L’operazione Al Aqsa Flood del 7 ottobre 2023 è indiscutibilmente un evento che ha cambiato completamente il quadro geopolitico mediorientale, ed i suoi effetti sono destinati a protrarsi ancora a lungo. Ovviamente, il primo e più evidente è stato lo stop al processo di stabilizzazione-integrazione, avviato da Trump durante il suo primo mandato, e che va sotto il nome di Accordi di Abramo. Riaccendendo violentemente i riflettori sulla questione palestinese, ha messo in luce come sia semplicemente impossibile immaginare un disegno strategico per la regione senza affrontare questo nodo.
In ogni caso, sia durante la fase finale della presidenza Biden, che durante il primo anno del secondo mandato di Trump, la strategia statunitense è stata sostanzialmente basata sulla delega completa ad Israele, affinché risolvesse militarmente la questione; Netanyahu, oltretutto, assicurava di poterlo fare in modo pressoché definitivo. Ma due anni di guerre su sette fronti diversi hanno dimostrato non solo che la sicumera del leader israeliano era del tutto infondata, ma che al contrario lo sforzo bellico di Tel Aviv è valso sostanzialmente a far crescere a dismisura la dipendenza dello stato ebraico da Washington. Esattamente come è stato per l’Ucraina di Zelensky, ad un certo punto è apparso chiaro che il proconsole statunitense nella regione non era più in grado di svolgere il ruolo di proxy militare, e che persino sotto il profilo politico stava determinando più danni di quanto fosse possibile immaginare. E non solo sul piano internazionale, ma anche nel cuore elettorale dell’impero.

Ciò ha reso necessario che fosse Washington a riassumere le redini del gioco. Ovviamente per gli Stati Uniti non è possibile sganciarsi dal conflitto mediorientale così come stanno facendo con quello ucraino. Intanto, perché la potente lobby sionista negli states non lo permetterebbe. E poi perché non c’è un equivalente dei paesi europei per ricoprire un ruolo di supplenza. Da tempo, sicuramente da quando Netanyahu ha iniziato la sua ormai ventennale carriera politica, il rapporto tra Tel Aviv e Washington è progressivamente mutato, sino al punto che oggi Israele è diventato un vero e proprio simbionte. Ma a partire dal 7 ottobre, la simbiosi ha via via subito una ulteriore accelerazione, ed al tempo stesso una ulteriore modifica, caratterizzandosi sempre più come una relazione parassitaria. Israele si aggrappa agli USA come un bagnante in pericolo si aggrappa a chi lo sta aiutando.

Fondamentalmente, infatti, per la leadership israeliana – che in questo riflette un sentiment diffuso in larghissima parte della popolazione ebraica del paese – non c’è in gioco semplicemente una questione di difesa degli interessi strategici propri del paese; che peraltro non sempre coincidono con quelli statunitensi. Per Israele entrano in ballo altri due fattori, apparentemente opposti: da un lato, la percezione di essersi spinti fin sull’orlo dell’abisso, e quindi la paura di una effettiva minaccia esistenziale, e dall’altro la pulsione messianica verso l’espansione e la costruzione di Eretz Israel. Ambedue i fattori sono irrazionali, e quindi difficili da governare. Ma al tempo stesso trovano una sorta di sintesi, nella percezione che la conquista di nuovi territori funzioni anche come un allontanamento spaziale della minaccia, un modo per acquisire quella profondità strategica che Israele non ha mai avuto.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, quindi, la necessità di riprendere in mano le redini è sia tattica – per riassumere il controllo del proxy, evitarne mosse dannose e contenerne la continua richiesta di risorse – sia strategica – per tornare a cercare di far prevalere i propri interessi, in un’area fondamentale per la grande partita globale. Operazione che però è resa estremamente difficile, se non impossibile, dalla natura del rapporto simbiotico – che non può essere rescisso – dalla irrazionalità (e quindi dalla incontrollabilità) israeliana, ma anche e soprattutto dal fatto che questi elementi sono un ostacolo insuperabile alla definizione di una strategia praticabile.
In ogni caso, in questa fase Washington cerca appunto di tenere a freno Tel Aviv, e di articolare una strategia regionale, capace di tenere insieme molti interessi diversi, ma sotto l’unico ombrello della sua supervisione.

