Un nuovo rapporto dell’ONU mostra come un intero ecosistema logistico, industriale e finanziario internazionale ha operato al servizio dell’azione militare israeliana, traendone enormi profitti.

dei diritti umani nei territori palestinesi occupati
Nota: in appendice all’articolo trovate una recensione del libro “Un genocidio annunciato” del premio Pulitzer Chris Hedges, da poco uscito in Italia, all’interno del quale è inserito un altro importante rapporto della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese.
Roberto Iannuzzi, robertoiannuzzi.substack.com, 4 luglio 2025
Lo sterminio in corso a Gaza non è un evento che riguarda una terra lontana o una realtà che ci è estranea. Al contrario, è uno specchio del nostro mondo, un processo fondato anche su logiche di mercato, su reti logistiche e sistemi di produzione occidentali, un laboratorio dove si sperimentano nuove tecnologie che vengono poi esportate in tutto il mondo.
A mostrarlo mirabilmente è un coraggioso rapporto appena pubblicato dalla relatrice speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, l’italiana Francesca Albanese.
Come chiarisce questo documento, ricchissimo di dati e riferimenti imprescindibili, quello palestinese non è un caso isolato neanche dal punto di vista storico, inserendosi nel quadro di un annoso processo di espropriazione delle terre dei popoli indigeni per mano di un sistema di dominazione definito da alcuni studiosi come “capitalismo coloniale a sfondo razziale”.
A sostenere l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ed ora una violentissima operazione militare a Gaza che sia l’ONU che organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch, e Médecins Sans Frontières (MSF) hanno definito “genocidaria”, è infatti un sistema di tipo capitalistico ramificato in tutto l’Occidente (e non solo).
Il rapporto definisce quello palestinese un “mercato coatto” a seguito delle restrizioni imposte da Israele al commercio, agli investimenti, e all’impiego delle risorse naturali del territorio.
Imprese di molteplici nazionalità (principalmente occidentali, ma anche di paesi nominalmente amici dei palestinesi) hanno tratto profitto da questo mercato coatto, sfruttando la manodopera e le risorse palestinesi, contribuendo alla costruzione e all’economia delle colonie israeliane, e più in generale al sistema economico dell’occupazione.
Mentre Israele guadagna da questo meccanismo di sfruttamento, esso costa ai territori palestinesi almeno il 35% del PIL, secondo il rapporto dell’ONU.
Banche, società di gestione patrimoniale, fondi pensione, assicurazioni, hanno immesso fondi nell’occupazione israeliana, illegale anche secondo un recente verdetto della Corte Internazionale di Giustizia. Persino le università, israeliane ed occidentali, hanno contribuito a sostenere l’ideologia alla base dell’occupazione, e prodotto ricerca militare finalizzata a rafforzare il controllo israeliano sui territori palestinesi.
Una delle ragioni per cui “il genocidio di Gaza non si è fermato”, ha dichiarato Albanese al giornalista e premio Pulitzer Chris Hedges (autore di un importante libro su Gaza da poco uscito in Italia), è che esso “è redditizio, è vantaggioso per troppe persone”. Ed i profitti “sono perfino aumentati mentre l’economia di occupazione si trasformava in un’economia di genocidio”.
Il sistema capitalistico può essere impiegato con la stessa efficienza per la produzione come per la distruzione. Le tecnologie di controllo e sorveglianza di massa applicate nei territori occupati si sono evolute in strumenti per colpire indiscriminatamente la popolazione palestinese. I macchinari pesanti utilizzati per le demolizioni in Cisgiordania sono stati riutilizzati per smantellare le città della Striscia.
Il conflitto di Gaza è servito anche per testare piattaforme di difesa aerea, droni, sistemi di selezione dei bersagli basati sull’intelligenza artificiale (IA). Queste tecnologie “testate in battaglia” vengono poi rivendute sui mercati mondiali.
Il rapporto elenca industrie di mezzo mondo che sono coinvolte a vari livelli nel sistema di sterminio in atto nella Striscia.
Esso rileva che fra il 2023 e il 2024 le spese militari israeliane hanno registrato un aumento del 65%, raggiungendo i 46,5 miliardi di dollari. Questo denaro ha generato enormi profitti per le industrie israeliane ed occidentali del comparto della difesa, ma anche di altri settori. A sostegno dello sforzo bellico israeliano si è infatti costituita un’intera “logistica di guerra” internazionale.
