
Di Lorenzo Maria Pacini per Strategic Culture Foundation – traduzione a cura di Old Hunter
La Turchia deve scegliere dove andare. Con ogni probabilità, non lo farà sapere – o non lo capirà – nessuno, rimanendo coerente con il suo stile consolidato.
La Turchia del ‘sultano’ Recep Tayyip Erdogan continua a riservare sorprese: il ministro della Difesa, Yaşar Güler, ha dichiarato di recente che la Turchia vuole incrementare i rapporti con la Shanghai Cooperation Organisation (SCO), mantenendo al contempo i legami con la NATO. Cosa accadrà? Proviamo ad analizzare alcuni scenari.
La pianificazione geostrategica della Turchia nel 2024
La Turchia sta cercando di sfruttare la sua favorevole posizione geostrategica. Situata all’incrocio tra l’Asia occidentale e l’Europa, sottolinea il suo ruolo in ogni occasione, che si tratti del transito di idrocarburi dalla Russia o da altri paesi produttori di petrolio e gas verso l’Europa, o di nuovi corridoi di trasporto con autostrade e linee ferroviarie. Negli ultimi anni è stata sviluppata la Trans-Caspian International Transport Route e, con il miglioramento della situazione della sicurezza in Iraq, è tornato al centro dell’attenzione anche l’ex progetto Dry Canal, una linea logistica da Istanbul via Mersin nel sud del paese all’Iraq, dove la rotta passa attraverso Mosul, Baghdad, Najaf, Bassora e raggiunge la costa del Golfo Persico. Il progetto è stato discusso alla fine di marzo 2024 e approvato da Turchia e Iraq in una dichiarazione stampa congiunta che citava la Silky Way come obiettivo di integrazione. Il punto chiave del progetto è il nuovo porto di Al-Faw (Grande Porto), che dovrebbe essere uno dei più grandi porti del Medio Oriente e superare il porto di Jebel Ali di Dubai. Ci sono diversi fattori che ostacolano la realizzazione del progetto: il vicino Iran, dove passa il corridoio Nord-Sud, potrebbe cercare di dissuadere l’Iraq dal creare una rotta alternativa. Anche se il porto venisse costruito, sarebbe possibile estendere la parte terrestre non alla Turchia ma all’Iran, scambiando parte del flusso di transito; gli Emirati Arabi Uniti sono interessati a lanciare una rotta aggiuntiva, in virtù del fatto che nel febbraio 2022 è stato firmato un accordo di trasporto tra Turchia ed Emirati Arabi Uniti, in cui il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha affermato che queste linee ferroviarie e autostradali attraverseranno l’Iraq. Anche l’instabilità politica e l’insicurezza in Iraq potrebbero mettere a rischio il progetto, perché oltre alle cellule dell’ISIS, una questione delicata è la regione del Kurdistan (sia in Turchia che in Iraq) e, in particolare, le attività del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Bisogna sottolineare che l’instabilità regionale è un fattore stimolante per lo sviluppo del progetto Dry Canal. A causa del blocco del Mar Rosso da parte degli Houthi dello Yemen, il traffico del Canale di Suez è diminuito drasticamente e alcune delle merci destinate alla Turchia sono state trasportate attraverso l’Iran dal porto di Bandar su strada. Nel frattempo, la Turchia ha ulteriori vantaggi dal lancio di questo nuovo corridoio: in primo luogo, offre un’ulteriore opportunità per il transito di risorse energetiche, poiché l’oleodotto esistente dall’Iraq alla Turchia è diventato causa di conflitti interni. Le esportazioni di petrolio dalla regione del Kurdistan tramite l’oleodotto Iraq-Turchia sono ferme dal 23 marzo 2023, dopo che un tribunale arbitrale con sede a Parigi si è pronunciato a favore di Baghdad contro Ankara, affermando che quest’ultima aveva violato l’accordo del 1973 consentendo a Erbil di avviare esportazioni di petrolio indipendenti nel 