Mentre Israele sposta continuamente in avanti la fine delle operazioni militari a Gaza, sostenendo che “per conseguire la vittoria” è necessario sempre raggiungere qualche nuovo obiettivo, la Siria dichiara di essere sempre pronta a riprendere la guerra con lo stato ebraico, e che intende comunque riprendersi le alture del Golan, illegalmente occupate da Tel Aviv. Quale può essere il significato di questa dichiarazione, e come si colloca nel contesto attuale del conflitto?
Mentre si acutizza la situazione al confine egiziano della Striscia di Gaza, arriva una dichiarazione del governo siriano – sinora molto defilato, rispetto al conflitto – per certi versi sorprendente. Sia per il contenuto, sia per la tempistica. La dichiarazione di Damasco, infatti, suona alquanto forte: “La Siria è pienamente pronta per un’altra guerra con Israele, e spetta alla Siria decidere quando e dove avrà luogo tale guerra”. Più oltre, si ribadisce l’intenzione siriana di riprendersi le alture del Golan, illegalmente occupate da Israele.
Com’è noto, la Siria è ancora devastata da una guerra decennale, ha una parte del suo territorio di fatto occupato da forze curde ed islamiche (SDF) sotto controllo USA – che ha lì anche alcune basi militari illegali – ed un’altra occupata da milizie filo-turche. È costantemente sotto attacco aereo da parte di Israele e, spesso, anche da parte dell’aviazione turca. Si trova insomma in una situazione certo non felice né facile, ben lontana dall’essere tale da spingere Damasco verso una nuova guerra aperta. In Siria, oltretutto, c’è una presenza militare sia russa che iraniana, due paesi alleati. Impensabile che possa fare una scelta del genere senza consultarsi e coordinarsi con Mosca e Teheran.
Il contesto in cui si colloca questa improvvisa durezza siriana, è però forse capace di spiegare qualcosa anche al riguardo.
Fatto uno. L’intervento statunitense, col supporto giordano e britannico, sia contro le formazioni irachene ed iraniane facenti capo all’Asse della Resistenza (in Siria ed Iraq), sia contro Ansarullah in Yemen, con tutta evidenza non ha sortito lo sperato effetto intimidatorio. Gli attacchi alle basi USA ed al naviglio variamente connesso ad Israele, continuano.
Fatto due. L’offensiva israeliana su Gaza, al di là del massacro genocida di civili, non sta sortendo alcun vero risultato militare, contro le formazioni combattenti della Resistenza. Solo una piccola parte dei tunnel è stata scoperta e distrutta, i militari prigionieri sono ancora tutti in mano alla Resistenza (1). Dopo il ritiro dell’IDF da Gaza City, persino la stampa israeliana riconosce che Hamas ne ha ripreso il controllo. A Khan Younis ed in tutto il sud ancora si combatte pressoché quotidianamente.
Fatto tre. In un disperato tentativo di posticipare il redde rationem, il governo Netanyahu ora sostiene che non può esserci vittoria senza l’occupazione di Rafah e del corridoio Filadelfia. Questo benché perfettamente consapevole che ciò provocherebbe una crisi con l’Egitto, inasprirebbe ulteriormente i rapporti con Washington e creerebbe non pochi problemi alle stesse forze armate israeliane. Nell’area di Rafah, infatti, sono rifugiati tutti gli abitanti di Gaza che l’IDF ha fatto via via sfollare dalle altre aree, qualcosa come 1.400.000 persone (su una popolazione totale di circa 2.300.000) concentrate in pochissimo spazio. Penetrare in un’area così densamente popolata – ed ostile – non è per niente facile, e rischia di produrre più problemi che risultati.
Fatto quattro. L’IDF è in difficoltà. Netanyahu ha deciso di richiamare nuovamente i riservisti, che erano stati congedati dopo il ritiro da Gaza City; una scelta assai onerosa per l’economia di Tel Aviv, già duramente provata da questi quattro mesi di guerra. Contemporaneamente, l’IDF ha annunciato l’immediato ridispiegamento della 36a divisione da Gaza al confine con il Libano, a causa dell’inasprirsi degli scontri con Hezbollah.
Tutto ciò dimostra, da un lato, la mancanza di una qualsiasi disegno strategico, politico e militare, da parte della leadership israeliana. Ripetere che l’obiettivo è “la vittoria” non significa nulla, in mancanza di un piano realistico per conseguirla. Netanyahu somiglia sempre più a Zelensky. Dall’altro attesta il fatto che Israele non ha il controllo della situazione, e costretto a muovere continuamente le sue pedine da una parte all’altra della scacchiera, per il semplice fatto che non ne ha abbastanza per controllarla per intero.
Tornando quindi all’improvvisa dichiarazione bellicosa di Damasco. È chiaro che, per quanto indebolita, la Siria è parte attiva dell’Asse della Resistenza, e che fa quindi parte del disegno strategico complessivo che l’Asse, sotto l’accorta guida iraniana, sta portando avanti. Anche se non possiamo conoscere quale sia questo disegno, è facile intuire quali siano gli obiettivi finali, e quali siano le tattiche che intendono utilizzare.
Intendono logorare il nemico – da intendere sia come stato israeliano che come Stati Uniti – attraverso un abile dosaggio della forza, esercitata in tempi, modi e settori diversi. Lo vogliono sfiancare, sinché non collassa. E per fare ciò, non devono dargli tregua, quando è in difficoltà aumenteranno la pressione, quando rifiata si sottrarranno.
Il senso del messaggio siriano, pertanto, è probabilmente un avvertimento di un livello superiore. Potrebbe voler significare “non fate passi falsi, non vi cacciate in una situazione che non potreste gestire, perché in quel caso vi piomberemo addosso anche noi”. È, in buona sostanza, una operazione di psy-ops, di pressione psicologica. Il non detto, è ben oltre la minaccia implicita. Il senso profondo è: se domani Israele dovesse trovarsi in difficoltà serie, se dovesse apparire come un animale ferito, gli salteranno tutti addosso, compresi quelli che adesso – per convenienza – restano ambiguamente amici. Non saranno solo i paesi legati alla Resistenza, ma anche molti altri paesi arabi. Egitto in primis.
Forse mai come adesso, Israele sta rischiando tutto. Se balli col diavolo, è lui che conduce la danza.
1 – Nella notte tra l’11 ed il 12 febbraio, nel corso di una operazione di forze speciali, effettuata durante un intenso bombardamento sulla città di Rafah, l’IDF è riuscito per la prima volta a liberare due prigionieri, Fernando Simon Marman e Norberto Louis Har.