Quando la pace viene richiesta ai deboli e definita dai forti, cessa di essere pace, ma diventa sottomissione mascherata da giustizia.

di Radwan Mortada, thecradle.co, 5 novembre 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
All’indomani della guerra israeliana contro il Libano, cominciò a circolare nei corridoi della politica una voce: la possibilità che il Libano potesse aderire agli Accordi di Abramo. La voce uscì ancor prima che l’inviato statunitense Tom Barrack proponesse negoziati diretti con Israele – una proposta che Beirut respinse a favore del “meccanismo” consolidato dei colloqui indiretti mediati da Washington.
Oggi, i fatti dimostrano che Washington non sta spingendo per una normalizzazione immediata con Tel Aviv, ma piuttosto per negoziati diretti su un “documento americano” come primo passo sulla cosiddetta via della “pace”. Il paradosso è lampante: questi appelli alla pace ignorano la realtà sul campo, fatta di continui atti di aggressione.
Israele non ha ancora rispettato il cessate il fuoco, mentre in Libano si leva un grido di pace con una parte che rimane in guerra. Questa contraddizione intrappola i sostenitori delle “soluzioni diplomatiche” in un vero e proprio dilemma.
In effetti, il comandante dell’esercito libanese, Rudolphe Haikal, si è trovato costretto a ordinare di aprire il fuoco sui droni israeliani che violavano lo spazio aereo libanese, prima che il presidente gli ordinasse di rispondere a qualsiasi incursione via terra in seguito all’incidente in cui le truppe israeliane hanno preso d’assalto il villaggio meridionale di Blida e hanno ucciso nel sonno un dipendente comunale civile.
Quando “pace” equivale a “resa”
A due anni dall’inizio dell’Operazione Al-Aqsa Flood nell’ottobre 2023, dopo gli atroci massacri e la guerra genocida di Israele contro Gaza, che hanno ucciso decine di migliaia di palestinesi, e la guerra in Libano, che ha anch’essa causato la morte di migliaia di libanesi, la questione della pace riemerge nel dibattito arabo. Tra i rinnovati appelli alla pace con Israele da parte degli stati arabi e dei media, una verità è inevitabile: la pace da una posizione di debolezza non pone fine al dominio; anzi, spesso lo consacra.
La pace a queste condizioni non inverte l’equazione del potere a meno che il più forte non riconosca un partner di pari dignità. Questo non è il programma di Israele. Tel Aviv non cerca una pace paritaria; cerca il dominio e l’espansione.
Lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani, scomparso e martirizzato, lo ha sintetizzato in modo succinto quando gli è stato chiesto perché rifiutasse il dialogo con Israele. La sua risposta: “Qual è il senso di un dialogo tra la spada e il collo?”
Che tipo di dialogo esiste quando solo i forti detengono il potere decisionale, mentre i deboli si limitano a chiedere?
La domanda più precisa è: Israele sta davvero cercando una soluzione giusta che ponga fine all’occupazione e stabilisca una pace sostenibile, oppure sta invece forgiando accordi di sicurezza ed economici che cementino la sua superiorità e richiedano la sottomissione araba e palestinese in cambio di quella che viene chiamata erroneamente “pace”?
Il 21 gennaio 2024, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Non scenderò a compromessi sul pieno controllo della sicurezza israeliana su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano”, il che contraddice direttamente l’idea di uno stato palestinese sovrano.
Questa posizione politica coincide con un’accelerazione senza precedenti degli insediamenti. I rapporti delle agenzie europee e delle Nazioni Unite mostrano che nel biennio 2023-2024 si sono registrati livelli record di insediamenti e sequestri di terre nella Cisgiordania occupata, cancellando persino la possibilità di una soluzione a due Stati.
Nel mondo arabo odierno, soprattutto in Libano, i media ormai dicono: “Vogliamo la pace”; “Non è un crimine chiedere la pace”; “Rompere i tabù è un dovere”.
Il presentatore televisivo libanese Marcel Ghanem ha dichiarato nel suo discorso di apertura: “Rompiamo i tabù… non possiamo sopportare ulteriori procrastinazioni… Sì, chiediamo la pace. Non è un crimine chiedere la pace”. Makram Rabah, caporedattore di Now Lebanon e professore associato presso l’Università Americana di Beirut (AUB), ha affermato che “non c’è vergogna nella pace quando la pace è fatta da un popolo sovrano. L’unica vergogna è continuare a morire per le guerre degli altri”.