Questa linea strategica si articola su più piani diversi, costantemente sotto tensione per la tendenza israeliana a sottrarvisi ed a forzare la mano. Il primo livello è quello dei vecchi Accordi di Abramo. Il fatto che Trump abbia dovuto chiedere al Kazakhistan il cadeau di una sottoscrizione degli stessi, in cambio di alcuni accordi commerciali, testimonia delle difficoltà che l’avanzamento di questa parte del piano sta tutt’ora incontrando – e sempre come ricaduta del 7 ottobre. È abbastanza evidente che Netanyahu non è particolarmente interessato, e comunque non è disposto a nulla per favorirne il progresso. Sul tavolo, non c’è soltanto la questione di Gaza, ma anche l’ormai incombente annessione di una ulteriore parte della Cisgiordania (e, di fatto, della liquidazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, ritenuta ormai inutile persino come entità collaborazionista), che costituiscono un ostacolo insormontabile per l’Arabia Saudita, il partner chiave per far decollare gli Accordi, che infatti si trova nella condizione di non poterli sottoscrivere.

Un passetto in questa direzione, ma in larga misura meramente simbolico, potrebbe essere l’adesione della Siria, che potrebbe verificarsi dopo la conclusione di un accordo tra Damasco e Tel Aviv rispetto all’occupazione israeliana del sud siriano. Partita non semplicissima da chiudere, peraltro. Ma pure se alla fine anche la Siria si unisse agli Accordi, non sfugge a nessuno che ciò accadrà sotto la pressione politica statunitense e quella militare israeliana. E comunque il paese è di fatto cantonalizzato, con un governo precario tenuto in piedi soltanto da chi muove i fili a Washington ed Ankara.

Su un altro piano, il disegno statunitense punta allo smantellamento dell’Asse della Resistenza per via politico-diplomatica, nella convinzione che smontandolo pezzo dopo pezzo si otterrà il risultato di isolare ed indebolire l’Iran, e quindi – in prospettiva – di indurlo a più miti consigli. Questa parte del disegno strategico USA si sta attualmente dipanando in particolare nei confronti del Libano e dell’Iraq, ed è gestito dal rappresentante di Trump, Tom Barrack – che si muove e si considera come una sorta di governatore in pectore della regione. In entrambe i paesi, l’obiettivo è quello di arrivare al disarmo delle milizie che fanno capo all’Asse della Resistenza, Hezbollah (ma anche Amal) in Libano, e le varie formazioni riunite nelle Forze di Mobilitazione Popolare, in Iraq. Sia a Beirut che a Baghdad, questo compito dovrebbe essere affidato ai rispettivi capi di governo, Nawaf Salam e Mohammed Shia’ al-Sudani – che ha appena rivinto le elezioni, anche se non con una vittoria eclatante.

A rendere però assai complicata questa parte del disegno statunitense, ci sono dei fattori reali. In Libano, gli ostacoli maggiori sono rappresentati dal fatto che la compagine governativa comprende comunque ministri di Hezbollah e di Amal, senza le cui forze parlamentari non sarebbe possibile governare, e soprattutto che l’esercito libanese – cui dovrebbe essere affidata l’operazione di disarmo delle milizie sciite – non è assolutamente in grado di portare a termine l’operazione. E non lo è sia perché almeno la metà dei suoi effettivi sono a loro volta sciiti (e si può stare sicuri che Hezbollah ha tra questi molti suoi uomini), sia perché l’esercito è troppo debole militarmente, in confronto ad Hezbollah. Paradossalmente, perché i patron occidentali del Libano (USA e Francia in primis) non hanno mai voluto che si rafforzasse, proprio affinché non fosse in grado di opporre resistenza all’IDF.