2014. Dopo una fase di stand-by dovuta ai tentativi di nuovi accordi per risolvere le perdite economiche (circa 1 miliardo di dollari al mese), l’oleodotto è ora pronto per ripartire ed è in fase di test. Tuttavia, potrebbe sorgere una controversia sulle preferenze tra Baghdad, Erbil e le aziende internazionali. In secondo luogo, con gli investimenti esterni in Iraq, il governo turco sarà costretto a rispettare i propri obblighi e, in un modo o nell’altro, a trattare con i gruppi militanti. La Turchia sta combattendo il PKK e sarà probabilmente anche pronta a schierare le sue forze di sicurezza lungo il Canale Secco nel Kurdistan iracheno (parte di questo territorio è già occupata dalle truppe turche). In questo caso, Ankara avrà un nuovo strumento di influenza in Iraq. Infine, utilizzando la rotta aggiuntiva, la Turchia otterrà alcuni vantaggi economici e politici. Allo stesso tempo, la politica interna turca può utilizzare la nuova infrastruttura per coinvolgere i curdi turchi, riducendo così i rischi di rivolte antigovernative, poiché le cellule locali del PKK usano sempre qualsiasi scusa per intensificare il conflitto. La Turchia ha quindi un reale interesse a resistere e ad ingraziarsi i vicini d’Oriente, in vista di un’espansione già in programma, certamente più allettante di qualsiasi prospettiva verso Occidente, dove l’Europa non offre crescita di mercato, anzi recessione.
La NATO come organizzazione terroristica e la convenienza strategica turca
Quando il ministro della Difesa turco ha annunciato in una conferenza stampa l’esplorazione dell’adesione alla SCO, alcuni giornalisti hanno subito chiesto della NATO, di cui la Turchia è membro dal 1952, che svolge un ruolo chiave nell’equilibrio tra Occidente e Oriente. In effetti, i dubbi sono legittimi.
Ora, ragioniamo passo dopo passo:
- la SCO è stata fondata come organizzazione antiterrorismo;
- Da 75 anni la NATO promuove azioni terroristiche in tutto il mondo, in quanto braccio armato dell’imperialismo anglo-americano;
- ne consegue che la SCO e la NATO sono diametralmente opposte e del tutto inconciliabili;
- La Turchia dovrà quindi fare una scelta.
Se il ragionamento è chiaro nella logica formale, lo è un po’ meno nella logica strategica: non è necessariamente vero che ciò che è moralmente o politicamente coerente sia la cosa più strategicamente opportuna. Ciò apre diversi possibili scenari. La prima riguarda l’adesione della Turchia alla SCO come membro osservatore, in attesa di un possibile impegno formale in seguito. Ciò non sarebbe in conflitto formale, in termini di statuti, né per la NATO né per la SCO. L’adesione a pieno titolo avrebbe condizioni diverse, ma non è questo il momento. In questo modo, la Turchia potrebbe giocare una sorta di “doppio gioco”, colmando e bilanciando ulteriormente le richieste dei paesi americani e orientali. Naturalmente, non mancherebbero le difficoltà e l’interazione degli interessi potrebbe diventare molto calda, costringendo la Turchia a fare una scelta radicale in breve tempo. L’inconciliabilità tra NATO e SCO è scontata solo se la NATO viene riconosciuta come un’alleanza che promuove interessi terroristici… ma questo è più un problema morale, non politico e strategico. Il governo di Ankara potrebbe usare la posizione ambivalente per il bene dell’intelligence, degli accordi economici e dello sviluppo del settore della difesa. Non è una coincidenza che sia stato il ministro Güler, non il presidente, a menzionare questa opzione, che manifesta una strategia di comunicazione specifica per raggiungere un obiettivo internazionale specifico. Un secondo scenario vede la Turchia rinunciare alla SCO e restare comunque nella NATO. Ciò potrebbe metterla