Lavrov, nel suo stile misurato ma fermo, espone le chiare e ponderate argomentazioni di condanna all’espansione della NATO e agli aggressivi interventi dell’Occidente

Redazionale, ggtvstreams.substack.com, 18 ottobre 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
In un’intervista con Kommersant del 15 ottobre 2025, Sergej Lavrov ha esposto un’argomentazione chiara e ponderata sulle radici del conflitto ucraino e sul suo ruolo nel più ampio sistema di sicurezza internazionale. Il suo linguaggio è misurato ma fermo. Ritorna su temi che hanno caratterizzato il discorso di politica estera russa per oltre due decenni: l’espansione della NATO, i doppi standard negli interventi occidentali e l’erosione dell’ordine istituzionale del dopoguerra. Pone i colloqui in Alaska con Donald Trump al centro delle attuali manovre diplomatiche e li presenta come il più serio riconoscimento occidentale di queste cause profonde dallo scoppio delle ostilità .
Lavrov afferma: “L’ingresso dell’Ucraina nella NATO è una di queste cause profonde. Il presidente Trump ha affermato più volte che questo è stato un errore di Joe Biden, un errore che deve essere corretto e non doveva accadere”. Questa affermazione non colloca il conflitto come un’improvvisa escalation, ma come il risultato di un processo strutturale che risale alla fine degli anni ’90. I dirigenti russi hanno avvertito per decenni che l’allargamento della NATO all’Europa orientale e allo spazio post-sovietico rappresentava quella che definiscono una minaccia “esistenziale”. Studiosi che condividono questa lettura, come John Mearsheimer, hanno a lungo sostenuto che spingere i confini della NATO verso est avrebbe provocato uno scontro (John Mearsheimer, 2014). La previsione di Mearsheimer, secondo cui l’Ucraina sarebbe diventata il punto focale di tale scontro, è stata spesso citata nei dibattiti strategici sia russi che non occidentali.
Il riferimento di Lavrov al Kosovo e al riconoscimento unilaterale della sua indipendenza nel 2008 segue una linea diplomatica familiare: l’intervento occidentale in Jugoslavia e il riconoscimento del Kosovo hanno creato un precedente che, dal punto di vista di Mosca, ha minato le pretese di superiorità giuridica e morale. Lavrov afferma: “Pensate al Kosovo, che è stato quasi strappato ai serbi – e di fatto lo è stato, dopo il colpo di stato del 2008. Il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza del Kosovo è stata una grave violazione della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. Questa non è solo retorica russa. Anche diversi stati del Sud del mondo, tra cui India e Brasile, hanno rifiutato di riconoscere l’indipendenza del Kosovo per motivi legali simili, adducendo preoccupazioni sull’integrità territoriale e sui precedenti (Mahbubani, 2011).
Invocando il Kosovo, Lavrov collega l’attuale sostegno occidentale a Kiev a quello che Mosca considera un modello di applicazione selettiva del diritto internazionale. I governi occidentali hanno giustificato il Kosovo per motivi umanitari, mentre hanno respinto la legittimità del referendum in Crimea del 2014. Lavrov definisce questo un doppio standard: “L’Occidente ha ‘riconosciuto’ il Kosovo perché lo voleva… Anni dopo, si è tenuto un referendum in Crimea, ma l’Occidente ha affermato che si trattava di una violazione del principio di integrità territoriale. Che dire del diritto all’autodeterminazione?”. Questa argomentazione riflette una posizione diplomatica russa di lunga data, ripresa da commentatori non allineati, tra cui diversi ex diplomatici del Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM), che sostengono che le potenze occidentali strumentalizzano i principi piuttosto che applicarli in modo coerente.