Il desiderio di pace non è di per sé sbagliato. Ma cosa succede se l’altra parte vede la pace solo come uno strumento per rafforzare il proprio dominio, soggiogare ulteriormente la popolazione della regione e impadronirsi delle sue ricchezze e delle sue terre? Quando gli “accordi di pace” vengono firmati da un attore debole che acconsente a enormi concessioni mentre il forte mantiene la sua struttura coloniale, allora la pace diventa una resa assoluta. Questa dinamica rafforza l’idea che Israele perda molto di più con la pace che con la guerra – quindi la “pace”, correttamente intesa, è una minaccia per Israele.
Il modello qatariota di dominio mediato
Lontano dalle linee del fronte, lo Stato del Qatar ha investito nel suo ruolo di mediatore internazionale, con legami con Washington e indirettamente con Israele. Nel marzo 2022, l’ONU ha designato il Qatar come “Major Non-NATO Ally” (MNNA).
Sulla carta, tale status garantisce a Doha privilegi speciali in materia di difesa e sicurezza. Il Qatar ha sponsorizzato i colloqui, finanziato gli aiuti a Gaza, investito in iniziative imprenditoriali israeliane e mantenuto solidi rapporti con gli Stati Uniti, che utilizzano la base aerea di Al-Udeid come importante snodo strategico.
L’ironia: nonostante questo posizionamento strategico, il Qatar si è comunque trovato nel mirino di Israele. Il 9 settembre 2025, Israele ha effettuato un attacco a Doha prendendo di mira i membri di una delegazione negoziale di Hamas in Qatar. Ciò solleva una domanda fondamentale: finché Israele attacca anche un mediatore che non ha precedenti di combattimenti, la sua natura aggressiva potrà mai cambiare?
L’esperienza del Qatar dimostra che, affinché la “pace” abbia un senso, non può essere semplicemente un’iniziativa della parte più debole: deve essere ricercata e accettata dalla parte più forte. Altrimenti, non ha senso.
Si consideri l’esempio dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Mahmoud Abbas. Nel corso dei decenni, è diventata un partner per la sicurezza di Israele, coordinandosi nella Cisgiordania occupata, arrestando i quadri della resistenza, consegnando liste e cooperando sotto l’etichetta di “coordinamento per la sicurezza”. Eppure Israele lo accusa di “finanziare il terrorismo” a causa delle indennità concesse ai prigionieri. Anche la piena collaborazione, a quanto pare, non garantisce la pace; la sottomissione rimane la condizione di default.
Al contrario, il modello degli Emirati Arabi Uniti mostra una dinamica diversa: una normalizzazione con Israele basata su economia e investimenti, non sulla giustizia o sulla fine dell’egemonia. Quando il più debole diventa un partner economico, la “pace” si trasforma in una merce redditizia per il più forte – pace definita come “un servizio al più forte in cambio di una stabilità temporanea”.
In Sudan, il terzo stato arabo ad aderire agli Accordi di Abramo, Israele non ha mai considerato Khartoum un partner strategico; era un avamposto di sicurezza per monitorare il Mar Rosso e le rotte del traffico. La normalizzazione è arrivata “dall’alto”, non da partner paritari.
Ciò dimostra che Israele non è contrario alla pace, ma a una pace “equa”, ovvero alla pace che trasformi i rapporti di potere.
Trattati di pace storici, ma nessuna giustizia
Egitto e Israele firmarono un trattato di pace nel marzo 1979, che imponeva il completo ritiro di Israele dal Sinai entro tre anni e creava accordi di sicurezza e zone demilitarizzate. Nonostante la normalizzazione formale avvenuta dal 1980, il rapporto è ampiamente descritto come una “pace fredda“. Il principio rimane: le firme degli stati arabi non equivalgono alla normalizzazione popolare.
Sul campo, episodi rari ma illuminanti di sicurezza illustrano la fragilità del sistema, come quelli avvenuti nei pressi di Rafah nel giugno 2023 e nel maggio 2024. Nel frattempo, la cooperazione energetica si è intensificata: Egitto, Israele e UE hanno firmato un accordo il 15 giugno 2022 per espandere le esportazioni di gas egiziano tramite impianti di liquefazione.
La realtà è una duplice immagine di un partenariato sicurezza-energia abbinato alla resistenza popolare. Questo equilibrio illustra come la “pace”, così come è strutturata attualmente, serva gli interessi di Tel Aviv in materia di sicurezza ed energia, e non la giustizia palestinese.
La Giordania offre un altro caso. Il suo trattato del 26 ottobre 1994 ha definito il quadro normativo per l’acqua e le frontiere. Ma 30 anni dopo, la pace rimane lontana. Nel novembre 2023, Amman ha richiamato il suo ambasciatore a causa della guerra a Gaza e ha congelato la firma di un progetto “Acqua in cambio di energia”.
