IL REVIVAL DEI RAPPORTI TURCO-STATUNITENSI È IL TRIONFO DEL TRANSAZIONALISMO

DiOld Hunter

25 Ottobre 2025
L’approccio pragmatico di Trump alla Turchia segna una svolta strategica rispetto a quello moralistico di Washington, segnalando una partnership transazionale volta a rimodellare gli equilibri regionali e a ripristinare il valore di Ankara nella strategia globale degli Stati Uniti.

di Salman Rafi Sheikh, journal-neo.su, 25 ottobre 2025   —   Traduzione a cura di Old Hunter

Con un sorprendente capovolgimento del tono duro e moralizzatore dell’amministrazione Biden nei confronti della Turchia, il presidente Trump ha optato per l’impegno anziché per l’estraniazione, per il pragmatismo anziché per le prese di posizione. Il suo contatto con il presidente Recep Tayyip Erdoğan segnala non solo un disgelo nelle relazioni, ma anche un calcolato riconoscimento del fatto che la Turchia è ancora troppo preziosa strategicamente per essere messa da parte. Dalla Siria al Mediterraneo orientale, Trump sembra credere che una partnership efficace con Erdoğan offra agli Stati Uniti vantaggi ben maggiori rispetto ai rapporti frammentati e diffidenti degli ultimi anni.

Oltre le ideologie

Il rinnovato impegno del presidente Trump con la Turchia segna una netta rottura con l’approccio inutilmente aggressivo dell’amministrazione Biden. Sono finite le lezioni di democrazia e diritti umani; al loro posto c’è un calcolo pragmatico e transazionale. L’istinto di politica estera di Trump – secondo cui l’America trae più vantaggi dagli accordi che dalle dottrine – definisce ora la posizione di Washington nei confronti di Ankara, così come nei confronti di molti altri Paesi.

Questo cambiamento è stato pienamente evidenziato durante la visita del presidente Erdoğan alla Casa Bianca nel settembre 2025. Invece di scontrarsi sul sistema missilistico russo S-400 o sull’apparente declino democratico della Turchia, Trump si è concentrato su ciò che si poteva ottenere dalla cooperazione. I risultati hanno parlato da soli: la Turkish Airlines ha annunciato acquisti multimiliardari di Boeing ; Ankara ha proposto un accordo da 100 milioni di dollari per il caso Halkbank; e le discussioni avrebbero incluso la possibilità di ripristinare la partecipazione sospesa della Turchia al programma F-35, a condizione di accettare di limitare i suoi legami energetici con la Russia.

Questa è l’essenza del transazionalismo trumpiano: una politica estera guidata da una reciprocità tangibile piuttosto che da ideali astratti. Laddove Biden ha cercato di isolare Erdoğan per aver sfidato le norme occidentali, Trump vede un’opportunità per sfruttare le sue ambizioni a vantaggio degli Stati Uniti. La Turchia, in quest’ottica, non è un paria, ma una potenza cruciale, soprattutto se può aiutare Washington a gestire crisi come Gaza e la Siria, fino alla più ampia contesa con Iran e Russia.

I critici americani sembrano avvertire che tale pragmatismo rischia di rafforzare i partner autoritari e di erodere la reputazione morale dell’America. Eppure, i consiglieri di Trump sostengono che l’atteggiamento morale dell’amministrazione Biden abbia ottenuto scarsi risultati perché la Turchia ha comunque acquistato gli S-400 e ha tracciato un percorso indipendente. Il realismo di Trump, sostengono, accetta il mondo così com’è: definito dalla leva finanziaria, non dalle prediche.

Verso il pragmatismo

Ankara, allo stato attuale, sembra disposta a collaborare con gli Stati Uniti. Questo perché il rinnovato impegno della Turchia con Washington sotto la presidenza Trump riflette uno sforzo calcolato per riposizionare Ankara all’interno di un ordine globale in evoluzione, non semplicemente un ritorno a un allineamento occidentale. Questo impegno è guidato da pressioni convergenti – strategiche, economiche e geopolitiche – che hanno spinto la Turchia a ricercare flessibilità piuttosto che lealtà.

A livello strategico, Erdoğan mira a porre fine al parziale isolamento della Turchia all’interno della NATO. Dall’acquisizione dei sistemi russi S-400 nel 2019, Ankara ha dovuto affrontare sanzioni statunitensi e l’esclusione dal programma F-35, misure che hanno limitato il suo accesso a tecnologie di difesa avanzate. Riaprendo il dialogo con Trump, Erdoğan cerca di rientrare nella rete della difesa occidentale, mantenendo al contempo la sua influenza su Mosca. Le discussioni alla Casa Bianca su una potenziale revoca delle sanzioni e sul rientro condizionato della Turchia nel consorzio F-35, in cambio della riduzione dei legami energetici con la Russia, riflettono l’obiettivo di Ankara di bilanciare le forze piuttosto che schierarsi. Sebbene l’effettivo bilanciamento possa richiedere ancora del tempo, è evidente che Ankara ora preferisce questa strada.

