Alexander Markovics evoca una mappa di guerra degli spiriti in cui Atlantide e Atene risorgono in ogni anima, chiamando ognuno a scegliere tra l’eroe radicato della terra e il mercante alla deriva del mare in un mondo diviso tra geografia sacra e dissoluzione globalista.

Alexander Markovics, arktosjournal.com, 30 giugno 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
In che misura il territorio in cui viviamo plasma la nostra società ? Che impatto ha la geografia sul nostro modo di vivere? E noi, come esseri umani, abbiamo davvero una “scelta” in geopolitica o siamo già parte di una lotta manichea tra Paradiso e Inferno, Bene e Male, Terra e Mare? Queste domande sul ruolo della geopolitica nella società umana hanno occupato la filosofia europea fin dall’antichità . A quel tempo, tuttavia, la geopolitica non era ancora considerata una scienza indipendente, ma era vista come parte di una visione religiosa del mondo: la geografia sacra. Uno dei primi indicatori si trova nelle opere del filosofo greco Platone, che oltre 3.000 anni fa sviluppò l’idea di un ordine sociale ideale strettamente legato a ciò che oggi chiamiamo geopolitica.
Crizia di Platone: Atlantide contro Atene
Nel suo dialogo Crizia, Platone – il patriarca filosofico del pensiero apollineo – racconta una guerra avvenuta 9.000 anni prima. Sottolinea che la Terra era stata un tempo pacificamente divisa tra gli dei. In quell’epoca lontana, un’Atene primordiale si difese da Atlantide, un’isola mitica a ovest delle “Colonne d’Ercole” (quello che oggi chiamiamo Stretto di Gibilterra). Il personaggio di Crizia, che dà il nome al dialogo, presenta i due sistemi sociali che si affrontarono in questa guerra.
Secondo il suo racconto, l’Atene primordiale, fondata dagli dei Atena ed Efesto, si ergeva all’insegna dellasaggezza e dell’abilità . Era una potenza territoriale che si estendeva ben oltre l’Attica. Vi prevaleva un ordine conservatore e gerarchico, con gli dei che si assicuravano che la terra producesse persone sagge e capaci: uomini e donne che prestavano servizio militare. I contadini erano fisicamente separati dai guerrieri e dai loro leader liberamente scelti. Pertanto, l’Atene primordiale può essere vista come una società conservatrice in cui l’obiettivo dello stato non era la ricchezza materiale, ma la virtù dei suoi cittadini – cittadini che onoravano gli dei Olimpio-Apollinei e mantenevano una struttura gerarchica.
In netto contrasto si ergeva l’isola di Atlantide. Secondo Platone, fu creata dal dio Poseidone, che generò il suo popolo con una donna mortale. Prendendo il nome dal suo primo re, Atlante, Atlantide era caratterizzata dall’abbondanza: foreste, pascoli e risorse sufficienti a sostenere persino gli elefanti. Ogni anno, gli Atlantidei sacrificavano dieci primogeniti a Poseidone, che non apparteneva al pantheon olimpico ed era in antagonismo con Zeus, il padre degli dei. Atlantide, in questa raffigurazione, rappresenta il commercio e il materialismo, tratti considerati immorali nella tradizione ellenico-platonica. Con il diminuire della componente divina negli Atlantidei e il crescere dell’elemento umano, essi furono sempre più sopraffatti dalla propria ricchezza. Ciò li portò alla hybris e infine alla guerra contro Atene. Dal dialogo frammentario Crizia, apprendiamo che la caduta di Atlantide fu una punizione divina, un giudizio, come suggerito nelle ultime righe del dialogo.
Pertanto, la rappresentazione platonica della guerra tra Atlantide e Atene è uno scontro tra due sistemi sociali e civiltà completamente diversi. Da una parte, gli Ateniesi tradizionalisti, radicati nella terraferma, che venerano gli dei e la tradizione; dall’altra, gli Atlantidei, circondati dal mare, spinti dal materialismo e dal commercio all’hybris. Questo conflitto incarna la lotta archetipica tra terra e mare, pietra angolare della sacra geografia ellenica. Visto attraverso l’eterna lente del Logos apollineo, il risultato è chiaro: la civiltà terrestre, duratura e radicata, trionfa sulla civiltà effimera e liquida del mare.