Lavrov incrimina inoltre il governo ucraino post-2014 come responsabile della privazione dei diritti e dello status delle popolazioni russofone in Crimea e nel Donbass. Afferma che queste comunità “sono state poi ridotte a uno status umiliante e discriminatorio”, riferendosi alle leggi linguistiche, all’emarginazione politica e all’escalation del conflitto dopo il cambio di potere a Kiev nel 2014. Le leggi linguistiche post-Maidan sono state controverse anche al di fuori della Russia. Gli osservatori dell’OSCE hanno osservato nei loro rapporti del 2019 che la legislazione linguistica ucraina ha creato significative tensioni con la sua popolazione russofona (Rapporto OSCE, 2019). Richard Sakwa ha sostenuto che il progetto statale ucraino post-2014 è diventato sempre più etno-nazionale, allineandosi a un’architettura di sicurezza occidentale piuttosto che assecondare il pluralismo interno (Richard Sakwa, 2021).
La visione di Lavrov sul processo in Alaska riflette una posizione diplomatica calcolata. Afferma: “Il presidente Putin si è preso del tempo per considerarli e, in Alaska, ha dichiarato la sua disponibilità ad accettare il concetto proposto da Witkoff, principalmente perché rifletteva la comprensione delle cause profonde e mirava a eliminarle”. Questo viene presentato come prova della volontà di Mosca di accettare termini negoziati che affrontino le sue preoccupazioni strategiche. L’enfasi sulle “cause profonde” è in linea con la visione realista secondo cui la pace non è raggiungibile solo attraverso la gestione del campo di battaglia, ma attraverso un accomodamento strutturale degli interessi di sicurezza delle grandi potenze (Stephen Walt, 2023). Lavrov descrive i leader europei come coloro che tentano di far deragliare tale comprensione facendo pressione su Trump affinché fornisca armi a lungo raggio, compromettendo un possibile accordo.
Su questo punto Lavrov è diretto: “Nessuna delle sue affermazioni sui Tomahawk ha alcuna attinenza con quanto discusso concettualmente – anzi, sia concettualmente che praticamente – in Alaska”. La chiara implicazione è che Mosca vede Washington divisa tra un esecutivo incline a trattare e una più ampia struttura politico-burocratica allineata con Kiev e i falchi europei. Questa interpretazione ha una risonanza storica. I dirigenti russi hanno spesso distinto tra la diplomazia presidenziale statunitense e quella che considerano una burocrazia dellai sicurezza permanente, resistente al compromesso. Analisti come Arbatov hanno descritto questa divisione come una caratteristica fondamentale delle relazioni tra Stati Uniti e Russia del dopoguerra freddo, dove i vertici diretti occasionalmente producevano progressi, ma venivano poi smorzati da posizioni istituzionali radicate (Arbatov, 2022).
Lavrov inquadra anche il dibattito sulla sicurezza della NATO attorno all’indivisibilità , richiamando gli accordi degli anni ’90 in cui le potenze occidentali riconoscevano che la sicurezza non dovesse avvenire a scapito di altri. Si lamenta del fatto che “l’Occidente non parla di sicurezza indivisibile, un principio che sosteniamo… Ora, tuttavia, dichiara apertamente che quando la Russia insiste nell’applicare il principio della sicurezza indivisibile riguardo all’Ucraina, vuol dire che si rifiuta di ascoltare coloro che sostengono la fine di questa guerra”. Questo riflette la consolidata posizione legale e diplomatica di Mosca, secondo cui gli impegni dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) e l’Atto Fondativo NATO-Russia del 1997 fornivano quantomeno un’aspettativa politica di moderazione, anche se non un veto legale. Analisti russi e realisti occidentali favorevoli sostengono da tempo che questo principio sia stato gradualmente svuotato dai successivi allargamenti e schieramenti militari della NATO (Richard Sakwa, 2015).