Il rapporto cita compagnie di navigazione come la danese Maersk che hanno contribuito al trasporto di componentistica, armi e materie prime; imprese come la giapponese FANUC che hanno fornito macchinari robotizzati per le linee di produzione dell’industria bellica israeliana ed americana coinvolta nel conflitto.
L’IBM, che in passato collaborò con la Germania nazista, garantisce formazione informatica e tecnologica agli apparati militari e di intelligence israeliani.
Il ministero della difesa israeliano ha stretti rapporti di collaborazione con altri giganti della Big Tech americana, da Google a Microsoft, ad Amazon. L’americana Palantir, all’avanguardia nell’applicazione dell’intelligenza artificiale all’ambito bellico, ha fornito a Israele software militare, ed in particolare la sua piattaforma di IA che permette l’analisi in tempo reale dei dati del campo di battaglia finalizzata all’elaborazione di un processo decisionale automatizzato. Le banche occidentali, dal canto loro, hanno acquistato i titoli emessi da Israele per finanziare le proprie spese di guerra.
Un intero ecosistema logistico, industriale e finanziario internazionale ha operato al servizio dell’azione militare israeliana, traendone enormi profitti.
L’aspetto che fa riflettere e rabbrividire è che né i dirigenti delle imprese e degli istituti finanziari che prendono parte a questo meccanismo, né i governi dei paesi ai quali questi soggetti economici appartengono, hanno minimamente ostacolato questo processo industriale e tecnologico di sterminio e distruzione.
Un genocidio annunciato

A seguito della presentazione del rapporto descritto nell’articolo qui sopra, l’amministrazione Trump ha formalmente richiesto alle Nazioni Unite di destituire Francesca Albanese dal suo incarico, con l’incredibile accusa di “antisemitismo e sostegno al terrorismo”. Come già accennato, Francesca Albanese aveva rilasciato un’importante intervista al reporter americano Chris Hedges, che merita di essere ascoltata.
Hedges, giornalista e scrittore, vincitore del premio Pulitzer ed ex corrispondente dal Medio Oriente per il New York Times ed altri importanti quotidiani statunitensi, è autore di un libro da poco uscito in Italia per Fazi editore, dall’eloquente titolo “Un genocidio annunciato”.
Il volume è uno straordinario reportage che ricostruisce, attraverso il ricchissimo bagaglio di esperienze sul campo dell’autore, le cause storiche che hanno fatto della catastrofe di Gaza una tragedia annunciata. “Non ci sono sorprese a Gaza”, scrive Hedges. “Ogni atto orripilante del genocidio di Israele è stato telegrafato con largo anticipo”.
Con uno stile appassionato e coinvolgente, il giornalista americano sprofonda il lettore nelle strade devastate della Striscia di Gaza, attraverso una ricca collezione di testimonianze di prima mano che danno voce alla terribile sciagura palestinese. Egli si sofferma sul valore profondo di ogni testimonianza, e sull’importanza fondamentale di riuscire a trasmettere suoni e immagini di quell’immane catastrofe che è la guerra:
Scrivere e fotografare in tempi di guerra sono atti di resistenza, atti di fede. Affermano la convinzione che un giorno – un giorno che scrittori, giornalisti e fotografi potrebbero non vedere mai – le parole e le immagini susciteranno empatia, comprensione, indignazione e ispireranno saggezza. Non rivelano solo i fatti, anche se i fatti sono importanti, ma il carattere, la sacralità e il dolore delle vite e delle comunità perse. Dicono al mondo che cos’è la guerra, come tira avanti chi è preso nelle sue fauci di morte, raccontano di chi si sacrifica per gli altri e chi no, che cosa vogliano dire la paura e la fame, come è fatta la morte. Trasmettono le urla dei bambini, le grida di dolore delle madri, la lotta quotidiana di fronte alla selvaggia violenza industriale, il trionfo dell’umanità sulla sporcizia, le malattie, l’umiliazione e la paura. Ecco perché in guerra gli scrittori, i fotografi e i giornalisti sono presi di mira dagli aggressori, israeliani compresi: perché non ne sia lasciata memoria. Sono testimoni di un male che gli aggressori vogliono che rimanga sepolto e finisca per essere dimenticato.