La geopolitica di Mackinder e il cuore dell’Eurasia
Tale era la geografia sacra della tradizione ellenica, che – attraverso l’allievo di Aristotele Alessandro Magno e il suo impero ellenistico – divenne un pilastro fondamentale della civiltà europea. Eppure, come si presenterebbe una teoria geopolitica che spianasse la strada a una civiltà marittima per raggiungere il dominio globale? Nel 1904, il geografo e geopolitico britannico Halford Mackinder propose una tale teoria nel suo fondamentale saggio “The Geographical Pivot of History“, che segnò una svolta per la geopolitica moderna. Propose una tesi materialista: il controllo del “cuore” dell’Eurasia, equiparato all’Europa orientale, era essenziale per governare l’intera isola-mondo dell’Eurasia – e quindi, il mondo stesso.
Mackinder, radicato nel liberalismo illuminista e nel nazionalismo britannico, pose una netta contrapposizione tra civiltà e barbarie. Per lui, la civiltà europea era il risultato di una lotta secolare contro le invasioni asiatiche. Considerava il controllo della Russia su vasti territori eurasiatici una minaccia per la potenza marittima anglosassone. Attribuì questa frattura di civiltà alla cristianizzazione dei popoli germanici da parte dei Romani e degli Slavi da parte dei Greci. Mentre i primi si espandevano verso ovest attraverso gli oceani per fondare nuove Europe, i secondi si espandevano verso est in Asia e conquistavano il Turan.
Mackinder elevò il contrasto tra Roma e Grecia a paradigma del suo pensiero geopolitico, lamentando il fallimento dei Romani nel latinizzare i Greci – una tragica occasione persa, ai suoi occhi. Questa convinzione della superiorità anglosassone sui popoli slavi, in particolare sulla Russia, cementò una rivalità geopolitica per il controllo dell’Europa orientale. Per Mackinder, questa competizione si evolse in un dualismo manicheo tra potenze terrestri e marittime. Il suo celebre aforisma, tratto da “Democratic Ideals and Reality” (1919), recita:
Chi governa l’Europa orientale comanda il cuore dell’Europa;
chi governa il Cuore comanda l’Isola-Mondo;
chi governa l’Isola-Mondo comanda il mondo.
È importante sottolineare che l'”Isola-Mondo” di Mackinder includeva non solo l’Eurasia, ma anche l’Africa. Pertanto, le potenze marittime situate ai margini di questa enorme massa continentale dovevano trincerarsi lungo i suoi confini per contenere e infine sconfiggere il cuore dell’Europa. Mackinder vedeva anche la Germania come una potenziale rivale della potenza marittima britannica. Il suo scenario da incubo era una coalizione tra Germania e Russia. Ai suoi occhi, le potenze terrestri erano viste con sfavore: mentre la Germania era una rivale affine, la Russia veniva deliberatamente presentata come aliena: asiatica, cristiana e arretrata.
Nel pensiero di Mackinder, troviamo non solo le ambizioni geopolitiche delle potenze marittime, ma anche la logica dell’imperialismo: la cultura anglo-britannica fu dichiarata l’unica vera civiltà , destinata a diffondere progresso e democrazia in tutto il mondo. Questo modello non tollerava né molteplici centri di potere né pluralismo culturale e sociale, poiché si considerava l’unico ordine mondiale legittimo. Quale archetipo umano, allora, poteva opporsi ad esso?
Werner Sombart: Commercianti ed eroi
Una risposta tedesca all’ambizione imperiale anglosassone si può trovare nell’opera del 1915 “Traders and Heroes: Patriotic Reflections“ del sociologo tedesco Werner Sombart (1863-1941). Scrivendo nel contesto della Prima Guerra Mondiale, Sombart identificò la Gran Bretagna – guidata da interessi economici ed egemonici – come il nemico principale. Quella che era iniziata come una critica allo spirito mercantile britannico si sviluppò in una critica culturale radicale incentrata sulla figura del commerciante, che Sombart considerava l’archetipo della potenza marittima.