Lavrov collega i colloqui in Alaska a questioni più ampie di ordine globale, in particolare lo status della Carta delle Nazioni Unite, la sovranità e il ruolo del dollaro. Afferma: “Abbiamo sempre sostenuto i principi della Carta delle Nazioni Unite, che consideriamo norme di diritto internazionale perfettamente applicabili… Prendiamo il principio di uguaglianza sovrana degli Stati, la non ingerenza negli affari interni, l’uguaglianza e l’autodeterminazione delle nazioni”. Sostiene che l’Occidente abbia “militarizzato” queste norme in modo selettivo. Nel discorso russo, il bombardamento della Jugoslavia del 1999, la guerra in Iraq del 2003, l’operazione in Libia del 2011 e il sostegno alla rivolta di Kiev del 2014 sono citati come prova del disprezzo del diritto internazionale quando sono in gioco interessi strategici occidentali.
Questa critica non è esclusivamente russa. Diversi studiosi del Sud del mondo, tra cui Kishore Mahbubani, hanno sostenuto che la politica occidentale post-Guerra Fredda rappresenta un ordine basato su regole che opera in modo asimmetrico: le regole si applicano rigorosamente agli altri, ma in modo flessibile all’Occidente stesso (Kishore Mahbubani, 2019). Questo ha alimentato una costante erosione della fiducia in istituzioni come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La richiesta di Lavrov di una maggiore rappresentanza di Asia, Africa e America Latina rispecchia proposte simili avanzate da India, Brasile e Sudafrica per decenni. La divergenza risiede meno nella diagnosi che nelle motivazioni. Mosca si presenta come difensore dell’ordinamento originario della Carta delle Nazioni Unite contro quella che definisce una reinterpretazione “basata su regole”, mentre molti altri Stati cercano semplicemente una maggiore rappresentanza.
Lavrov affronta anche il quadro del Trattato START e gli armamenti strategici. Afferma: “Il Presidente Putin ha dichiarato che la Russia sta estendendo queste autolimitazioni volontarie sui parametri quantitativi delineati nel Trattato, a condizione che, dopo il 5 febbraio 2026, gli Stati Uniti facciano lo stesso”. Questa posizione si adatta a una classica strategia russa per il controllo degli armamenti: apparire come l’attore stabilizzatore, mantenendo una moderazione formale e segnalando che, in assenza di reciprocità , seguirà un’escalation. Analisti come Alexei Arbatov hanno osservato che Mosca utilizza il controllo degli armamenti sia come strumento di stabilità che come leva in negoziati più ampi (Arbatov, 2022). Posizionandosi come disposta a mantenere i limiti, Mosca mira ad apparire responsabile e credibile agli occhi di un pubblico non occidentale diffidente nei confronti della corsa agli armamenti.
La descrizione che Lavrov fa dell’Europa è dura e schietta. Afferma: “Non avrei mai immaginato che l’Europa avrebbe agito con una tale sfrenata sconsideratezza nei suoi rapporti con gli Stati Uniti”. Descrive i leader europei, soprattutto in Germania e Finlandia, come guidati da una russofobia ideologica, disposti a sacrificare interessi economici e della sicurezza per allinearsi a Washington. Questa retorica è in linea con le caratterizzazioni russe di lunga data della dipendenza dell’Europa dalla sicurezza. Gli analisti russi considerano l’Unione Europea strutturalmente incapace di una politica strategica indipendente. Analisti occidentali come Stephen Cohen avevano anche sostenuto che l’Europa del dopo Guerra Fredda si fosse legata così strettamente alle strutture strategiche statunitensi da perdere la capacità di agire in modo autonomo (Stephen Cohen, 2019).
Lavrov collega inoltre i conflitti attuali a precedenti storici. Traccia una linea che va dall’intervento in Kosovo all’Ucraina, dall’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda all’attuale escalation degli armamenti. Fa riferimento al “codice genetico” europeo di conflitti e colonialismo, descrivendo un modello di guerre innescate dal nucleo strategico europeo. Questa svolta retorica ha due scopi: inquadra la Russia come l’erede stabile dell’ordine postbellico e l’Europa come la forza destabilizzante, e risuona con le narrazioni diffuse in alcune parti del Sud del mondo che considerano la storia coloniale europea come una struttura continua, non un evento passato.
