Lynsey e James sono due solitudini che si incontrano, si scontrano, perché possano attraversare il loro dolore, condividerlo, assimilarlo e superarlo con una nuova raggiunta consapevolezza. Per cambiare. Causeway è un esempio di cinema essenziale, vivo, profondo, necessario. Un cinema che presta attenzione ai dettagli, che fugge ogni tentazione di spettacolo. E ci chiama in causa. Perché se davvero vogliamo un cambiamento nella società dobbiamo iniziare da noi stessi, dall’attenzione alle piccole cose.

Il tempo. Il dolore. I silenzi. Noi, gli altri. La vita. In Causeway, opera prima della regista Lila Neugebauer l’apparente semplicità di superficie permette al dramma, ma anche alla luce, di affiorare con potenza. Anzi, è proprio questa semplicità, il rifiuto di ogni facile ammiccamento allo spettatore che garantisce solidità e spessore al film. Teniamo subito a precisare che non lo riteniamo un capolavoro e non vogliamo banalmente coprirne i difetti, ma crediamo che un film come questo sia in una certa misura necessario e abbia molto da trasmettere ad una umanità che corre – da una parte come dall’altra – forse sempre in fuga da se stessa.

Lynsey (Jennifer Lawrence) è un ingegnere militare che ha riportato una lesione cerebrale in seguito all’esplosione di un ordigno durante una missione in Afghanistan. Torna nella sua casa natale, a New Orleans, dove vive la madre. Ma la convivenza è difficile. Continua la sua riabilitazione nella speranza anche di essere reintegrata nella missione e per mantenersi trova lavoro facendo manutenzione a piscine private.

Incontra James (Bryan Tyree Henry), un meccanico che le riparerà il vecchio Pick-up e fra i due nasce un’amicizia. Anche James porta nascosto dentro di sé un trauma che fatica a superare, ma di cui mostra i segni visibili nel corpo. La sua apparente sicurezza cela una fragilità che chiede di essere ascoltata, accolta. Lynsey e James sono due solitudini che si incontrano, si scontrano, perché possano attraversare il loro dolore, condividerlo, assimilarlo e superarlo con una nuova raggiunta consapevolezza. Per cambiare.

L’opera della Neugebauer mantiene le caratteristiche di molto cinema indipendente americano: il ritmo pacato che “serve” la storia e non forza i tempi; il racconto di storie ai margini, quotidiane, ma profonde; una regia vicina ai personaggi, anzi diremmo intima; la recitazione che non cammina mai sopra le righe, ma lavora per sottrazione, per dettagli. E così, tutto in questo “piccolo” film si conforma al passo della vita, specialmente quella fatta di dolore, abbandono, solitudine e rinascita.

Causeway ci chiede di tornare a vedere, ad ascoltare l’altro, noi stessi, la vita. Lo fa tenendosi ben alla larga da qualunque smania di “spettacolo” a cui tutti noi, consapevolmente o meno, prestiamo fedele apprezzamento. Ogni cosa qui affiora e si mostra nella sua verità se diveniamo capaci si ripulire i nostri sensi.

Il dolore, seguito al trauma, viene ricacciato nell’ombra dai due protagonisti, ma torna in superficie, anzi matura cercando la sua risoluzione. E l’acqua, così presente nell’opera, ci racconta silenziosamente di questa mutevolezza interiore, di ciò che vorremmo lasciare depositarsi in profondità come un masso, ma che invece risale a galla chiedendo di venir affrontato e “abbracciato”. Acqua silente delle piscine, circoscritta. All’apparenza amica e tranquilla. Acqua lenta, dove il dolore non può scappare. Un dolore che non viene mai gridato, che viene espresso da Lynsey e James anche nei silenzi, nei discorsi spezzati, nelle incertezze e paure che contraggono il volto.

I dialoghi, pur nella loro apparente quotidianità, non sono mai banali, ma scavano solchi perché affiori un poco alla volta l’anima dei due personaggi. Perché il buio lasci spazio ad un po’ di luce.

Un cinema così essenziale e quindi così vero non può che avere una colonna sonora che accompagna, senza mai sovrastare, alcuni brevi passaggi della storia. Con delicatezza, non appropriandosi mai della scena.

Lynsey e James si cercano, si affrontano, si guardano: perché chiedono di essere guardati, di essere compresi. E noi?

In questa società sempre più disumanizzante abbiamo perduto la capacità di guardarci dentro e di guardare l’altro. Senza le emozioni gridate, il sentimentalismo dei pensieri che enfatizza il vuoto sottostante; senza le etichette di importanza che appiccichiamo di continuo alle persone, noi non siamo più capaci di prestare attenzione alle cose, ma soprattutto agli altri. Pensiamo sempre che la vita si debba manifestare attraverso boati o colpi di scena sensazionali. Lo dimostriamo nella vita privata, ma anche nel nostro atteggiamento nei confronti dell’informazione, della cultura e dell’arte. Ciò che non emana il bagliore del numero, della proposta eclatante, per noi non esiste. Come se i nostri occhi non fossero in grado di scorgerlo. Questo mondo, che molti di noi criticano – a ragione – è un gigantesco spettacolo che si alimenta di continui effetti speciali. Eppure anche noi che lo critichiamo sembriamo incapaci di abbandonare i suoi schemi, il suo falso linguaggio. Causeway, ci riporta al valore dell’attenzione, delle verità che non chiedono una voce potente, ma sono fatte per essere sussurrate, accennate, evocate. Ed è questa capacità di attenzione che ci rende capaci di vicinanza, di amicizia, di coraggio. Che ci rende uomini.

«Sarebbe bello avere qualcuno intorno, con cui bere il caffè la mattina, con cui fumare la sera, cucinare ogni tanto», dice James. Ecco, da qui può nascere un’amicizia. Da qui può nascere una nuova vita.

Se di cambiamento dobbiamo parlare, di un cambiamento sociale di cui non dobbiamo essere spettatori, ma protagonisti, dovremmo prima tornare ad essere uomini. Ripulirci da tutte queste incrostazioni che ci separano dalla vita e annebbiano il nostro sguardo e la nostra mente. Noi abbiamo edificato una contro-civiltà sul superfluo. Superfluo dei pensieri, delle emozioni agitate, della quantità che cancella la qualità. Se noi non vediamo l’altro, non lo sentiamo non è perché siamo forti abbastanza per poterne fare a meno, ma perché siamo ciechi. E nessuna società può edificarsi nella notte. Occorre che ci facciamo tutti un esame di coscienza, iniziando dalle piccole cose. Abbandonando ogni titanismo spirituale o culturale che finisce per essere solo pessimo teatro, dobbiamo dimostrare nelle piccole scelte di ogni giorno di cosa siamo veramente capaci, quanto il nostro occhio è divenuto “sottile”, quanto la nostra anima si è fatta ricettiva alla vita. Da qui può nascere il vero cambiamento.

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