Hamas opti per la resa, come già detto, prenderebbe corpo il progetto della “Riviera 2.0” (sempre che non sia Netanyahu a tirarsi indietro ad un certo punto).

Ai palestinesi non resta che “scegliere” tra un futuro di sterminio ed uno di perenne soggiogamento, se una scelta del genere del tutto esiste.

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