Sulle questioni umanitarie, Lavrov respinge le accuse occidentali di deportazione di bambini e crimini di guerra. Afferma: “Invece, tutto ciò che dovevano fare era fornirci una lista. Alla fine, e dopo numerosi solleciti, ci hanno dato una lista con 339 nomi”. Descrive questo come prova dell’esagerazione occidentale e della inflazione propagandistica dei numeri. I dirigenti russi hanno costantemente contestato le accuse di deportazioni di massa, inquadrando le loro azioni come evacuazioni umanitarie. Una verifica indipendente è difficile e le narrazioni occidentali e russe divergono nettamente. Ciò che è chiaro è che Lavrov usa la questione per dipingere le affermazioni occidentali come prive di credibilità , piuttosto che impegnarsi nel merito legale.
Sui droni e sul Nord Stream, Lavrov ripropone l’idea dei doppi standard occidentali e della creazione di pretesti per le sanzioni. Si riferisce all’incidente di Bucha come a una provocazione deliberata, affermando: “Nell’aprile 2022, hanno fatto di tutto per gettarci fango addosso e hanno usato Bucha come pretesto per imporre nuove sanzioni. Mantenete un basso profilo e tacete: questo era il loro messaggio per noi”. Questo riflette una lettura russa standard del ciclo delle sanzioni: le potenze occidentali necessitano di un innesco morale per giustificare misure che, secondo Mosca, sono motivate economicamente. Diversi analisti non occidentali, tra cui alcuni in India e America Latina, hanno messo in dubbio la sequenza delle sanzioni e il loro impatto umanitario, anche senza appoggiare direttamente le narrazioni russe (Kishore Mahbubani, 2023).
La critica di Lavrov alle dichiarazioni della NATO riflette un modello nella comunicazione strategica russa. Cita ex capi militari della NATO e degli Stati Uniti che parlano di distruggere le infrastrutture militari russe e lo descrive come prova che la posizione della NATO non è difensiva. Cita dichiarazioni di Mark Rutte e Ben Hodges, e usa il loro linguaggio per sottolineare la percezione russa della loro ostilità . Questa non è una novità . I ​​dirigenti russi hanno costantemente citato quelli occidentali per giustificare le posizioni militari, sostenendo che l’Occidente dichiara apertamente la sua intenzione di indebolire strategicamente la Russia. Analisti come Dmitri Trenin hanno descritto questo come parte di un deliberato approccio russo per rispecchiare la retorica occidentale contro i suoi autori (Dmitri Trenin, 2022).
Riguardo alla Cina, Lavrov ribadisce il rifiuto di Mosca di allinearsi ai tentativi occidentali di isolare Pechino: “La Russia non si alleerà con nessuno per il gusto di opporsi a qualcuno, soprattutto contro la Repubblica Popolare Cinese”. Mosca e Pechino hanno costruito un partenariato strategico fondato sulla reciproca resistenza al predominio statunitense. Questo si riscontra sia nei flussi energetici che nel coordinamento diplomatico, in particolare in forum multilaterali come i BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Lavrov non lo presenta come un’alleanza, ma come una cooperazione strutturata contro le pressioni economiche e strategiche occidentali. Gli analisti di diverse capitali del Sud del mondo considerano questo allineamento una caratteristica strutturale del cambiamento multipolare piuttosto che una convergenza temporanea (Mahbubani, 2024).
I colloqui in Alaska, secondo Lavrov, rappresentano un raro momento in cui un’amministrazione statunitense sembra disposta ad affrontare queste problematiche strutturali anziché trattarle come marginali. Lavrov descrive Donald Trump come disposto a riconoscere l’espansione della NATO come un errore, a riconoscere lo status delle popolazioni russofone e a esplorare un’architettura della sicurezza che tenga conto degli interessi di Mosca. Descrive l’opposizione a Washington come proveniente dall’establishment della sicurezza e dai leader europei. L’immagine è quella di un’apertura diplomatica che potrebbe essere sfruttata o sprecata. Lavrov non rivendica alcuna certezza, ma solo che la Russia ha risposto positivamente e sta aspettando.
