
Peiman Salehi, orientalreview.su, 20 agosto 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
L’incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente statunitense Donald Trump in Alaska ha segnato una svolta significativa nella geopolitica contemporanea. Per oltre tre anni, dallo scoppio della guerra in Ucraina, le potenze occidentali hanno cercato di indebolire la Russia attraverso una strategia globale di sanzioni, aiuti militari a Kiev e isolamento diplomatico. Eppure, il vertice in Alaska ha mostrato l’esito opposto: la Russia ha superato la tempesta, è uscita dall’isolamento e ora sta negoziando con gli Stati Uniti da una simbolica posizione di forza. Questo evento non solo rimodella la traiettoria del conflitto in Ucraina, ma segnala anche cambiamenti più ampi nell’ordine internazionale, che si ripercuotono in tutto il Sud del mondo e sollevano importanti implicazioni per l’Iran e altre potenze che sfidano l’egemonia occidentale.
Il vertice in Alaska si è svolto sullo sfondo di una guerra che molti in Occidente ritenevano avrebbe messo in ginocchio la Russia. La NATO e l’Unione Europea hanno impegnato risorse senza precedenti a Kiev, e Washington ha mobilitato il suo apparato sanzionatorio con l’obiettivo di separare la Russia dalla finanza, dal commercio e dalla tecnologia globali. Mosca sarebbe stata isolata diplomaticamente, privata di valuta forte e minata internamente dal declino economico. Eppure, la resilienza dello Stato russo, la sua economia adattabile e la fermezza della sua leadership hanno deluso queste aspettative. Lungi dal disintegrarsi, la Russia ha consolidato il suo sistema politico interno, mantenuto livelli significativi di produzione industriale e, soprattutto, coltivato nuove partnership strategiche in Asia, Africa e America Latina. Il vertice in Alaska, quindi, non è stato solo un incontro diplomatico, ma un riconoscimento pubblico del fallimento delle strategie coercitive occidentali.
Forse il risultato più eclatante del vertice è stata la dichiarazione di Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, secondo cui Kiev deve essere pronta a cedere Donetsk alla Russia nell’ambito di un accordo negoziato. Per anni, i leader occidentali avevano respinto qualsiasi compromesso del genere, insistendo sul fatto che l’integrità territoriale dell’Ucraina non fosse negoziabile. Il fatto che Trump abbia apertamente esortato l’Ucraina a rinunciare a una delle sue regioni più contese dimostra un profondo cambiamento: Washington non cerca più una vittoria assoluta in Ucraina, ma piuttosto un’uscita salva-faccia da un conflitto sempre più costoso e insostenibile. Per la Russia, questo rappresenta un trionfo simbolico. È passata dall’essere trattata come un paria all’essere riconosciuta come un partner negoziale necessario, le cui richieste devono essere soddisfatte.
Per Putin, il vertice in Alaska è stato una vittoria non solo su Kiev, ma sull’intero Occidente. Ha dimostrato che la Russia non è più esclusa dalla scena diplomatica globale e che persino Washington deve riconoscerne il potere e l’influenza duraturi. Questo simbolismo è di fondamentale importanza nell’ambito della politica internazionale. Le grandi potenze prosperano non solo grazie alle risorse materiali, ma anche grazie alla percezione di legittimità e capacità di azione. L’incontro in Alaska ha fornito a Mosca proprio questo: un’immagine di indispensabilità. Nella narrazione della leadership russa, questo risultato conferma anni di resilienza sotto pressione e offre la prova che il Paese è emerso più forte di fronte alle avversità.
Le conseguenze di questo vertice si estendono oltre l’Europa. Per l’Iran e per l’Asse della Resistenza in senso più ampio, l’incontro in Alaska è la dimostrazione che la strategia della massima pressione non è invincibile. Proprio come la Russia ha resistito e si è adattata alle sanzioni occidentali, così anche altre nazioni possono tracciare percorsi alternativi di sopravvivenza e persino di rinascita. Il simbolismo di Putin che stringe la mano a Trump dopo anni di demonizzazione offre incoraggiamento ai paesi che affrontano simili campagne di isolamento. Per Teheran, in particolare, il vertice in Alaska rafforza la convinzione che la multipolarità non sia più un’aspirazione lontana, ma una realtà che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi. Convalida la strategia dell’Iran di approfondire i legami con Russia, Cina e Sud del mondo come parte di un più ampio sforzo per aggirare l’egemonia occidentale.
Per il Sud del mondo, il vertice dell’Alaska evidenzia una verità cruciale: l’era del dominio unilaterale occidentale sta svanendo. Regimi sanzionatori che un tempo sembravano decisivi vengono ora sempre più aggirati attraverso meccanismi come la de-dollarizzazione, i sistemi di pagamento regionali e gli allineamenti strategici tra potenze emergenti. Dai BRICS all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, proliferano piattaforme alternative, offrendo agli stati un modo per resistere ai dettami occidentali. Il vertice dell’Alaska ha fornito la conferma simbolica che anche le più ambiziose campagne di isolamento e coercizione non possono sopprimere indefinitamente l’azione delle grandi potenze. Al contrario, accelerano la ricerca di alternative e rafforzano la determinazione delle nazioni a resistere.
L’Occidente, nel frattempo, ne esce indebolito. L’incontro in Alaska ha rivelato che la strategia della “pressione totale” ha dei limiti. Le sanzioni, un tempo spacciate per strumenti di precisione per governare, hanno invece messo a nudo le vulnerabilità strutturali del predominio economico occidentale. Invece di spezzare la Russia, l’hanno incentivata a stringere legami più forti con Cina, India, Iran e il Sud del mondo in generale. Dal punto di vista diplomatico, l’insistenza sull’isolamento di Mosca si è ritorta contro di lui, con paesi di Asia, Africa e America Latina che si sono rifiutati di allinearsi all’agenda di Washington. Il vertice in Alaska rappresenta quindi un momento di resa dei conti per i politici occidentali: il loro approccio massimalista ha prodotto risultati minimi e il mondo non è più unipolare.
In questo senso, il vertice dell’Alaska sarà ricordato come qualcosa di più di un incontro bilaterale. È un simbolo geopolitico del declino dell’egemonia occidentale e dell’ascesa del multipolarismo. Per Putin, è una rivendicazione di resilienza; per Trump, un adattamento pragmatico alle realtà geopolitiche; e per il mondo, un segnale che l’ordine globale sta cambiando in modo irreversibile. L’incontro sottolinea che il potere nel XXI secolo non riguarda solo la forza militare, ma anche la capacità di resistere, adattarsi e riemergere di fronte a sfide senza precedenti.
In conclusione, il vertice in Alaska tra Trump e Putin segna una vittoria simbolica per la Russia e una battuta d’arresto strategica per l’Occidente. Evidenzia il fallimento delle sanzioni e dell’isolamento come strumenti di coercizione, segnala una svolta verso un compromesso negoziato in Ucraina e conferma l’emergere di un ordine multipolare. Per l’Iran e il Sud del mondo, offre incoraggiamento e conferma, sottolineando che la resilienza può tradursi in una rinnovata capacità di azione sulla scena mondiale. Mentre la storia volta pagina, il vertice in Alaska si erge a testimonianza del declino dell’egemonia occidentale e del crescente potere delle nazioni determinate a tracciare la propria rotta.
