Un giovane che tutti dovremmo conoscere: Matteo Farina. Un giovane che ha molto da dire a questa umanità spaesata e schiava di paure. La sua figura viene raccontata dal regista Dario Di Viesto e noi conversiamo con lui parlando di vita, morte, santità, cinema e silenzio.

«Non potremo mai spiegarci i misteri del disegno di Dio, siamo solo uomini. Forse la mia storia, come quella di ognuno, è solo un progetto divino che deve fare il suo corso. È vero, ci sono avvenimenti della nostra vita che dipendono dalle nostre scelte, ma altri accadono ugualmente anche contro la nostra volontà. Ognuno ha una possibile strada per andare a Dio. Sono il tuo servo, Signore. Fai di me ciò che vuoi».

Queste parole schiudono un mondo, suggeriscono una direzione che è divenuta estranea all’uomo di questo tempo, ma proprio per questo è ancora più urgente riscoprirla. Sono le parole di un giovane, Matteo Farina, servo di Dio, per il quale è in corso il processo di beatificazione.

Parole che suggellano il bel cortometraggio dedicato alla sua figura, diretto dal regista Dario Di Viesto. Un’opera che si spera possa diventare, a breve, un progetto più grande.

Un’opera che, non solo per il contenuto, ma anche per la sua forma, ci parla di un’altra idea di cinema che va scoperta, coltivata, fatta conoscere.

Ne parliamo direttamente con l’autore.

Dario, raccontaci come è nato il progetto e come si è sviluppato.

Il progetto è nato dall’idea della Pastorale giovanile di Brindisi di fare un cortometraggio su Matteo Farina. Poi, sono stato contattato da Francesco Parisi della cooperativa Eridano, il quale mi ha comunicato che, secondo lui, ero la persona giusta per scriverlo e dirigerlo. Personalmente non conoscevo Matteo Farina, ma l’idea di fare un corto su un venerabile mi ha subito colpito. Parisi mi ha raccontato telefonicamente alcuni fra gli aspetti principali della vita di Matteo, in particolare riguardo alla lucidità e al coraggio dimostrato da Matteo nell’affrontare la sua malattia. Improvvisamente è riaffiorato in me un sogno che avevo fatto la notte precedente alla telefonata, nel quale mi trovavo su un letto di ospedale dove una commissione di medici mi esaminava e una cardiologa mi diagnosticava un problema serio al cuore. Ricordo che nel sonno provai terrore alla possibilità di poter morire, e anche appena sveglio quel senso di smarrimento non mi ha lasciato immediatamente.

Ecco, grazie al sogno, ho capito subito che la telefonata di Parisi era un invito ad alzare il capo verso un esempio di vita superiore ed ho accettato senza remore.

Ho voluto affrontare questo progetto facendomi accompagnare, dalla scrittura al montaggio, da Federico Spiazzi, un mio fraterno amico col quale condividiamo la medesima visione della vita.

Il resto del progetto si è sviluppato da sé partendo da quanto appena raccontato.

Un’opera dal respiro e non solo dal contenuto così spirituale è stata accompagnata dall’alto da alcuni piccoli grandi segni. Ce ne vuoi raccontare qualcuno? Crediamo che questa umanità debba recuperare al più presto la capacità di riconoscerli e leggerli, non credi?

Innumerevoli segni, li abbiamo percepiti in molti. Personalmente il segno più potente l’ho riconosciuto durante la fase di scrittura. Con Federico avevamo provato a sviluppare diverse linee narrative ma non eravamo ancora soddisfatti, avvertivo un po’ di frustrazione nel non riuscire a trovare un soggetto adatto, qualcosa che in pochi minuti riuscisse a riassumere, a restituire il sapore dell’intera vita del venerabile brindisino. Poi, lessi una testimonianza della madre di Matteo contenuta nella Positio, in cui si parlava di un certo ragazzo che, per via di un malinteso, dopo essere venuto quasi alle mani con Matteo, fu acquietato dal venerabile, facendolo diventare un suo fraterno amico e, stando alla testimonianza, anche un attento credente.

Un giovane che tutti dovremmo conoscere: Matteo Farina. Una figura, raccontata dal regista Dario Di Viesto, che ha da dire qualcosa all'uomo, spaesato e schiavo della paura, come è l'uomo di questo tempo. Un'intervista che ci apre alla vita e ad un'altra idea di cinema.

