
Che l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti fosse dovuta ad un insieme di fattori, di cui due principali, l’ho sempre sostenuto e ne sono assolutamente convinto. Il primo di questi è stato che una parte minoritaria del deep power statunitense riteneva urgentemente necessario modificare il modo in cui veniva gestita la strategia imperial-egemonica degli USA, in particolare da quel blocco di potere che possiamo identificare nella convergenza tra il mondo politico democratico (inteso come partito) ed i neocon. Il secondo, la disponibilità su piazza di una figura – Trump appunto – che aveva le caratteristiche necessarie per poter competere vittoriosamente alle elezioni, con riferimento in particolare al movimento MAGA.
Tutto ciò, naturalmente, va comunque inquadrato alla luce di un presupposto ovvio ma spesso ignorato, ovvero il fatto che per una potenza imperiale è assolutamente fondamentale avere una strategia globale che ragioni su tempi lunghi, e che quindi non può essere soggetta a cambiamenti radicali ogni quattro anni, sulla base delle alternanze alla presidenza. Ciò implica non solo che tali strategie vengano definite prevalentemente al di fuori delle singole amministrazioni, ma che vi sia un apparato che provvede non solo ad elaborarle, ma anche ad assicurarsi che vengano applicate. Ed è precisamente ciò che chiamiamo correntemente deep state (e che io preferisco definire deep power); che non va però immaginato come una organizzazione segreta, una sorta di Spectre, ma – appunto – come un insieme di poteri, istituzionali e non, la cui durata non è soggetta al voto popolare, e la cui composizione può, entro certi limiti, essere mutevole.
Alla luce di quanto detto, appare chiaro come un presidente degli Stati Uniti, per quanto formalmente dotato di grandi poteri, sia di fatto limitato, nel suo agire, da un quadro generale predeterminato. E Trump non fa eccezione. Per quanto ami pensarsi e presentarsi come un monarca, ogni sua scelta è possibile all’interno di questo ambito circoscritto. Che però, altrettanto ovviamente, deve in qualche misura tener conto anche delle oscillazioni dell’elettorato, cui in ultima analisi spetta formalmente il potere di scelta dei suoi rappresentanti.
La ragione fondamentale per cui si è determinata questa rottura, rispetto ad una lunga stagione precedente, è che il declino dell’impero americano stava accelerando troppo (probabilmente anche più del previsto), e ciò rendeva necessario degli aggiustamenti strategici. Fondamentalmente, e chiaramente semplificando, il passaggio da una strategia conflittuale a 360°, che puntasse a sconfiggere e/o contenere sia la Russia che la Cina attraverso una postura aggressiva, ad una che, preso atto della insostenibilità di questa impostazione, cerca di contenere e separare i due avversari, attraverso una tattica che mescola dialogo e pressione, sia economica che militare.
Se ora andiamo ad osservare il quadro strategico globale, quale si presenta ad un anno dall’elezione di Trump, possiamo provare a comprendere quali sono gli ostacoli che questa strategia sta incontrando, quali le problematiche che deve risolvere, e soprattutto quali sono le prospettive sul breve-medio periodo.
Fondamentalmente, possiamo focalizzare l’attenzione su quattro grandi quadranti di teatro, tenendo comunque presente che si influenzano variamente l’uno con l’altro, e che gli stessi confini che li delimitano sono da intendere come estremamente flessibili e porosi.
Identifichiamo questi quadranti, quindi, con l’Europa, l’Asia Centro-Occidentale (quindi compreso il Medio Oriente), l’Estremo Oriente e l’Emisfero Occidentale (inteso come le due Americhe, nord e sud).

Per quanto riguarda l’Europa, è abbastanza evidente che – nonostante una ostilità ideologica di gran parte dei governi del continente, verso l’amministrazione Trump – alla resa dei conti il vassallaggio di questi nei confronti dell’impero, indipendentemente da chi regga protempore lo scettro, è rimasto totale ed assoluto. Il che sta consentendo di portare a compimento un processo, avviato già nella fase precedente, ovvero la vampirizzazione della colonia europea. La distruzione dell’economia del vecchio continente, a tutto vantaggio di Washington, ha raggiunto un livello considerevole, quasi irreversibile; ci sarebbe da chiedersi quanto ciò, in una prospettiva strategica, di lungo periodo, sia effettivamente utile per gli Stati Uniti, e non rischi piuttosto di rivelarsi un boomerang, ma comunque questo è lo stato delle cose. A fronte dell’impossibilità conclamata di sconfiggere strategicamente la Russia, attraverso una combinazione di azione militare ucraina ed una economico-diplomatica occidentale, la nuova linea prevede un’azione più soft. Inizialmente Trump sperava che fosse possibile aprire un dialogo con Mosca, a partire da un sostanziale congelamento della situazione sul fronte bellico, ma questo è risultato impossibile. Attualmente, Washington punta piuttosto a mantenere la pressione, utilizzando l’intera Europa come nuova Ucraina (capitalizzando nel contempo tutto il possibile sotto il profilo economico), ed al tempo stesso agitando la carota di una riapertura del dialogo bilaterale con Mosca.