in seria difficoltà con gli sviluppi multipolari in atto. Bisogna ricordare che la Turchia guarda con grande interesse ai BRICS+, che stanno però agendo per smantellare l’egemonia anglo-americana, in direzione opposta alla NATO sul piano geo-economico. A lungo termine, la Turchia rischierebbe uno svantaggio commerciale oltre che strategico, soprattutto se BRICS+ e SCO firmassero effettivamente un accordo di cooperazione formale. In questa prospettiva, molto dipenderà dall’autodeterminazione del governo turco dal giogo dell’Atlantico. Si noti che, al momento, nessun paese membro della NATO è una parte ufficiale dei BRICS+. Il terzo scenario prevede l’adesione della Turchia alla SCO rinunciando alla sua posizione nella NATO. Sebbene questa sia una prospettiva molto allettante, bisogna considerare la difficoltà a breve termine. La Turchia, infatti, ha un legame di lunga data con la NATO che l’ha spinta non poco nel gioco americano: nel corso dei decenni, l’Alleanza ha coinvolto molto attivamente la Turchia nello sviluppo militare – non da ultimo con il programma F-35, da cui è stata esclusa all’ultimo minuto all’inizio del 2024 -, contribuendo sia alla ricerca che alle spese. Altrettanto vero è che la Turchia ha spesso impiegato sistemi d’arma dalla Russia, con cui ha ottimi affari, il che ha scosso il governo di Washington più volte negli ultimi sei anni. Gli Stati Uniti sostengono anche il movimento indipendentista curdo, cosa che non è andata giù ad Ankara. Di fronte agli incidenti diplomatici degli ultimi anni, la Russia è riuscita a sfruttare bene le opportunità, mostrando alla Turchia un significativo sostegno, a scapito dell’esitazione americana. La relazione tra NATO e Turchia è stata storicamente caratterizzata da divergenze e crisi, e dall’approccio “transazionale” della Turchia, a cui abbiamo assistito con l’opposizione all’adesione di Svezia e Finlandia negli ultimi mesi, che mira anche a revocare l’embargo sulle armi contro il paese. In passato, la Turchia ha bloccato la cooperazione NATO-UE come rappresaglia per l’ingresso della Repubblica greca di Cipro nell’UE, rendendo praticamente nullo e non valido l’accordo Berlin Plus del 2002 che avrebbe approfondito la cooperazione con Bruxelles. La relazione è anche segnata dalla cosiddetta “dipendenza dall’alleanza”, la consapevolezza da entrambe le parti di essere troppo dipendenti dall’alleanza per recidere i legami. L’alternativa è semplicemente considerata peggiore. Per la NATO (e l’UE), antagonizzare la Turchia nell’attuale situazione di confronto con la Russia non sarebbe razionale. I turchi sono abili commercianti, non hanno bisogno di grandi giri di parole: la scelta politica, anche in ambito strategico ed economico, resta il pragmatismo, che rimane la soluzione migliore dato che l’equilibrio tra il contenimento della Russia nel Mar Nero e il mantenimento di buoni rapporti con Mosca, anche alla luce della questione curda, deve essere preservato. La Turchia, quindi, deve scegliere dove andare. Con ogni probabilità, non lo farà sapere – o capire – a nessuno, rimanendo coerente con il suo stile consolidato. Che scelga una via di mezzo, con una posizione di dubbio equilibrio tra NATO e SCO, o solo una delle due, non si tirerà indietro dal proteggere il proprio interesse nazionale e non permetterà all’influenza di entità esterne di sopraffarla. Quest’ultimo punto resta centrale e deve essere ben compreso: la Turchia non ammette forti interferenze politiche nella sua autonomia. La NATO ha già toccato il limite più volte negli ultimi anni e il risultato non è stato così positivo. Che sia nella SCO o nei BRICS+, in ogni caso la Turchia non accetterà violazioni della sua sovranità.