Tuttavia, la cooperazione pratica continua: acqua, gas e canali di sicurezza rimangono aperti. La Giordania ha persino aperto il suo spazio aereo all’aeronautica militare israeliana per intercettare le minacce di droni e missili iraniani, dimostrando che Israele offre accordi simbolici alle capitali che servono i suoi interessi, senza una risoluzione politica della questione palestinese.
In Siria, il nuovo governo radicato in Al-Qaeda ha offerto gesti di “buona volontà”, restituendo i resti della spia israeliana Eli Cohen, dichiarando ostilità all’Iran e intercettando armi destinate alla lotta di Hezbollah contro Israele. Eppure Israele non ha mai avviato veri colloqui di pace. Al contrario, ha occupato altro territorio, ha attaccato l’aeroporto di Damasco, ha sequestrato il Monte Hermon e le sur risorse idriche e ha dichiarato che non se ne sarebbe mai andato. Israele non vuole stati forti: li vuole abbastanza deboli da fungere da polizia di frontiera per la propria sicurezza, non per difendere il proprio territorio.
In Libano, le uccisioni quotidiane, i massacri e l’occupazione non saranno dimenticati facilmente. Come si può chiedere al Libano di firmare una pace che ignora la giustizia? Israele ha ucciso migliaia di libanesi e continua a bombardare villaggi e assassinare persone ogni giorno.
Come si può pretendere la pace in un territorio dove i crimini di guerra restano impuniti e il sangue continua a scorrere? Come si possono consegnare le armi a un nemico che non ha mai mostrato buona volontà?
Sebbene il primo ministro, il presidente e la maggior parte dei ministri libanesi condividano una posizione contraria ad armati non di stato, confermano anche che Israele non ha mai onorato ciò che il Libano ha fatto. Come si può quindi discutere di negoziati mentre il nemico non ha nemmeno rispettato il cessate il fuoco che il Libano ha mantenuto?
E che dire delle voci che ora invocano la pace come se fosse una possibile salvezza, che arriverà solo dopo che lo Stato libanese avrà ottenuto la piena sovranità e reso le armi un proprio monopolio? Queste voci ignorano che la presidenza e il governo libanese, nonostante le dispute interne, concordano sul fatto che Israele non è alla ricerca della pace, ma di guadagni illimitati.
La Siria è stata devastata senza sparare un solo colpo contro Israele, eppure gli attacchi israeliani continuano. Qual è allora la differenza tra Libano e Siria? Il problema non riguarda il movimento di resistenza, Hezbollah, ma la continua brama di espansione e controllo di Israele.
La Siria è stata devastata senza sparare un solo colpo contro Israele, eppure gli attacchi israeliani continuano. Qual è allora la differenza tra il Libano e la Siria? Il problema non riguarda il movimento di resistenza, Hezbollah, ma la continua sete di espansione e controllo di Israele.
Queste ambizioni sono state rivelate nell’accordo sui confini marittimi, in cui Tel Aviv mirava a massimizzare i guadagni, per poi annullarlo dopo l’assassinio del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. L’avidità di territori è riemersa quando Netanyahu ha mostrato alle Nazioni Unite una mappa del “nuovo Medio Oriente” che ometteva Libano e Siria.
Quella mappa apparteneva alla fantasia del “Grande Israele“, non alla realtà politica. Facendo eco a questo, Tom Barrack a Damasco ha affermato che Libano e Siria sono “un solo Paese, non due”, in inquietante sincronia con il discorso israeliano che cancella i confini e ridisegna la regione a proprio piacimento.
Chi oggi chiede la pace è arrivato con decenni di ritardo, oltre 30 anni dopo la Conferenza di Madrid del 1991, respinta da Israele.
Cosa intende Israele per “pace”?
Unite tra loro gli elementi precedenti – controllo perpetuo della sicurezza a ovest del Giordano, accelerazione degli insediamenti, spinta delle capitali arabe verso una cooperazione bilaterale slegata dalla risoluzione finale o dalla questione palestinese – e otterrete la definizione di “pace” come la intende Israele: un sistema di deterrenza e sottomissione che neutralizza gli Stati perpetuando il controllo sui palestinesi.
Le dichiarazioni dello stesso Netanyahu che rifiutano uno Stato palestinese dopo la guerra e le politiche del suo governo in Cisgiordania confermano questa conclusione dal punto di vista politico e pratico.
La pace richiesta da una posizione di debolezza non è sufficiente. La vera pace inizia quando il più forte è costretto a trattare l’altra parte da pari a pari, non da subordinata. Israele si considera il “padrone” e gli altri come suoi subordinati.
Questo è il nucleo del suo pensiero, guidato dal mito di una Grande Israele. Gli Stati deboli non possono limitarsi a rivendicare la pace, ma devono creare equilibri di potere che impongano il rispetto e costringano al riconoscimento dei loro diritti.