Motivato dal profitto e venerando la ricchezza come valore supremo, il commerciante era, secondo Sombart, una figura del tutto antieroica, che incarnava lo spirito capitalista e si opponeva alla tradizione. Razionale e individualista, il commerciante non conosceva né la patria né il sacrificio per la comunità ; cercava invece di sottomettere il mondo intero alla logica del denaro. In contrapposizione a lui, Sombart contrapponeva l’eroe: una figura radicata nella tradizione, pronta a combattere per la propria patria e persino a dare la vita per il suo popolo.
Sebbene Sombart definisse generalmente gli inglesi come una nazione di commercianti e i tedeschi come una nazione di eroi, riconosceva che entrambi gli archetipi esistevano all’interno di ciascuna società . Questa lotta interiore per l’anima umana richiedeva, a suo avviso, un’educazione all’eroismo. La società moderna, osservava, favoriva intrinsecamente il tipo mercantile. La Prima Guerra Mondiale, quindi, non fu semplicemente una guerra di imperi, ma uno scontro di tipologie umane. Il commerciante corrispondeva alla potenza marittima, l’eroe a quella terrestre. Pertanto, l’eroe rappresentava la risposta sociale all’invasione dell’imperialismo marittimo. Ma quale sarebbe stato un ordine globale in grado di contrastare questi disegni imperialistici?
Carl Schmitt — Per un nuovo Nomos della Terra
Il rivoluzionario conservatore e giurista tedesco Carl Schmitt (1888-1985) propose una visione simile. Nel 1939, formulò il concetto di ordine multipolare – sebbene non usasse questo termine – nel suo saggio “Il grande ordine spaziale del diritto internazionale con divieto di intervento da parte di potenze straniere“. In questa visione, il globo non sarebbe stato dominato da una singola potenza marittima, ma sarebbe stato costituito da molteplici imperi. Riferendosi al Sacro Romano Impero, Schmitt immaginò “grandi spazi” guidati da un Reichsvolk (popolo o popoli imperiali), unificato da un’idea politica condivisa.
Schmitt fece riferimento alla Dottrina Monroe statunitense del 1823, che dichiarava le Americhe una sfera d’influenza esclusiva e proibiva l’intervento esterno. Sosteneva che il Reich tedesco, l’Unione Sovietica e il Giappone avrebbero dovuto stabilire grandi spazi simili, rifiutando così il dominio universalista dell’impero marittimo.
In Terra e mare: meditazione storica globale (1942), Schmitt, in un racconto scritto per la figlia Anima, descrisse la storia come una battaglia perpetua tra Leviatano e Behemoth, tra navigatori e abitanti della terraferma. Sebbene due terzi della Terra siano coperti d’acqua, Schmitt sosteneva che l’uomo è fondamentalmente una creatura terrestre. L’appropriazione della terra ha sempre segnato l’atto fondante della cultura. Solo con l’ascesa dell’Impero britannico – e la sua strategia di conquista oceanica volta a controllare le rotte commerciali – emerse una vera potenza marittima, che basava la sua politica estera sul principio della pirateria.
Schmitt sviluppò ulteriormente queste idee ne Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum (1950). In questa radicale critica dell’universalismo occidentale attraverso la lente del diritto internazionale europeo, mostrò come l’espansione sconfinata della cultura europea – alimentata dalla potenza marittima – non rafforzò l’Europa, ma piuttosto la portò al suo vuoto spirituale e al suo declino, sostituita da una cultura meccanicistica e internazionalista. Il dominio dell’Europa da parte di potenze straniere – l’America a Occidente e l’Unione Sovietica a Oriente – lo spinse a sostenere un nuovo Nomos della Terra (dal greco “assegnazione dei pascoli”).