Situazione simile in Iraq, dove le Forze di Mobilitazione Popolare sono in effetti integrate nell’esercito nazionale iracheno, e dove comunque gli sciiti sono la maggioranza della popolazione. Lo stesso al-Sudani è sciita, e quando arrivò la prima volta alla guida del paese era considerato filo-iraniano. Rispetto al Libano, Washington ha una leva potente, poiché controlla di fatto le vendite del petrolio iracheno, che rappresentano il 90% delle entrate statali. Però la posizione di al-Sudani è di costante ricerca dell’equilibrio tra gli USA ed il potente vicino iraniano, cui sono legate appunto le milizie armate. Anche l’altro importante leader sciita, Muqtada al-Sadr, a sua volta alla guida di una milizia, sebbene non sia (più) filo-iraniano è però fortemente nazionalista, e quindi a sua volta non vede di buon occhio l’egemonia statunitense su Baghdad. Oltretutto, probabilmente non a torto, fà conto che se dovesse passare il disarmo delle Forze di Mobilitazione Popolare, poi toccherebbe a lui.
La situazione in questi due paesi, quindi, vede sostanzialmente uno stallo del disegno USA. Nel quale, con tutta evidenza, conta di inserirsi Netanyahu, offrendo a Washington l’opportunità di aggiungere alla pressione politica una bella impennata di quella militare. Di fatto, Israele si sta preparando per una nuova guerra contro il Libano, ed è probabile che finirà col forzare la mano a Trump e ad ottenerne il via libera.

Su un piano ancora più sofisticato, gli Stati Uniti pensano ad una sorta di grande alleanza anti-iraniana che veda insieme Israele, Arabia Saudita e Turchia. Questa, in ultima analisi, dovrebbe essere la chiave di volta dell’isolamento di Teheran, mettendo insieme i principali paesi che hanno interesse ad eliminare l’influenza iraniana e sciita nella regione. Ma, per quanto Erdogan sia un politico spregiudicato, quello che vale per l’Arabia Saudita – in relazione alla questione Palestina – vale ancor più per la Turchia. Oltretutto, Erdogan si è speso molto di più dei sauditi nel sostenere la causa palestinese, e per quanto mantenga sotto traccia buoni rapporti commerciali con Tel Aviv, è evidente che la sua politica di influenza neo-ottomana entra in conflitto diretto con Israele, in particolare su quelli che Ankara considera territori di sua storica influenza, Siria e Palestina appunto. A sua volta, del resto, gli israeliani non si fidano assolutamente dei turchi, e li vogliono quanto più possibile lontani ed ai margini.

Da tutto ciò, emerge abbastanza chiaramente che i piani statunitensi per il Medio Oriente sono molto ambiziosi, ma anche – a dir poco – molto complicati. Da questo punto di vista, è facile prevedere che salteranno uno dopo l’altro, e che a riprendere spazio sarà l’iniziativa israeliana.
Di ciò si ha già una chiara avvisaglia proprio a Gaza. Che il piano Trump non potesse funzionare era evidente sin dal primo momento, sia per la sua superficialità, sia per l’elusione totale delle questioni nodali, sia per l’inconciliabilità delle posizioni che voleva forzare a trovare l’accordo. E quindi è stato per tutti una necessità (Trump lo ha preteso da Netanyahu, sia pure modificando i termini del piano per compiacere il leader israeliano) o una opportunità (per la Resistenza ed il popolo palestinese, che hanno potuto rifiatare parzialmente).

Mentre ufficialmente si continua a discutere dell’aria fritta – la forza di interposizione internazionale, il mandato ONU, la composizione della governance… – nella realtà dei fatti si sta già andando in tutt’altra direzione. E ovviamente non ci si riferisce qui alle continue violazioni israeliane del cessate il fuoco, ma a qualcosa di molto più sostanziale. Di fatto, si sta concretizzando l’idea della divisione in due della Striscia di Gaza, più o meno lungo l’attuale linea gialla, con un parte (circa il 58% del totale) sotto stretto controllo israeliano, abitata esclusivamente da una popolazione filtrata dall’intelligence di Tel Aviv, e dove le varie gang criminali come quella di Abu Shabab verranno impiegate per mantenere l’ordine. Questa parte verrà parzialmente ricostruita, secondo un modello urbanistico concentrazionario, con agglomerati abitativi isolati l’uno dall’altro (le cosiddette Comunità Sicure Alternative) e le vie di comunicazione sotto stretto controllo militare. In pratica, una ulteriore trasformazione dal grande carcere a cielo aperto che era la Striscia, ad una serie di panopticon digitali dove segregare la popolazione sottomessa.
Ma se salta la seconda fase del piano, e si va in questa direzione prima delle elezioni di mid-tem, si aggiungerà un elteriore elemento di debolezza per la compagine trumpiana.