Per quanto attualmente tutto sembri indicare che, tatticamente, ciò si concretizzi in un disimpegno diretto dal conflitto (delegato, o meglio scaricato, agli europei), è davvero impensabile ritenere che la sconfitta dell’Ucraina (e quindi dell’Europa), che ineluttabilmente avverrà, manu militari e con una capitolazione, non comporti dei riflessi strategici che investano direttamente gli Stati Uniti – e quindi l’amministrazione Trump. Non è ben chiaro come gli USA pensino di gestire questa situazione, se non – appunto – attraverso una operazione di maquillage, uno sganciamento progressivo dal conflitto, che tra le altre cose va in direzione di una modifica radicale – de facto, anche se magari non de jure – del rapporto con la NATO. Questo rapporto sta mutando, e gli USA stanno passando dal ruolo di principale attore dell’Alleanza – sia in termini di contributo economico e militare, sia in termini di comando – ad uno di alleato esterno; la NATO come organizzazione politico-militare europea, legata da alleanza agli Stati Uniti, ma comunque da questi distinta. Ovviamente, è precisamente questa la maggiore criticità che Washington si trova ad affrontare in questo teatro, ed inevitabilmente il modo in cui verrà affrontata
si rifletterà anche sul dialogo con Mosca, che entrambe desiderano, ma che per i russi è meno essenziale che per gli americani.
Il secondo teatro, quello dell’Asia Centro-Occidentale, è ovviamente il più complesso, ed il più pericoloso.
Qui gli Stati Uniti si devono confrontare fondamentalmente con due elementi estremamente contraddittori tra di loro, ma entrambe imprescindibili. Da un lato, il sostegno ad Israele, che rappresenta non solo un dogma storico della strategia regionale statunitense, ma anche un imperativo, in virtù del fatto che una parte significativa del deep power che ha portato Trump alla presidenza, e del suo stesso entourage politico e personale, è fortemente segnato dalle lobbies sioniste americane. Dall’altro, la necessità altrettanto strategica di mantenere una strettissima relazione con i paesi arabi produttori di petrolio, sia per l’importanza che questo ha nel confronto con la Cina, sia perché – stante la drammatica situazione del debito statunitense – l’aggancio con un bene reale come il petrolio è fondamentale per la difesa del dollaro come valuta internazionale.

La contraddizione tra questi due fattori è oggettivamente insanabile, poiché gli interessi degli uni sono inconciliabili con quelli degli altri, e da qui discende una politica statunitense che è perennemente sottoposta a tensioni, e che cerca costantemente mediazioni temporanee, che valgano a non far deflagrare oltre misura il conflitto latente. E che, ovviamente, risulta priva di prospettiva strategica, e spesso anche di credibilità spicciola.
Il fatto che Israele, un po’ come inevitabile portato storico, un po’ come esito degli ultimi vent’anni di politica sguaiatamente aggressiva, sia oggi in una situazione di crisi estrema, tale da far intravedere la sua stessa fine entro un orizzonte temporale relativamente breve, ha determinato a sua volta una situazione ancora più complessa per Washington. Da un lato, infatti, la storica dipendenza israeliana dal sostegno statunitense ha raggiunto un livello mai visto prima, in cui di fatto la stessa esistenza fisica dello stato ebraico dipende essenzialmente dagli USA; dall’altro, ed in diretta conseguenza di ciò, Israele si aggrappa agli Stati Uniti con la forza della disperazione, e con uguale forza premono le lobbies interne agli USA.
