Che Russia e Cina perseguano una politica fondamentalmente basata sulla difesa degli interessi nazionali, è cosa che dovrebbe essere ben nota. Anche se trattandosi di potenze che agiscono su scala globale ciò ovviamente comporta una proiezione politica – e quindi un posizionamento – ben al di là del territorio nazionale e della più stretta area d’influenza. Com’è facilmente comprensibile, questo comporta anche delle assunzioni di responsabilità, nei confronti dei paesi partner, e più ampiamente implica una proiezione dell’immagine di sé offerta al mondo – e su cui si costruisce un rapporto non solo di fiducia e stima, ma anche di affidabilità. Sapere che se Mosca o Pechino assumono una posizione, che la si condivida o meno, si può però essere certi che la sosterranno coerentemente.

Ritengo che questo sia un tratto distintivo della politica internazionale di entrambe i paesi. Ragion per cui è con un certo stupore che ho registrato la votazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nella serata di ieri, che ha tra l’altro contraddetto le mie relative previsioni.
Il voto, ricordiamo, era sulla proposta di Risoluzione 2803 presentata dagli Stati Uniti, e ricalcava sostanzialmente – accentuandone taluni tratti negativi – il cosiddetto piano Trump in 20 punti, relativamente al conflitto nella Striscia di Gaza. La Russia, che pure aveva avanzato una sua proposta, decisamente più equilibrata, al momento del voto ha deciso di non opporre il veto, così come ha fatto la Cina, dando via libera alla Risoluzione statunitense, approvata con 13 voti favorevoli, 0 contrari e 2 astensioni (Cina e Russia appunto).

Benché notoriamente nessuno dei due paesi abbia un interesse primario nella questione palestinese, ed anzi Mosca – nonostante ripetuti screzi con Israele – sia quasi equidistante rispetto alle due parti in conflitto, resta il fatto che la scelta dell’astensione – neanche del voto contrario – ha consegnato agli USA un successo diplomatico veramente gratuito. Al di là della delusione, di chi – come il sottoscritto – si aspettava una presa di posizione più incisiva, quale tra l’altro la proposta avanzata da Mosca lasciava presagire, resta da capire la ratio di tale decisione.

Tra l’altro, cosa di certo non sfuggita ad un diplomatico come Lavrov, gli Stati Uniti stanno da tempo cercando di riconquistare il controllo dell’ONU, per farne uno strumento di copertura e legittimazione delle proprie decisioni, puntando in prima istanza all’elezione di un proprio candidato come prossimo Segretario Generale. E questo successo – col suo rovescio, la resa russo-cinese – indiscutibilmente ne rafforza le ambizioni e le possibilità.
Che senso può quindi avere la posizione di Mosca e Pechino? Soprattutto alla luce del fatto che la Russia aveva presentato una sua proposta, ma non ha minimamente cercato di arrivare ad una mediazione tra le due bozze di Risoluzione.

C’è chi ha avanzato l’ipotesi di un do ut des, che ovviamente non si può astrattamente escludere, anche se francamente risulta difficile immaginare in cosa potrebbe consistere. Non si vede quale contropartita potesse valere queste astensioni. Oltretutto, soprattutto la Russia avrebbe in tal caso molto più semplicemente potuto mostrare un minore interesse per la questione, ridimensionando così la rilevanza del voto; scegliendo invece di avanzare una sua proposta, per poi lasciarla cadere, ha fornito un assist a Trump – che infatti si è subito precipitato a celebrare la sua vittoria.

Se guardiamo alle reazioni degli altri attori coinvolti, l’impressione è che – come già alla presentazione del piano da parte di Trump – ciascuno reciti la sua parte in commedia, ma pensando comunque di stravolgere il copione a proprio piacimento. È evidente che l’Arabia Saudita – con tutte le sue perplessità – si è accodata in cambio del via libera di Washington all’acquisto degli F-35 (cosa sgradita assai ad Israele). E gli altri paesi arabi contano ciascuno su qualche vantaggio da trarne. A loro volta, sia Israele che la Resistenza si sono detti contrari, perché ciascuno vede nel testo della Risoluzione qualcosa di meno e qualcosa di troppo rispetto a ciò che avrebbe voluto.

Ma l’aspetto decisivo che va considerato non è tanto ciò che sta scritto sulla carta, come se ciò automaticamente ne comportasse l’attuazione, quanto piuttosto la fattibilità concreta. Fondamentalmente, la Risoluzione prevede due step: l’introduzione nella Striscia di una forza di interposizione internazionale, con il compito di stabilizzare la situazione e procedere al disarmo della Resistenza, e successivamente il completo ritiro israeliano e l’instaurazione di un organismo – presieduto e nominato da Trump stesso – che dovrebbe gestire l’avvio della ricostruzione (politica e materiale) e poi passare le redini ad un governo palestinese riformato.
Risulta evidente che il primo step è quello critico ed al tempo stesso decisivo.

La prima questione è la composizione di questa forza; Tel Aviv la vorrebbe fatta da paesi musulmani vicini agli Stati Uniti, cosicché possano agire da proxy degli interessi israelo-statunitensi, e pensa ad Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Indonesia. A parte il fatto che alcuni di questi hanno già ora delle perplessità, ovviamente le difficoltà maggiori sarebbero per un verso il dover ricoprire un ruolo di fatto anti-palestinese e filo-israeliano, e dall’altro le regole d’ingaggio. Non è al momento chiaro a quale Capitolo farà eventualmente riferimento la missione (ne ho parlato nella puntata CAPITOLI del mio podcast Blitz News), ma comunque la Resistenza palestinese ha già fatto sapere che vuole la forza schierata soltanto lungo i confini (attualmente la linea gialla), e se qualora venisse schierata sull’intero territorio della Striscia la considererebbe come una forza occupante – quindi esposta ad attacchi militari.