Abbiamo deciso di riprendere questa vicenda ma ricollocandola in un altro contesto, quello musicale. E fu così che questo amico lo chiamammo Carletto e ridisegnammo la sua storia facendogli indossare i panni di ciò che i brindisini chiamano “cacafave” (un perditempo a cui piace esercitare la propria spavalderia nei confronti di coloro che reputa più deboli). Ora, senza entrare nei dettagli del plot, dico soltanto che Matteo, seguendo i segni, dopo esser finito nelle mire del bullo, riesce a recuperare Carletto facendogli scoprire un talento musicale che neanche lui sospettava e inserendolo in extremis come batterista della sua rock band. Carletto è costretto, quindi, ad uscire fuori dalle proprie chiusure e prendersi le proprie responsabilità.

Realizzato lo script, finalmente soddisfatti, scoprii su YouTube un video dei NoName (si chiamava così il gruppo di Matteo Farina) che si apre con una sorta di quadretto in cui i componenti del gruppo posano mettendo la mano sulla pelata di un ragazzo accovacciato che ha in mano delle bacchette. Ebbi un sospetto… lessi nella descrizione del video chi fosse questo batterista e scoprii che era lo stesso ragazzo di cui parlava la madre di Matteo nella positio. Sentii salirmi i brividi e capii che la storia che avevamo inventato trovava un riscontro nella realtà. Sentii in quel momento Matteo molto vicino e capii che il cortometraggio era sulla strada giusta.

Uno dei temi più importanti che emergono dal film, anche se in maniera sottile e mai sbandierata, è ovviamente il tema della morte. Cosa ci dice la figura di Matteo sulla morte, quale il suo cammino verso di essa, o meglio ancora verso l’incontro con Dio, oltre le barriere della esistenzialità?

Matteo ha abbracciato la vita e la morte con il medesimo abbandono a Dio. Dinanzi alla propria malattia, si è più volte chiesto quale fosse il disegno di Dio, che cosa Dio volesse comunicargli. Sicuramente anche Matteo, in particolari momenti, avrà “sudato sangue”, ma sempre silenziosamente, proteggendo chi gli stava attorno. Anche nei momenti più drammatici si è comportato da vero cristiano, cercando di dar forza a tutti e dando l’esempio. Non si lamentava mai del proprio stato di salute, è stato in questo senso una figura eroica.

Molti dicono che la paura della morte recluti fedeli. Può essere vero, ma è una affermazione che secondo me si ferma all’apparenza delle cose, si mantiene in superficie. Perché chi si avvicina alla religiosità per paura, non si avvicina a Dio, non si eleva. Che tipo di fedeli può reclutare la paura? La paura rende egoisti e cinici. Per chi sa accoglierla, la morte esercita invece un potere molto più profondo, rende in un certo senso “immortali”. Ma senza addentrarci in questo mistero, questo corto l’abbiamo voluto chiamare “Vivere” anche per la proprietà che ha la morte di svelare la bellezza della vita. È la bellezza a reclutare veri fedeli. Matteo, grazie alla malattia, ha affinato la sua capacità di rendersi in grado di abbracciare la bellezza. Nella sua breve vita è stato testimone della bellezza della vita. Dai suoi scritti emerge sempre entusiasmo, luminosità, anche mentre affrontava momenti di grande difficoltà.

Un altro aspetto che io ho ritrovato nel film dal punto di vista stilistico e che ben rispecchia la figura di questo ragazzo, è la semplicità. Semplicità nelle inquadrature, nelle situazioni e nei dialoghi. Semplicità che non è ovviamente mai banalità. Cosa ci puoi dire riguardo a questa e ad altre scelte stilistiche. E quale idea di semplicità emana dalla vita di Matteo Farina?

Matteo Farina diceva che la semplicità è lo specchio del volto di Cristo. Sì, anche nel modo in cui abbiamo messo in scena, il nostro cortometraggio ha voluto restituire la semplicità del venerabile brindisino. Ciò che è semplice manca di doppiezza, è immediato, onesto, integro.

Come è stato lavorare alla preparazione di un film così particolare? Quale il lavoro e il rapporto con i giovani attori, in particolare con Salvatore Giufré che interpreta proprio il ruolo di Matteo?

È stato un percorso bellissimo. Ricordo che mentre ci preparavamo alle riprese, vivevamo in uno stabile vicino al mare (sede della Cooperativa Eridano) dove una rondinella si era fatta il nido. Durante il giorno cacciava per ritornare al nido e cibare i suoi piccoli. Io e Federico ci siamo sentiti in quei giorni come quella rondinella. Avevamo il compito di liberare quei giovanissimi attori dalle comuni convenzioni riguardo, sì, alla messa in scena, ma, soprattutto, riguardo ad una visione della vita che il materialismo ci trasmette ed è zavorra. Credo che fare questo film sia stata un’esperienza molto importante nella vita di Salvatore Giufré, ma anche di Patrick Sermon. Ed anche per me è stato molto importante. Toccare certi temi e cercare di affrontarli in modo serio inevitabilmente ti muove qualcosa dentro.