Secondo quanto riportato dal giornale israeliano Haaretz, Israele e Stati Uniti hanno già predisposto un piano in tal senso. Il tenente generale statunitense Patrick Frank, a capo del Centro di coordinamento civile-militare (CMCC) di Kiryat Gat, ha recentemente inviato un’e-mail ai suoi colleghi sottolineando l’urgenza di portare avanti il piano. Una mossa, questa, che rivelerà ancora una volta ai paesi arabi come gli Stati Uniti siano inemendabilmente falsi ed inaffidabili, ed alla fine sempre pronti ad accodarsi ad Israele.
Dal canto suo, Netanyahu dopo aver dovuto subire l’imposizione del cessate il fuoco (che comunque non gli sarà dispiaciuta più di tanto, visto che così si è evitato di dover dar seguito all’ennesima promessa di distruggere Hamas), nel giro di un paio di mesi è già riuscito a ribaltare la situazione, e ad indirizzare le cose in una direzione gradita ad Israele.

Stesso gioco che si prepara a fare in Libano, dove chiaramente il piano Barrack di far disarmare Hezbollah dall’esercito non poteva che fallire, e dove quindi si appresta a presentare una nuova guerra libanese come la sola alternativa per liquidare la milizia sciita.
O quantomeno, questa sarà la storiella che rifilerà ancora una volta a Trump, per ottenerne l’appoggio e i mezzi necessari. Che, a sua volta, pur sapendo che la storia fa acqua da tutte le parti non avrà comunque nulla in mano per opporvisi.
Al di là dei problemi personali di Netanyahu, e di quelli politici della sua maggioranza di governo, la questione ha una dimensione più ampia, ed è sostanzialmente riassumibile in un concetto fondamentale: l’unico modo per tenere ancora unità la società israeliana è la guerra, l’unico modo per sostenere uno stato di guerra permanente è l’appoggio USA e mantenerla a bassa intensità.

Israele deve sfruttare al massimo la sua superiorità aerea, che consente di colpire a basso rischio e danno elevato, senza mettere a repentaglio le forze di terra. L’IDF, infatti, è estremamente provato dai due anni di guerra in Palestina e Libano, sconta un elevato deficit di personale (almeno 12.000 militari in meno), conta una forte incidenza di PSTD tra i reduci, ed una gran quantità di inabili per ferite di guerra, nell’ordine delle migliaia. Mettere mano a misure per reintegrarne la capacità (si parla di aumentare la durata, già considerevole, del servizio obbligatorio) rischia di inasprire le spaccature sociali – ad oggi, ci sono quasi 50.000 haredimi renitenti alla leva.
Ciò nonostante, l’uso delle forze di terra diventa ineludibile, nella strategia israeliana. L’occupazione di Gaza terrà occupata una quota significativa di militari, per un lungo periodo. L’inasprirsi della tensioni in Cisgiordania, dove si sta preparando il terreno per una ulteriore parziale annessione, ne impegna un’altra quota. Poi c’è l’occupazione della Siria meridionale. E la guerra contro Hezbollah dovrà giocoforza arrivare, ancora una volta, ad un attacco lungo il confine.

Quello di cui Israele necessita, quindi, ed anche ciò che può permettersi, è in effetti una guerra ad intensità variabile. Che mantenga una pressione militare costante, su uno o più fronti, e che periodicamente venga incrementata-accelerata, con guerre cinetiche ad alta intensità ma di breve durata.
Il limite di questa strategia è che è semplicemente vecchia e consunta. Si tratta infatti di una elaborazione della strategia storica israeliana della deterrenza, basata su una ricorrente lezione impartita ai nemici con una azione militare violenta, concentrata e veloce, che però funzionava con paesi arabi scarsamente modernizzati e scarsamente motivati, e con formazioni di guerriglia limitate per organizzazione e capacità. Ma – ancora una volta… – il 7 ottobre ha mostrato una realtà radicalmente diversa.