Il rischio è che gli appelli alla pace da parte degli arabi diventino un patto di sottomissione, etichettato come “pace”, ma che in realtà non è altro che il proseguimento dell’egemonia.
Il primo passo verso una vera pace autentica non è una firma o un comunicato stampa, ma questa semplice domanda: questa “pace” cambia la realtà o legittima una sottomissione continua? La parte forte è disposta a rinunciare all’occupazione e all’aggressione?
Non ci basta dire semplicemente “non vogliamo la pace”. Se l’altra parte vuole solo il dominio in nome della pace, allora la nostra richiesta di pace è da un lato un semplice desiderio, dall’altro una ricompensa per il genocidio.
Demonizzare la resistenza
Per anni, un’imponente macchina mediatica araba e occidentale ha generato una propaganda metodica per ridefinire la mappa morale nella coscienza araba. L’Iran, Hezbollah e chiunque si opponga al progetto israelo-americano vengono presentati come la causa principale del collasso della regione, mentre gli invasori e i loro regimi alleati vengono descritti come paladini della pace e della stabilità.
Ogni giorno la memoria del popolo viene purificata da discorsi unilaterali sulla “minaccia iraniana”, sull’“espansione di Hezbollah”, sulla “mezzaluna sciita”, mentre vengono nascosti i crimini commessi sotto le bandiere della “libertà” e della “democrazia” dalle alleanze occidentali o dai loro alleati arabi.
La verità è che non è stata la resistenza a distruggere il Libano, ma coloro che si sono arresi. Coloro che hanno collaborato all’assedio, facilitato l’invasione e finanziato il degrado mediatico-politico-militare che ha travolto la regione in nome della modernità e dell’illuminismo.
Per vent’anni, i media arabi e occidentali hanno costruito una narrazione distorta che ha reso l’Iran e Hezbollah il nemico pubblico numero uno, e ha soffocato le vere cause delle nostre tragedie.
Quando l’Afghanistan fu devastato dall’occupazione statunitense, nessuno chiese quante persone fossero state uccise o quanti milioni di persone avessero sofferto a causa della “guerra al terrore”.
Quando l’Iraq fu invaso illegalmente nel 2003, centinaia di migliaia di persone morirono, le infrastrutture crollarono e regnava il caos: ma tutto ciò fu definito “una marcia verso la democrazia”.
Il Libano è ripetutamente bersaglio dall’aggressione israeliana e gli viene impedito di costruire un vero Stato indipendente, perché la sua indipendenza minaccerebbe la “superiorità” di Israele. Eppure le campagne mediatiche hanno dipinto la Resistenza come la causa delle crisi, ignorando coloro che hanno imposto l’assedio, finanziato la divisione e distrutto l’economia.
In Siria, la distruzione non è stata causata dall'”influenza iraniana”, come viene diffuso, ma da un progetto internazionale che ha mobilitato migliaia di combattenti dell’ISIS, del Fronte al-Nusra e di altri gruppi, con finanziamenti del Golfo Persico e la complicità dell’Occidente. L’Iran è stata una delle poche potenze che hanno contribuito a impedire il crollo di Damasco. Il governo alla fine è caduto sotto un pesante assedio economico, non a causa dell’influenza iraniana.
Per quanto riguarda lo Yemen, la guerra non è stata un conflitto per procura, come semplificato dai media, ma un’aggressione diretta da parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti sostenuti da Washington, che ha trasformato il Paese in uno dei più gravi disastri umanitari del XXI secolo.
In Palestina, da decenni la popolazione viene massacrata e uccisa dalle bombe e dall’assedio, eppure i movimenti di resistenza vengono demonizzati più dei loro carnefici. I media mainstream negano il diritto all’autodifesa di un popolo sotto occupazione, demonizzando i loro razzi e ignorando gli aerei dell’occupante che annientano famiglie e distruggono città.
In Sudan è in atto una sistematica pulizia etnica guidata dalle Forze di Supporto Rapido (RSF) in Darfur, accusate di uccisioni di massa, sfollamenti forzati e genocidio. Sono implicate milizie sostenute a livello regionale dagli Emirati Arabi Uniti e da Israele. Ma l’opinione pubblica mainstream tratta il conflitto come una crisi marginale.
La propaganda ha ribaltato completamente la narrazione: chi invade e occupa viene dipinto come costruttore di pace, mentre chi resiste viene bollato come minaccia. Se gli appelli arabi alla “pace” continueranno su questi termini, non saranno interpretati come una ricerca di giustizia, ma come un silenzioso segnale di sottomissione.