Il giorno prima dell’inizio riprese le piccole rondini hanno lasciato il nido, hanno imparato a volare.

Fare cinema connotato da una sincera e spiccata spiritualità è difficile e allo stesso urgente nel tempo in cui viviamo. Questo almeno è ciò che noi crediamo. Dal tuo punto di vista qual è lo stato dell’arte oggi? E quanto grande il bisogno, anche inconfessato, di spiritualità dell’uomo?

C’è un presupposto che il cinema richiede all’uomo per poter esistere: la capacità di stare seduto per un paio d’ore, al buio, senza altri pensieri. Tutto questo, oltre ad essere una condizione fisicamente necessaria, è anche una disponibilità che l’uomo deve dare in senso più esteso, simbolico, per rendersi “fruitore”, potremmo dire, “di bellezza”. Il film ha la necessità di sovrastare, per il tempo dovuto, la quotidianità dello spettatore. I fatti della vita quotidiana devono scomparire per lasciare spazio alla visione; lo spettatore deve farsi assorbire nello schermo, essere nel presente. Ciò, se da una parte riguarda la capacità dello spettatore di lasciare da parte i condizionamenti e abbandonarsi davanti allo schermo, dall’altra presuppone la capacità e la responsabilità del cineasta di fornire un’esperienza speciale, nutrendo lo spettatore con qualcosa che sia vivo, “straordinario”, significativo.

Fra i film che ho occasione di vedere attualmente nei cinema ci sono opere fatte tecnicamente benissimo, con genialità, con attori straordinari, esteticamente ineccepibili, eppure… eppure sento che manca sempre qualcosa… un qualcosa che non è accessorio. Anche gli autori che un tempo mi appassionavano molto, sento che oggi non hanno più qualcosa di importante da dire. Perché la vita, prima del cinema, è cambiata, è in continua trasformazione. Credo che difficilmente oggi i film riescono a riconciliare con la vita, a nutrire la parte più essenziale, a colmare i vuoti, a dare risposte. La crisi profonda dell’uomo moderno non trova un interlocutore, a livello profondo, lì dove l’arte dovrebbe agire. Tutto è divenuto eccessivo, roboante, sia nel “cinema d’autore” (che è una definizione che certo cinema si auto assegna), sia nel cinema d’intrattenimento. Servirebbe più silenzio nelle nostre vite per rendere possibile un ritorno all’ascolto e all’osservazione. Per rendere possibile la poesia. Tutto nasce da lì, dal silenzio. C’è bisogno di tempo, tempo vuoto vissuto nella pienezza.

Non so se ho risposto alla tua domanda, ma sento che tutto questo ha a che fare con la dimensione spirituale nelle arti.

Il cortometraggio racconta la storia di un giovane “eccezionale” nella sua quotidianità. Sono forse proprio i giovani i primi destinatari della tua opera? O anche noi adulti dobbiamo accogliere un messaggio che ci interroga?

Credo e spero siano vere entrambe le cose.

La vita e le opere di Matteo Farina sono state in diretta comunicazione con la vita dei giovani che lo hanno circondato, spesso con amore, altre volte con sospetto. Raccontare Matteo Farina significa quindi sì cercare di dire qualcosa di universale sull’uomo, ma naturalmente lui è un esempio diretto soprattutto per coloro che si trovano ad affrontare medesime situazioni e medesimi conflitti, ovvero i giovani.

Ci puoi, in finale, dire dove e come verrà distribuito il corto? State pensando a delle proiezioni legate anche a dei percorsi educativi? Chi fosse interessato ad organizzare delle proiezioni – associazioni, enti, scuole o anche privati cittadini – chi può contattare?

Essendo il cortometraggio nato nell’ambito di un progetto che ha l’obiettivo di contrastare la povertà educativa, tale finalità è prioritaria nelle nostre intenzioni di distribuzione. Per questo motivo qualora una scuola, una parrocchia, un’associazione volessero organizzare una proiezione è sufficiente rivolgersi a Eridano chiamando lo 0831411295, oppure scrivendo a info@cooperidano.it. Per quanto riguarda la partecipazione a festival, per adesso stiamo un po’ temporeggiando. A seguito delle prime proiezioni in pubblico, ci è stato chiesto da più persone di far diventare questo corto un lungometraggio. Sarebbe molto bello. Staremo a vedere se le occasioni si apriranno in questa direzione.

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