Dal punto di vista economico, le motivazioni della Turchia sono ancora più pressanti. Con l’inflazione che si aggira intorno ai massimi storici e la fragile fiducia degli investitori, Erdoğan vede i legami più stretti con gli Stati Uniti come un meccanismo di stabilizzazione. L’annuncio di acquisti multimiliardari di Boeing e la proposta di Ankara di risolvere il caso Halkbank segnalano un più ampio tentativo di ricostruire la credibilità presso i mercati e le istituzioni finanziarie occidentali. Per Erdoğan, la simbolica cooperazione economica con gli Stati Uniti funge anche da segnale agli investitori che la Turchia è tuttora ancorata al commercio transatlantico.

A livello regionale, Ankara punta a rivendicare il suo ruolo di attore decisivo nella diplomazia mediorientale. L’impegno con Washington offre una leva in Siria, nel Mediterraneo orientale e a Gaza, arene in cui la Turchia si è spesso trovata a competere con la politica statunitense, anziché coordinarsi con essa. I cordiali legami con gli Stati Uniti, ad esempio, consentiranno ad Ankara di proteggere il regime che è riuscita a instaurare dopo aver cacciato al-Assad. Riaffermare la propria rilevanza attraverso la cooperazione transazionale consente a Erdoğan di riposizionarsi come attore chiave nella regione, che sta attraversando una rapida trasformazione nel contesto della ricostruzione di Gaza, delle tensioni tra l’Occidente e l’Iran e della ricerca da parte dello Stato arabo di quadri di sicurezza regionale più ampi.

Riuscirà la Turchia a bilanciarsi tra i superpoteri?

Sebbene i rinnovati rapporti della Turchia con gli Stati Uniti rappresentino certamente una fondamentale apertura, è innegabile che Ankara stia anche camminando su un filo molto teso, cercando di tenere un piede a Washington e l’altro a Mosca, nonostante il terreno su cui entrambi si muovono. Il riassetto transazionale di Trump con Erdoğan ha offerto alla Turchia un’apertura temporanea, ma comporta anche delle condizioni. Washington vuole risultati, non retorica: misure concrete per ridurre i legami energetici della Turchia con la Russia, un maggiore coordinamento in Siria e un definitivo distacco dal settore della difesa di Mosca. Le speranze di Ankara di riottenere l’accesso al programma F-35 e di allentare le sanzioni CAATSA dipendono dalla dimostrazione della sua volontà di allinearsi, almeno parzialmente, alle priorità strategiche degli Stati Uniti.

Ma Mosca osserva attentamente, e qualsiasi mossa troppo radicale verso Washington potrebbe essere vista come un tradimento dell’equilibrio post-2016 che entrambi i Paesi sono riusciti a mantenere. Pertanto, se Washington e Mosca dovessero addentrarsi ulteriormente nello scontro, la neutralità attentamente studiata da Ankara potrebbe trasformarsi meno in una strategia e più in un conto alla rovescia per schierarsi.

In definitiva, la forza della Turchia – sia a livello internazionale che nazionale – risiede nel mantenere la sua utilità per le potenze concorrenti, piuttosto che nel suo impegno totale con una delle due parti. In un mondo in cui Stati Uniti/NATO e Russia potrebbero essere sempre più in conflitto, la lealtà verso una delle due parti limiterebbe la libertà d’azione della Turchia e la esporrebbe alle ritorsioni dell’altra. Al contrario, rimanere indispensabile per entrambe consente a Erdoğan di ottenere concessioni, esercitare influenza e sostenere l’autonomia strategica della Turchia. Per Washington, la Turchia è importante per la sua appartenenza alla NATO, il suo controllo sullo stretto del Mar Nero e il suo ruolo nella diplomazia regionale. Per Mosca, Ankara è vitale come canale di approvvigionamento energetico e un utile cuneo all’interno della NATO.

La sfida – e l’abilità – di Erdoğan sta nel convincere entrambe le potenze che alienarsi la Turchia sarebbe più costoso che accontentarla. Solo così potrà trasformare la vulnerabilità in potere contrattuale. La sopravvivenza di Ankara, quindi, non dipende dallo schierarsi, ma dall’assicurarsi che nessuna delle due parti possa permettersi di perderla. In futuro, presentarsi come indispensabile sarà il fulcro della diplomazia di Ankara.

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