Idealmente, Washington vorrebbe che Israele, magari con un certo aiuto da parte statunitense, fosse in grado di infliggere una sconfitta strategica ai suoi nemici in Medio Oriente, e quindi di mettere i paesi arabi nella condizione di dover accettare una convivenza semi-subordinata a Tel Aviv. Ma questa strada, che Israele ha perseguito col pieno supporto americano, si è dimostrata impraticabile. Lo stato ebraico è stato sconfitto in Libano, poi ancor più pericolosamente nello scontro con l’Iran, ed infine – pur essendosi spinto ogni oltre morale, ricavandone il disprezzo e la riprovazione mondiale – è stato di fatto sconfitto anche in Palestina. E tutte e tre le volte è stato necessario l’intervento diretto di Washington per salvare la situazione – a volte tramite la diplomazia, a volte tramite un mix di questa e di forza.
Il problema insolubile della suaccennata contraddizione, è reso ancor più complicato dalla presenza di altri attori. La presenza della Repubblica Islamica dell’Iran, infatti, è un elemento conflittuale che può essere risolto soltanto con la sconfitta totale di uno dei due nemici, Teheran e Tel Aviv. Ma, a sua volta, Israele non è assolutamente in grado di sconfiggere da sola l’Iran, e nemmeno con un appoggio parziale da parte statunitense. Un impresa del genere potrebbe essere tentata soltanto dagli USA stessi, con un impegno diretto e massiccio. Ma ciò che fu fatto contro l’Iraq non è neanche lontanamente replicabile contro l’Iran. Innanzi tutto, perché è molto ma molto più forte. E poi perché Baghdad era di fatto isolata, mentre Teheran ha alle spalle sia la Russia che la Cina, le quali hanno interessi strategici giganteschi nel mantenere in piedi l’alleato, che si tratti delle rotte petrolifere e della Via della Seta, o della presenza nel Mediterraneo. Se cadesse l’Iran, la Cina perderebbe l’accesso al petrolio mediorientale, e la Russia finirebbe con l’essere espulsa dalla regione (e quindi, a catena, dall’Africa), perdendo la possibilità della proiezione strategica nel Mediterraneo.
La criticità che quindi l’impero americano affronta in questo teatro è quella di non poter avere alcuna strategia praticabile, capace di stabilizzare il proprio controllo sull’area, ed il massimo a cui può aspirare – sinché gli sarà possibile – è la gestione dell’instabilità.
Il terzo teatro è quello dell’Estremo Oriente, dove gli Stati Uniti devono confrontarsi con la potenza crescente della Cina. Di fatto, il tentativo di contenerla, agendo sia sulla leva economico-commerciale, sia su quella tecnologica, è sostanzialmente fallito. Per quanto riguarda la guerra commerciale, Trump ha dovuto velocemente prendere atto che, per usare una sua espressione, gli Stati Uniti “non hanno le carte”; o comunque ne hanno troppo poche. Il tentativo di far pesare il vantaggio tecnologico (residuo), soprattutto nel settore dei chip, si è rivelato controproducente, perché – come è stato anche per la Russia – è servito solo ad accelerare un processo già in atto, ovvero quello della ricerca dell’autosufficienza.

Se, quindi, su questo piano il contenimento della Repubblica Popolare Cinese si è dimostrato quantomeno scarsamente efficace, di fatto non rimane altra carta da giocare che quello del contenimento militare. Questa è naturalmente una questione strategica imprescindibile, per Washington. Se infatti la Russia può essere considerata importante – come di fatto Trump ha riconosciuto ad Anchorage – non è comunque ritenuta un avversario globale, capace di competere sul piano dell’egemonia, mentre Pechino è assolutamente ascrivibile a questa categoria, ed il fondamento di qualsiasi dottrina strategica statunitense è che nessun avversario capace di competere a questo livello può essere tollerato.
E per mettere in campo una capacità di contenimento su questo piano, ed a questa dimensione di scala, fondamentalmente gli USA devono cercare di agire su due livelli. Da un lato, evitare che le capacità nucleari cinesi crescano al punto di poter bilanciare sufficientemente quelle statunitensi, privando quindi Washington di questa deterrenza. Cosa che, ad esempio, cercano di fare provando ad avviare un processo di limitazione della proliferazione nucleare tirando dentro Pechino oltre Mosca, cosa che ovviamente la Cina rifiuta, perché significherebbe inchiodarla ad una condizione di inferiorità in questo settore altamente strategico.