Le formazioni di guerriglia come quelle della Resistenza palestinese hanno raggiunto una capacità operativa e strategica di altissimo livello, ed hanno dimostrato una resilienza superiore a quella dell’IDF. Formazioni come quella di Hezbollah sono ormai praticamente equiparabili ad un vero e proprio esercito, con un radicamento territoriale ed una flessibilità operativa che le forze armate israeliano non hanno. Un piccolo stato come lo Yemen ha dimostrato una sorprendente abilità strategica, ed una considerevole resilienza. Per non parlare ovviamente dell’Iran, che ha saputo calibrare la propria capacità di combattimento esattamente su misura del nemico israeliano, mostrando come l’investimento su droni e missili abbia largamente neutralizzato strategicamente la superiorità aerea di Tel Aviv.
Ciò significa che la tattica israeliana si fa sempre più rischiosa, poiché logora inutilmente sia le forze armate che la società civile, senza mai ottenere un risultato che dia quantomeno un certo lasso di tempo di tranquillità. Per quanto a bassa intensità, una guerra così lunga – e di cui non si vede la fine – ha un impatto estremamente incisivo sulla tenuta economica e sociale del paese.

Ma tutto questo significa anche che la dipendenza israeliana dagli Stati Uniti aumenta vistosamente. Sia in termini di aiuti economici e politici, sia in termini di forniture militari, sia in termini di supporto diretto nella difesa del paese. E questo, ovviamente, ha un prezzo. Per quanto le lobbies sioniste in USA mantengano un forte potere di condizionamento, le politiche genocidarie di Israele ne hanno fortemente indebolito l’influenza, tanto che oggi si è reso necessario un forte investimento di propaganda, per cercare di ripristinare l’immagine compromessa di Israele presso i cittadini statunitensi. L’amministrazione Trump, quindi, per quanto debole sul piano delle proposte strategiche – e della sua capacità di portarle avanti – ha comunque in mano una leva in più, se non altro per frenare l’irruenza israeliana.
Ovviamente finché resta la simbiosi, la limitazione vale per entrambe. Infatti il rischio è che – per restare alla metafora precedente – affoghino tutti e due.

In ogni caso, e viene da dire quasi ineluttabilmente, Israele non può fare altro che cercare di trascinare con sé gli Stati Uniti, spingendoli verso un coinvolgimento crescente anche nelle guerre. Anche se ovviamente Washington non rimetterà mai più boots on the ground in Medio Oriente, Tel Aviv vuole che partecipi con la sua aviazione e la sua marina alle operazioni offensive. Soprattutto se – o quando – si arriverà ad un nuovo attacco contro l’Iran, dove il mero supporto di intelligence e nella difesa dello spazio aereo sarebbe assolutamente insufficiente.
Tutto ciò costituisce comunque un gioco sul filo di lama, dove ogni pezzo deve incastrarsi alla perfezione, altrimenti l’intero disegno va all’aria.
Per Trump, la partita è condizionata dalla perdita di consensi in casa, dall’avvicinarsi delle elezioni per il Congresso, e soprattutto dal fatto che – per quanto rilevante – il teatro mediorientale non è l’unico di cui deve occuparsi. Diversamente da Israele, per la quale questa non è soltanto l’unica partita, ma è anche quella per la vita o la morte.

In tutto questo, non bisogna dimenticare che anche gli altri attori, regionali ed internazionali, sono presenti ed agiscono, non come mere pedine di un gioco altrui.
L’Iran, ad esempio, sta muovendosi sempre più pragmaticamente, rafforzando le sue capacità di difesa e di attacco, ma soprattutto rinsaldando sempre più la sua collocazione strategica all’interno di un contesto euroasiatico, collocandosi politicamente oltre che geograficamente come snodo centrale tra la Russia e l’Oriente. Il suo ruolo come potenza regionale, quindi, cerca ed ottiene ancoraggio in questo posizionamento, e non più solo nell’investimento sull’Asse della Resistenza. Che resta però un elemento cardine per mantenere la sua influenza, e non essere relegato all’Asia Centrale. Probabilmente, come del resto è stato nelle precedenti occasioni, non interverrebbe direttamente a sostegno di Hezbollah, in caso di una nuova guerra con Israele. A meno che l’alleato non fosse a rischio serio di subire una sconfitta strategica – cosa che, allo stato attuale delle cose, Israele non sembra essere assolutamente in grado di ottenere.
In questa fase, Teheran gioca in attesa, perché il tempo è dalla sua parte.