Questa posizione riflette una tradizionale tattica diplomatica russa: inquadrare la Russia come interlocutore ragionevole e i suoi avversari come guastafeste. La diplomazia russa durante la Guerra Fredda ha spesso utilizzato i vertici per proiettare un’immagine di impegno costruttivo. La narrazione dell’Alaska si adatta perfettamente a questo schema.
Alla base delle osservazioni di Lavrov c’è un’affermazione più ampia sull’ordine mondiale post-1991. Egli suggerisce che il dominio occidentale stia finendo, che il dollaro stia venendo “militarizzato” e quindi stia perdendo fiducia, e che nuove strutture stiano emergendo tramite i BRICS e altre istituzioni. “Non è un caso”, afferma, “che Donald Trump, durante la sua campagna elettorale, abbia specificamente sottolineato il ruolo disastroso svolto dall’amministrazione Biden nell’abuso dello status di riserva del dollaro, trasformandolo in un’arma per punire coloro che l’amministrazione non gradiva”. La svolta della Russia verso meccanismi finanziari alternativi fa parte di una più ampia tendenza del Sud del mondo. Paesi dal Brasile all’India hanno esplorato la dedollarizzazione come protezione contro l’esposizione alle sanzioni. Questa non è mera propaganda russa; riflette cambiamenti concreti negli accordi commerciali e nella pianificazione finanziaria (BRICS Policy Center, 2025).
Il riferimento di Lavrov all’erosione della credibilità occidentale ha una risonanza che va oltre Mosca. Molti governi del Sud del mondo, anche quelli non allineati con la Russia, condividono preoccupazioni per le sanzioni unilaterali, l’applicazione extraterritoriale delle leggi nazionali e la militarizzazione della finanza. Potrebbero non approvare le azioni militari russe, ma considerano credibile la critica strutturale. Ciò crea un contesto geopolitico in cui la Russia trova ascolto e comprensione anche tra gli stati che rimangono formalmente non allineati.
In sintesi, l’intervista di Lavrov espone una tesi coerente secondo cui il conflitto ucraino è il risultato di errori strategici occidentali a lungo termine e di doppi standard. Egli sostiene che l’espansione della NATO ha creato una minaccia esistenziale alla sicurezza, che l’Occidente ha ignorato gli avvertimenti russi, che il Kosovo e altri interventi hanno rivelato l’ipocrisia delle rivendicazioni legali occidentali e che l’attuale crisi potrebbe essere risolta se si affrontassero queste cause profonde. Analisti come John Mearsheimer, Richard Sakwa e Kishore Mahbubani, pur con diverse argomentazioni, hanno tutti sostenuto che l’espansione della NATO e l’eccesso di potere occidentale hanno contribuito in modo significativo al deterioramento delle relazioni e alla crisi ucraina. Le loro opinioni danno peso alle affermazioni di Lavrov in molti ambienti diplomatici.
Il suo linguaggio è scarno e accusatorio. Descrive l’Europa come sconsiderata, gli Stati Uniti come divisi e la Russia come paziente ma ferma. Invoca principi giuridici, precedenti storici e squilibri istituzionali. Se i colloqui in Alaska portino a qualcosa di concreto rimane incerto, ma l’intervista offre una mappa chiara di come la Russia interpreta sia il conflitto che l’ordine internazionale che lo circonda.
Questa comprensione trova eco in gran parte del mondo non occidentale. Governi e analisti in Asia, Africa e America Latina vedono un mutamento nella struttura del potere, un indebolimento del monopolio occidentale e una crescente multipolarità . La narrazione di Lavrov non è isolata. È in linea con le più ampie critiche al comportamento strategico occidentale degli ultimi tre decenni, anche quando le specificità militari del conflitto ucraino rimangono contestate. Ecco perché le sue parole risuonano oltre Mosca, plasmando il modo in cui gran parte del mondo percepisce lo scontro non come una guerra isolata, ma come una rottura sistemica nell’ordine post-Guerra Fredda.