Nel comporre il quadro della tragedia di Gaza, Hedges cita anche Francesca Albanese (un altro suo importante rapporto, “Il genocidio come cancellazione coloniale”, è inserito in appendice al libro), laddove ricorda che, nella narrazione israeliana,
tutti i palestinesi sono ritenuti responsabili dell’attacco del 7 Ottobre o liquidati come scudi umani di Hamas. Tutte le strutture sono considerate bersagli legittimi perché sospetti centri di comando di Hamas o perché ospiterebbero i suoi combattenti. Queste accuse, scrive Albanese, sono un “pretesto” usato per giustificare «l’uccisione di civili sotto il manto di una presunta legalità, la cui assoluta pervasività lascia solo adito a un intento genocida». In questo conflitto pluridecennale non avevamo mai visto un’aggressione israeliana contro i palestinesi di tale ampiezza. Ma tutte queste misure – l’uccisione di civili, l’esproprio di terre, le detenzioni arbitrarie, le torture, le sparizioni, le chiusure imposte alle cittadine e ai paesi palestinesi, le demolizioni di case, le revoche dei permessi di residenza, le deportazioni, la distruzione di infrastrutture che tengono in piedi la società civile, l’occupazione militare, la disumanizzazione del linguaggio e la sottrazione di risorse naturali, specialmente le falde acquifere – hanno sempre definito la campagna di Israele per eliminare i palestinesi. Il genocidio di Gaza è il culmine di un processo. Non è un atto.
Intrecciando con maestria gli elementi cruciali del contesto storico e un’acuta analisi politica alle testimonianze dirette ed alle storie umane dei palestinesi, Hedges traccia un quadro d’insieme mirabile quanto agghiacciante della catastrofe di Gaza, risultato ineluttabile non solo del progetto coloniale sionista ma della complicità dell’Occidente nel distorcere la narrazione degli eventi e nel fornire una legittimazione di fatto all’occupazione illegale israeliana.
Hedges si sofferma in particolare sui meccanismi della propaganda d’Israele e sulla “correità” della stampa occidentale nell’affibbiare ai palestinesi l’immancabile etichetta di “terroristi”, elemento essenziale per travisare le reali dinamiche del conflitto, cancellando o minimizzando le atrocità commesse dagli israeliani. Questo meccanismo perverso, scrive Hedges, serve a perpetuare una serie di menzogne:
La menzogna che Israele voglia una pace giusta ed equa e che sosterrà uno Stato palestinese. La menzogna che Israele sia “l’unica democrazia del Medio Oriente”. La menzogna che Israele sia un “avamposto della civiltà occidentale in un mare di barbarie”. La menzogna che Israele rispetti lo Stato di diritto e i diritti umani. Le atrocità di Israele contro i palestinesi sono sempre accolte con delle menzogne. Le ho sentite. Le ho registrate. Le ho pubblicate nei miei articoli per “The New York Times”.
Inevitabilmente, il filo della ricostruzione di Hedges lo porta a puntare un dito d’accusa contro la nostra civiltà, così come ha fatto anche il rapporto appena pubblicato dalla Albanese. Scrive il giornalista statunitense che
il genocidio dice qualcosa non solo di Israele ma di noi, della civiltà occidentale, su chi siamo come persone, da dove veniamo e che cosa ci definisce. Dice che tutta la nostra decantata moralità e tutto il nostro sbandierato rispetto dei diritti umani sono una menzogna.
La storia giudicherà anche noi, scrive Hedges:
Ci chiederà perché non abbiamo fatto di più, perché non abbiamo sospeso tutte le intese, tutte le transazioni commerciali, tutti gli accordi e tutte le forme di cooperazione con lo Stato apartheid, perché non abbiamo interrotto le spedizioni di armi a Israele, perché non abbiamo richiamato i nostri ambasciatori, perché quando lo Yemen ha bloccato il commercio marittimo nel Mar Rosso si è subito approntato un percorso alternativo via terra attraverso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania, e perché noi non abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per porre fine ai massacri. L’opposto del bene non è il male, come ammoniva il rabbino Abraham Joshua Heschel. L’opposto del bene è l’indifferenza.