Dall’altro, poiché ovviamente il contenimento militare significa essenzialmente capacità di interdizione sulle rotte energetiche e commerciali, si pone la necessità di adeguare l’US Navy, ponendola in condizione – sia per tonnellaggio che per modernità dei mezzi – di agire efficacemente in prossimità della sponda opposta del Pacifico. Anche se Giappone e Corea del Sud non sembrano disposte a seguire gli Stati Uniti in una politica troppo aggressiva, questi due paesi, oltre alle Filippine, rappresentano di fatto la triade geografica su cui dispiegare la rete di basi d’appoggio per la flotta, gli aeroporti e le basi missilistiche, che costituiscono la retrovia necessaria per l’impiego della forza navale.
Ma, ovviamente, è a quest’ultima che viene affidato il compito principale, soprattutto per quanto riguarda la capacità di controllare i passaggi cruciali, come lo stretto di Malacca, tra Indonesia e Malesia. Anche se la Cina ha in progetto di aprire un canale tra Golfo del Siam e Mare delle Andamane, abbreviando considerevolmente le rotte marittime, ed aggirando la strettoia dei Malacca, questa è comunque l’area cruciale sia per Washington che per Pechino. Non a caso, quest’ultima sta investendo grandi risorse soprattutto nel potenziamento della sua Marina Militare – di recente, è entrata in servizio la terza portaerei.
In questo teatro, quindi, gli Stati Uniti devono confrontarsi con due criticità, complementari. Da un lato, i limiti – tutti da verificare – della disponibilità degli alleati locali nel partecipare ad una eventuale fase ostile con la Cina. E dall’altro, la rincorsa con la capacità cantieristica cinese. Mentre la marina statunitense è ancora complessivamente superiore sia per tonnellaggio totale che per numero di portaerei (ma deve presidiare numerose aree strategiche), quella cinese è largamente composta da navi più moderne, e grazie ad una produzione cantieristica enormemente superiore a quella americana, è in grado di varare navi ad un ritmo anche più di dieci volte quello statunitense. E qui che poi il problema del fattore tempo, che ovviamente riguarda l’intera strategia globale dell’impero americano, si manifesta in modo più stringente.

Quarto ed ultimo teatro, l’Emisfero Occidentale, il cortile di casa. Per quanto questa espressione induca a pensare ad una situazione di piena padronanza, la realtà è in effetti assai diversa, come del resto la vicenda venezuelana dimostra plasticamente.
Già il fatto stesso che il think tank della Rand Corporation – uno dei più influenti centri studi strategici del deep power – abbia ritenuto necessario richiamare l’attenzione su questa parte di mondo, attesta il cambiamento prodottosi proprio fuori la porta di casa dell’impero. Ma il ripristino della Dottrina Monroe è reso più complicato, non solo dal declino, ma anche da quanto avvenuto nel sub-continente americano negli ultimi decenni.
Gli elementi fondamentali di questo mutamento sono facilmente riassumibili: crescita della spinta all’affrancamento dal dominio yankee in paesi importanti (Messico, Brasile), crescita della componente ispanica nella popolazione degli stessi Stati Uniti, enorme sviluppo dei BRICS – con Brasilia tra i fondatori – e penetrazione russo-cinese nel continente.
Per quanto, ovviamente, l’influenza di Washington sia ancora molto forte, in alcuni paesi definibile come pieno controllo, è chiaro che i vecchi meccanismi di dominio non sono più praticabili. I bei tempi dell’ITT e della United Fruit, della Escuela de las Americas e dei golpe a gogò, sono definitivamente andati. Oggi la United Fruit si chiama Chiquita, e di nuovi Pinochet non c’è traccia.
Quando persino paesi come Messico e Colombia, storicamente a mezza strada tra la colonia e l’azienda sub-appaltatrice, si permettono alzate di indipendenza ed autonomia, è un chiaro segno dei tempi mutati. Tant’è che, per rimettere piede significativamente nell’America Latina, Washington deve farsi carico di un pagliaccio come l’anarco-capitalista argentino Milei, e di 40 miliardi di dollari da pompare in quell’economia. Il Brasile, per quanto il Pentagono abbia ancora i suoi tentacoli nelle forze armate del paese, è sempre più integrato nella nuova economia del sud globale. E soprattutto, oltre i piccoli fastidi come Cuba e Nicaragua, c’è l’ingombrante Venezuela, che tiene insieme i più grandi giacimenti petroliferi del pianeta ed una rivoluzione socialista, che oltretutto essendo nata in seno all’esercito lo rende abbastanza immune alle interferenza statunitensi.