Immaginare che paesi terzi, per di più arabo-musulmani, siano effettivamente disponibili ad andare a svolgere un compito che l’IDF non è stato capace di portare a termine in due anni di combattimenti, ricoprendo oltretutto un ruolo di supplenza per Israele, appare francamente una ipotesi a dir poco assai remota. Ma, appunto, quand’anche si trovassero dei paesi disposti a ricoprire questo ruolo, che possibilità avrebbero di disarmare le formazioni combattenti della Resistenza? Come potrebbero, anche con regole d’ingaggio favorevoli, riuscire laddove ha fallito l’IDF? In buona sostanza, quindi, se per un verso l’approvazione della Risoluzione 2803 rappresenta un successo diplomatico per gli Stati Uniti, ed apre la strada ad una qualche forma di presenza dell’ONU – il che, ad esempio, potrebbe consentire il ritorno della distribuzione degli aiuti in mano all’UNRWA – essenzialmente non comporta alcun passo avanti rispetto allo status quo attuale. Oltretutto, stante il rigetto israeliano e palestinese, la forza chiamata ad applicarla andrebbe ad operare in un ambiente sostanzialmente ostile, o quantomeno non collaborativo. E le incognite sul suo operato sarebbero innumerevoli.

Nella migliore delle ipotesi, quindi, il primo step previsto dalla 2803 sarebbe destinato a rimanere incompiuto, e renderebbe di fatto impossibile il passaggio al secondo – la governance trumpiana. Come ha detto il rappresentante russo all’ONU, Nebenzya, la Risoluzione è “un gatto nel sacco”, insomma un acquisto ad occhi chiusi.
Se andiamo un attimo oltre la superficie di quanto appena detto, ci si rende conto che le cose cambiano più per Israele che per la Resistenza. Quest’ultima, infatti, in mancanza dell’attuale situazione starebbe combattendo contro l’IDF sotto le bombe dell’aviazione israeliana. Il prezzo da pagare per questo è sostanzialmente un passo – quanto meno in linea di principio – verso un rafforzamento della separazione tra Gaza e la Cisgiordania (il che è una minaccia all’idea di uno stato palestinese, e favorisce l’ipotesi di due bantustan separati).

Per converso, la presenza della forza internazionale renderebbe assai più difficile per Tel Aviv proseguire con la sua attuale linea di violazione quotidiana del cessate il fuoco. Ammesso e non concesso che la Risoluzione riesca a passare dall’approvazione del Consiglio di Sicurezza alla fase attuativa, l’ipotesi più probabile è che finisca col registrare il congelamento della situazione attuale, con la Striscia divisa in due fette longitudinali, quella ad est sotto controllo israeliano e quella ad ovest sotto controllo della Resistenza. In attesa che Israele decida comunque di riprendere lo scontro, se e quando lo riterrà opportuno.

C’è da aggiungere che, dato il contesto attuale, è assai probabile che invece Tel Aviv si rivolga a nord, attaccando nuovamente il Libano. Il che potrebbe essere agevolato dal fatto che – grazie alla presenza internazionale – potrebbe distogliere parte delle sue truppe da Gaza. Va tenuto presente, al riguardo, che l’IDF denuncia da tempo una significativa carenza di personale, ed è molto probabile che, in caso di una nuova guerra libanese, l’attacco contro Hezbollah venga portato sia dal confine con i territori occupati in Galilea, sia dal sud siriano, e pertanto la richiesta di forze sul terreno sarebbe significativa.

A conti fatti, quindi, ed al di là di effimeri successi diplomatici, la Risoluzione ONU non è in grado di cambiare le carte sul terreno, ma – questo si – può determinare uno stop, fissando appunto lo stato di cose presente per un tempo indeterminato, ma presumibilmente almeno di mesi. Questo è un risultato che fa comodo probabilmente a tutti. Trump ne aveva bisogno per placare i malumori interni, alla base MAGA e non solo, dovuti ad un eccessivo appiattimento sulle posizioni israeliane. La Resistenza ne aveva bisogno per dare respiro alla popolazione civile, ricostruire il tessuto amministrativo e riprendere il controllo (non solo militare) del territorio. Israele ne aveva bisogno per mettere a punto la prossima guerra contro il Libano, e magari per arrivare ad una grazia presidenziale per Netanyahu.

Ovviamente, però, questo è uno stop a tempo. Tra non molto i problemi si ripresenteranno, e la loro gestione sarà soltanto una responsabilità statunitense. Si può pertanto supporre che, da parte russa e cinese, tutto ciò sia stato calcolato e previsto, e si sia ritenuto che valesse la pena lasciare che Washington vendesse il suo gatto nel sacco. Quando il sacco verrà aperto, il gatto sarà furioso, ma sarà il gatto degli Stati Uniti.
Se Mosca e Pechino si siano fatti altri ragionamenti non è al momento chiaro. C’è da augurarsi che quello summenzionato sia stato quanto meno parte del loro calcolo. Una cosa è comunque sicura: questa Risoluzione non risolve proprio nulla.

Un pensiero su “SUL VOTO DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA”
  1. Qui, tradotti, gli interventi al Consiglio di Sicurezza dei rappresentanti di Russia e Cina: https://www.youtube.com/watch?v=R0UT_9DVdSk
    Al di là del linguaggio diplomatico, è abbastanza evidente l’opposizione di entrambe, seppure abbiano scelto di non apporre il veto. Chiara l’indicazione russa che la responsabilità di come andranno le cose è degli Stati Uniti.

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