Mentre le ex colonie rivendicavano le loro terre natie durante la decolonizzazione, Schmitt sosteneva che anche gli europei avrebbero dovuto rivendicare l’Europa dalle forze di occupazione degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Questa nuova divisione della Terra implicava, soprattutto, una decolonizzazione spirituale: una rottura con la mentalità marittima che aveva condotto l’Europa nell’abisso che si era creata da sola. Solo superando la sua hybris universalista e rinunciando all’impulso di governare il mondo intero, l’Europa avrebbe potuto riscoprire la propria identità di potenza terrestre e riemergere come civiltà sovrana tra le tante. In questo modo, Schmitt gettò le basi per la rivolta della terra contro il mare. Ma come si può trasformare questa in una visione del mondo completa?
Aleksandr Dugin: la multipolarità come rivolta della terra contro il mare
Con la sua Quarta Teoria Politica (2008), il filosofo russo Aleksandr Dugin (nato nel 1962) ha offerto un quadro sistematico per la rivolta del potere terrestre contro quello marittimo. Adottando il concetto di Dasein (esserci) di Martin Heidegger come soggetto, Dugin ha sostenuto che l’esistenza radicata in un luogo specifico (un popolo) costituisce l’agente rivoluzionario in un mondo globalizzato. Ha affermato che non esiste una sola civiltà , ma molte, non un solo modo di essere, ma una pluralità .
Contro il sistema fluido della globalizzazione – che cerca di mercificare tutti i valori – solo le tradizioni radicate nel luogo possono opporre resistenza. Nello spirito di Sombart, Dugin critica tutta la modernità (liberalismo, comunismo e nazionalismo) come materialista e ne invoca la trascendenza. Così facendo, rompe con la visione di Francis Fukuyama della “fine della storia”, che eleva la figura del commerciante a tipo umano definitivo. Dugin mira invece a ristabilire un legame con l’eternità .
L’ordine mondiale immaginato da Dugin non è unipolare, governato dall’Occidente liberale, né bipolare come durante la Guerra Fredda. Piuttosto, è multipolare, composto da almeno tre centri di potere. Nella sua mappa delle civiltà , egli nomina non solo l’Occidente, l’Eurasia, la Cina, l’India, il mondo musulmano, l’America Latina e l’Africa, ma anche un’Europa sovrana come potenziale potenza futura. Ogni grande spazio, seguendo il modello di Schmitt, è una “zona con divieto di intervento da parte di potenze straniere”. Ciascuno deve essere in grado di difendere la propria sovranità e di formulare un’idea politica radicata nella propria tradizione. Il messaggio è chiaro: il liberalismo – con i suoi conseguenti fenomeni di immigrazione di massa, individualismo radicale e deviazione sessuale – non è destino, ma una scelta consapevole.
Dugin si discosta quindi dalla teoria del “cuore” di Mackinder, proponendo invece l’idea di un “cuore distribuito”. L’obiettivo non è più la conquista dell’Europa orientale o dell’Eurasia, ma piuttosto che ogni civiltà diventi il ​​proprio cuore – il proprio nucleo di potere territoriale – degno di difesa e conservazione. Questa visione produce una polifonia etnopluralista di civiltà , un mondo di popoli e tradizioni diverse che si oppone all’universalismo liquefatto dell’Occidente globalista.
Tornando a Platone, Dugin sottolinea che terra e mare – come li ha definiti Schmitt – esistono non solo a livello di stati, ma anche all’interno di ogni singola società . Sta a ciascuno decidere se sostenere la potenza terrestre e quindi preservare la tradizione (come l’eroe, nei termini di Sombart) o la potenza marittima e quindi abbracciare la modernità (come il commerciante). In questa guerra spirituale – Noomachia, il titolo della principale opera filosofica di Dugin – la filosofia ha delle conseguenze. Plasma la società in cui viviamo. Per noi tedeschi ed europei, è giunto il momento di fare una scelta consapevole in questa guerra di spiriti tra terra e mare – e di combattere il globalismo liquefatto a ogni livello.