Anche la Turchia gioca la sua partita, che ovviamente ha al suo centro la Siria – con tutto ciò che comporta, questione curda al primo posto. L’attuale partizione di fatto del paese va sicuramente contro gli interessi di Ankara, ma al momento non è in grado di contrastarla. Porsi come potenziale gestore di crisi, per conto di Washington, è ovviamente un’opzione allettante per Erdogan, ma per assumere pienamente questo ruolo deve superare l’ostilità israeliana, e soprattutto deve attendere di risolvere realmente la questione curda. Probabilmente, anche un maggiore ritiro delle forze statunitensi dall’area (Siria e Iraq) è un passaggio necessario. La partita che sta giocando la Turchia è comunque di medio-lungo periodo, e sia Erdogan che il suo ministro degli esteri (e probabile successore) Hakan Fidan, ragionano in questi termini.

Un altro attore che si muove pragmaticamente e con lo sguardo lungo, è naturalmente la Russia. Chi aveva pensato che, con la caduta di Assad, sarebbe stata solo una questione di tempo prima che venisse estromessa dalla regione, aveva ovviamente fatto i conti senza l’oste.
Innanzitutto, per Mosca la presenza in Medio Oriente non è affatto secondaria, poiché è un pezzo importante sia per la sua proiezione navale nel Mediterraneo, sia per quella che sta dispiegando nell’Africa sub-sahariana. E, ovviamente, ha una presenza storica nella regione, nella quale svolge comunque un ruolo equilibratore.
Nonostante il costante rafforzamento dei legami con l’Iran, ad esempio, che preoccupa ed irrita non poco la leadership israeliana, Tel Aviv considera la presenza russa come un fattore di sicurezza. Così come Ankara, che vede a sua volta di buon occhio la presenza delle basi russe in Siria; Mosca, inoltre, è vista come elemento moderatore nei confronti dell’Iran.

Last but not least, anche i paesi arabi guardano alla Russia come un elemento di stabilizzazione, che in qualche modo limita le spinte destabilizzatrici che vengono da Israele, e che gli Stati Uniti non sono capaci di contrastare più di tanto.
Mosca quindi agisce con una strategia di lungo periodo, in cui al primo posto c’è il mantenimento della propria presenza in un’area cruciale come il Medio Oriente. Esattamente come gli Stati Uniti (e la Cina) la Russia gioca a tutto campo, i suoi interessi – e la sua proiezione strategica – non sono regionali, e nemmeno confinati all’area euroasiatica. La regione, quindi, è solo un settore della scacchiera. Ma su cui intende fermamente posizionare le sue pedine.

Ancora una volta, quindi, la regione mediorientale si conferma la più turbolenta, la più instabile, e la più pericolosa, tra tutte quelle in cui si dipana il confronto-scontro tra il vecchio mondo che tarda a morire ed il nuovo che sta crescendo. E ancora una volta, la chiave di volta di tutto è la Palestina.
L’ossessiva negazione israeliana di ogni ipotesi basata su due stati, che ancora persegue puntando all’annientamento politico dell’ANP, non lascia ovviamente altro spazio reale che all’ipotesi di un unico stato, laico e democratico, che cancelli ogni forma di apartheid. Ipotesi che implica la dissoluzione dello stato di Israele, probabilmente per implosione.
Di questo, in qualche modo la leadership israeliana sta diventando consapevole, e non può che opporvi – appunto – la guerra permanente. Con l’idea che serva quantomeno a calciare un po’ più in là il barattolo, ma che in realtà non farà altro che accelerare la caduta.

Paradossalmente, questa leadership teme di essere chiamata rispondere per il 7 ottobre – ed i cittadini israeliani si aspettano su questo risposte chiare ed inequivocabili, con le conseguenti assunzioni di responsabilità – ma né gli uni né gli altri si rendono conto che in realtà la vera colpa da attribuire alla prima è proprio l’aver avvicinato la fine di Israele. Sotto questo profilo, capire se, in che misura ed a quale livello la leadership israeliana abbia lasciato accadere o meno l’attacco palestinese del 7 ottobre, diventa una questione di rilevanza storica, ma assai meno di rilevanza politica. Perché quale che sia stato effettivamente lo svolgersi degli eventi, è stata indiscutibilmente Al Aqsa Flood a stravolgere il quadro dell’intero Medio Oriente, rendendo non soltanto possibile ma estremamente probabile la fine dell’ultimo colonialismo europeo.

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