Il gioco della crescita ci ha convinto che l’unico modo per vincere è continuare a giocare.

di Ellie Vanhouten per Common Dreams – Traduzione a cura di Old Hunter
Nel famoso racconto di Richard Connell “The Most Dangerous Game”, [Il Gioco più Pericoloso] il cacciatore Sanger Rainsford cade in mare mentre naviga verso l’Amazzonia, finendo su un’isola di proprietà dell’ingannevolmente carismatico generale Zaroff. Rainsford si aspetta che Zaroff lo aiuti a lasciare l’isola, ma invece Zaroff lo invita a partecipare a una battuta di caccia.
Una caccia in cui Rainsford, con sua totale incredulità, è lui la preda.
La nostra sconsiderata ricerca della crescita economica è diventata il “gioco più pericoloso” della società. Ci tiene intrappolati su un’isola di disuguaglianza, degrado ambientale e potere delle grandi aziende, il tutto convincendoci che c’è ancora una possibilità di vincere se continuiamo a giocare.
Ma non c’è “vincita” in un gioco che dipende dallo sfruttamento delle persone e della natura. Finché la “crescita” sarà definita da profitti e produzione, le persone e il pianeta perderanno sempre.
A meno che tu non sia uno dei pochi Zaroff del mondo: secondo un rapporto di Oxfam, l’1% più ricco del mondo possiede più ricchezza del 95% dell’umanità e, negli ultimi 30 anni, la disuguaglianza dei redditi è aumentata costantemente, al punto che molti economisti ritengono che oggi la ricchezza sia più stratificata che in qualsiasi altro momento dalla Gilded Age [Età dell’Oro].
Se la crescita economica non produce i benefici promessi, perché continuiamo a giocare? Perché coloro che predicano la crescita economica come una via verso la prosperità, di solito le stesse persone che ottengono i maggiori benefici, hanno ideato un gioco di “scelta” forzata: cacciare o essere cacciati. Come spiega Zaroff a Rainsford, “Gli do un’opzione, ovviamente”. Ma se rifiutano, li consegna al suo servitore per torturarli. “Invariabilmente”, riflette Zaroff, “scelgono la caccia”.
La stessa logica viene utilizzata per separare gli obiettivi economici da quelli ambientali, perpetuando la falsa premessa che la riduzione della povertà e l’innalzamento del tenore di vita debbano avvenire a scapito dell’azione sul clima. Questa “scelta” è altrettanto artificiosa: se la crescita economica è davvero un mezzo per migliorare il benessere della società, le azioni che assicurano e sostengono l’accesso ai beni di prima necessità non dovrebbero essere una parte vitale della nostra economia?
Anche gli americani sembrano concordare sul fatto che la crescita economica sia una misura incompleta della prosperità. In un sondaggio rappresentativo a livello nazionale su 3.000 partecipanti, condotto dall’organizzazione di sondaggi Verasight tra il 21 ottobre e il 5 novembre, solo il 12,8% (con un margine di errore del 2,3%) ha risposto che la crescita economica è un modo “per lo più accurato” di valutare il benessere della società. Il resto era scettico, con il 50,8% che lo definiva “abbastanza accurato” e il 36,5% che lo riteneva del tutto inaccurato.
E tuttavia, nonostante l’insoddisfazione, la dissonanza e la distruzione che il nostro modello economico genera, esperti e decisori politici “invariabilmente” ostentano la crescita come il segno distintivo della prosperità. Nel frattempo, gli Zaroff del mondo continuano a soddisfare il loro incontrollato appetito per il profitto, capitalizzando la conservazione dello status quo.
Per vincere questa partita, non possiamo continuare a giocare secondo le regole, ma dobbiamo riscriverle completamente. Possiamo iniziare sfidando una delle regole più dominanti del modello di crescita: il Prodotto Interno Lordo (PIL).
Il PIL è una misura della produzione aggregata, non un riflesso del progresso e del benessere. Esclude i costi dell’inquinamento e dello sfruttamento e ignora 16,4 miliardi di ore di lavoro non retribuito, gran parte del quale è svolto da donne. Omette anche molti beni non materiali (salute, famiglia e uguaglianza) che definiscono la felicità e la qualità della vita. In effetti, gli economisti hanno sempre messo in guardia dal confondere il PIL con il benessere sociale: persino uno dei suoi fondatori, Simon Kuznets, ha detto al Congresso che il PIL era uno strumento scadente per l’elaborazione delle politiche.
Come aveva detto Robert Kennedy nel suo discorso elettorale del 1968, il PIL “misura tutto in breve, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Adottando misure di progresso più inclusive che considerino la salute, l’uguaglianza e il benessere ambientale, possiamo andare oltre la metrica imperfetta del PIL come misura della prosperità. Così facendo, costruiremo economie che diano priorità alle persone e al pianeta invece che a profitti esorbitanti.
Tali misure stanno già prendendo piede negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Ad esempio, l’indice di facilità di vita dell’India valuta il benessere di 114 città indiane, utilizzando un totale di 50 indicatori che rientrano in tre pilastri: qualità della vita, capacità economica e sostenibilità. Su scala internazionale, le Nazioni Unite stanno lavorando per promuovere una “Economia dei diritti umani” che ancora tutte le decisioni economiche ai diritti umani. Negli Stati Uniti, il Vermont è diventato il primo stato ad adottare un’alternativa al PIL chiamata “Genuine Progress Indicator” nel 2012, seguito a breve dal Maryland e da altri 19 stati.
Queste misure non sono perfette, né dovrebbero essere l’unico modo per affrontare un sistema che continua a infliggere danni irreparabili agli ecosistemi e alle comunità globali. Tuttavia, svolgono un ruolo cruciale nello sconvolgere il nostro attuale paradigma di crescita, stabilendo un modello economico in cui il benessere non è esclusivo dei ricchi e in cui gli obiettivi sociali e ambientali vanno di pari passo.
È tempo di denunciare le ingiustizie del nostro sistema economico, di riscrivere le regole e di battere gli Zaroff del mondo al loro stesso gioco.