Caracas è importante sia per Mosca che per Pechino. Certo, è troppo lontana perché si possa pensare, anche solo lontanamente, ad un loro intervento diretto in caso di conflitto. Ma è chiaro che entrambe si muovono in modo tale da rendere poco conveniente qualsiasi avventura da parte di Washington. Che oltretutto, a parte l’effetto elettorale di una guerra – con relativi sacchi neri di ritorno in patria – rischierebbe di creare non pochi problemi. Innanzi tutto, la solidarietà di pressoché tutti i paesi latino-americani, che nel caso di una resistenza prolungata, stile Vietnam (ed il paese si presta orograficamente), potrebbero discretamente fare da retrovia per la guerriglia bolivariana. Inoltre, la significativa presenza ispanica all’interno degli Stati Uniti, ed in particolare nelle forze armate, potrebbe potenzialmente creare fratture interne pericolose. Non a caso, Trump ha fatto radunare sotto le coste venezuelane una grossa forze aeronavale, che però sta lì ormai da mesi, ed a parte il tiro al piccione su alcuni motoscafi – presuntamente implicati nel traffico di droga – non fa alcun passo in direzione di qualcosa che giustifichi questa esibizione di forza. Un impasse che indica non solo l’esitazione della Casa Bianca, ma anche l’approssimazione del calcolo con cui è stata messa in piedi tutta l’operazione. Con il rischio concreto che, a questo punto, qualsiasi mossa si riveli controproducente; se ritira le forze, senza aver ottenuto alcun risultato, farà la figura di chi non sa portare a termine la missione – e Maduro canterà vittoria – ma se attacca in qualche modo, rischia di inimicarsi l’intero subcontinente. Forse, l’unica via d’uscita che gli rimane è un attacco più o meno concordato, come quello contro i siti nucleari iraniani, che gli consenta di atteggiarsi a John Wayne, ma appunto per finta, su pellicola non nella realtà.
D’altro canto, Pechino – che sta penetrando commercialmente in tutta l’America Latina, a cominciare ovviamente dalla sponda sul Pacifico, è troppo interessata al petrolio venezuelano, e più in generale all’area caraibica come interfaccia tra Atlantico e Pacifico (vedi sia il coinvolgimento nel canale di Panama, sia l’ipotesi di un nuovo canale in Nicaragua), mentre per Mosca si tratta di un elemento di deterrenza strategica: se gli USA dovessero tornare a minacciare lo schieramento di missili sul teatro europeo, la Russia potrebbe a sua volta minacciare di schierarli per ritorsione in Venezuela.
Fondamentalmente, quindi, la criticità che Washington deve affrontare nel cortile di casa non è tanto dovuta ad una immediatezza di minacce da parte degli avversari, quanto piuttosto alla difficoltà di riprendervi un ruolo non semplicemente egemonico, ma di vero e proprio controllo.
Insomma, in conclusione si può affermare che per il declinante impero statunitense ci sono numerosi problemi da affrontare, e tutti di non facile soluzione; a rendere tutto ancor più complicato c’è la necessità di doverli affrontare praticamente tutti nello stesso tempo, con la consapevolezza che ogni errore, ogni defaillance, si rifletterà immediatamente anche sugli altri teatri. La leadership statunitense deve agire sia per frenare il declino, sia per fronteggiare avversari le cui capacità crescono a vista d’occhio, e che proprio dalla complessità del quadro globale traggono forza. Ciascuno di essi, infatti, anche quando gioca una partita globale come la Cina e, in minor misura, la Russia, non è però così profondamente coinvolta in tutti i teatri di scontro. Capire come affrontare queste criticità è per i leader degli Stati Uniti – sia quelli formali che quelli sostanziali – la grande scommessa. In particolare, in ordine di tempo, il modo in cui cercheranno di risolvere la crisi venezuelana e quella mediorientale sarà probabilmente determinante per l’esito delle elezioni di mid-term, che in caso di sconfitta trumpiana potrebbe determinare una situazione di paralisi, con la Casa Bianca ed il Congresso impegnate soprattutto in una guerra intestina, una vera e propria resa dei conti interna al deep power, e che sfiorerà probabilmente un clima da guerra civile. Se ciò dovesse accadere, la capacità di intervento statunitense, su tutti i quattro teatri, decadrebbe drasticamente, lasciando campo libero agli avversari o, nel migliore dei casi, al caos.
