I BRICS sono la nuova febbre del secolo, scrive Lorenzo Maria Pacini.

Lorenzo Maria Pacini per Strategic Culture Foundation – Traduzione a cura di Old hunter
Il vertice di Kazan dei BRICS è l’evento dell’anno. Con le decisioni di questi giorni, il 2025 e probabilmente l’intero secolo saranno plasmati, tracciando la rotta per il completamento della transizione multipolare. Non sarà facile – nessuno ha mai detto che lo sarebbe stato – e già sorgono alcune importanti domande per il prossimo futuro. Cerchiamo di capirne alcune insieme.
Niente più America, niente
Il clamore suscitato dai BRICS nel corso di quest’anno ha superato quello delle elezioni statunitensi, il cui esito non sarà più così vincolante come prima. Questo è un dato di fatto. Quando si è aperto il 2024, molti erano preoccupati per i grandi rischi che comportava il fatto di avere ben 76 Paesi del mondo in sessione elettorale, con gli Stati Uniti a dominare. La retorica dell’egemone, tuttavia, non funziona più come un tempo. Fino a qualche anno fa, tutto ciò che accadeva negli Stati Uniti era di interesse globale, la stampa era pronta a dedicare prime pagine e i social media si riempivano di contenuti dedicati, mentre i mercati finanziari impazzivano al minimo segno di instabilità o pericolo. Tutti pendevano dalle labbra di Lady USA.
Oggi non è più così.
Uno dei grandi successi dell’infowarfare intrapreso dai Paesi BRICS sotto la presidenza della Russia è quello di aver spodestato l’America dalla sua centralità mediatica. O meglio, al centro è rimasta solo nei Paesi vassalli, come l’Europa o il Commonwealth. Ma il resto del mondo non è più così interessato, e il resto del mondo è la maggioranza del mondo. Questo è un dettaglio che richiede maggiore attenzione. È vero che gli Stati Uniti da soli hanno un grande potere, certamente superiore a quello di moltissimi altri Stati; ma le geometrie del potere variano ciclicamente, come ci insegna la Storia, e tutti gli imperi prima o poi devono fare i conti con il loro epilogo.
La strategia intrapresa, di pari passo con quella geoeconomica, ha fatto sì che l’attenzione mediatica del “resto del mondo” fosse sintonizzata su fatti ed eventi che riguardavano il resto del mondo, non più l’Egemone. C’è un resto del mondo, anzi, c’è il mondo e gli Stati Uniti, e l’Occidente. Il mondo non è più “l’Occidente” a cui si aggiunge “il resto”. La prospettiva è cambiata. Nel linguaggio dei media è stata una piccola rivoluzione semantica la cui eco sarà sempre maggiore.
L’effetto principale è stato una sorta di disorientamento, perché le persone non erano abituate a dare risalto alle notizie provenienti da determinate aree del pianeta. Né c’era una formazione sufficiente per farlo. È stato così che i Paesi BRICS hanno prima lanciato una serie di piattaforme nazionali di analisi e diffusione delle informazioni, e poi hanno avviato un apparato informativo a marchio BRICS, già molto dettagliato, capillare e accurato, che prevedeva la formazione tecnica di professionisti. Si trattava di insegnare a raccontare il mondo senza farsi sedurre dalle mitologiche sirene dell’Atlantico.
L’effetto collaterale è che una nuova generazione di esperti si affaccia all’orizzonte di un mondo da descrivere con occhi diversi e, come è noto, il potere principale dei mass media è quello di raccontare il mondo, cioè di darne un’immagine, descriverlo, creare forme di pensiero su cosa sia il mondo e su come immaginarlo per il futuro.
Il risultato che possiamo dire è stato positivo: nei Paesi del mondo multipolare non vige più la regola “America first” e alla fine di ottobre non è più necessario parlare delle elezioni statunitensi come dell’evento dell’anno. D’altra parte, si è consapevoli che Harris o Trump, il problema degli Sati Uniti rimane lo stesso e, in ogni caso, nessuno dei due concorrenti ha intenzione di detronizzare il sionismo, né di partecipare al tavolo della Pax Multipolaris.
Il nuovo sistema finanziario
Sempre in tema di infowarfare, la Russia ha giocato una partita da maestro. Ne avevamo già parlato mesi fa: i ripetuti annunci della nuova moneta BRICS con parziale base aurea, poi di BRICS Pay, poi dell’UNIT che sostituisce SWIFT, poi delle operazioni finanziarie della Nuova Banca di Sviluppo, si sono ripetuti sempre e solo in concomitanza con particolari momenti in cui il mercato del dollaro doveva essere destabilizzato, creando difficoltà agli Stati Uniti e al Regno Unito e favorendo gli investimenti BRICS e il processo di de-dollarizzazione.
Era molto ovvio e quasi banale che questi nuovi sistemi non sarebbero stati attivati già da quest’anno, perché richiedono una pianificazione millimetrica e tempi di transizione non immediati, soprattutto perché si tratta di un gran numero di Stati con valute diverse, leggi diverse, scambi diversi. L’importante era promuovere il nuovo sistema, spaventare l’avversario, destabilizzare il mercato, convincendo sempre più Paesi a uscire dall’orbita di un sistema occidentale-centrico che sta collassando. Questa è la guerra dell’informazione.
Le decisioni programmatiche prese a Kazan detteranno la fase operativa a partire dal 2025, con una previsione di graduale sperimentazione e inserimento dei nuovi sistemi. La BRICS Pay Card rilasciata al vertice è un esempio dell’efficacia di questo sistema alternativo: forse a molti può sembrare banale, perché in apparenza è una piccola carta di debito per pagare il caffè, ma in realtà quello che vediamo è un sistema di pagamento a cui hanno accesso i partecipanti di tutti i Paesi, all’interno di un nuovo circuito, secondo nuove regole. Un piccolo test, quasi uno scherzo per far arrabbiare i signori della finanza di Wall Street. Dolcetto o scherzetto?
Il vertice discuterà il passo cruciale per completare la fase successiva di questo nuovo processo di rivoluzione finanziaria: chi sarà il prossimo presidente della NDB e quale forma dovrà assumere questa istituzione finanziaria. Dalle informazioni già diffuse e dalle risposte degli analisti e degli esperti convocati al tavolo delle trattative, emerge la necessità di creare una sorta di Banca Centrale indipendente, tagliando il cordone ombelicale dal Fondo Monetario Internazionale (che è americano), pur dovendo stare attenti a non gettare numerosi Stati in una crisi finanziaria globale a causa della complicazione della transizione – un problema, questo, che non va assolutamente sottovalutato, perché i Paesi BRICS e soprattutto i nuovi membri non hanno lo stesso livello di potenza economica, non hanno le stesse valute e non hanno le stesse riserve. In effetti, si è parlato di una nuova istituzione bancaria autorizzata a emettere crediti allo scopo di finanziare i deficit commerciali e di pagamento di alcuni Paesi, così come si è discusso ampiamente di una moneta con il 40% di base reale in oro e il 60% di valute nazionali dei Paesi membri, quindi una moneta che possa essere rapidamente convertita in tutte le valute nazionali.
Si tratta certamente di un passo delicato e molto difficile, ma rappresenterebbe uno scacco matto nei confronti del dollaro. Non sarà così facile convincere i cinesi ad accelerare l’effettiva de-dollarizzazione, perché il commercio orientale è ancora molto legato all’America.
I BRICS hanno già superato i membri del G7 e numericamente si avviano a rappresentare la maggioranza del mercato globale. Come disse una volta un biondo criminale britannico, “non c’è alternativa”.
Sauditi dentro, Sauditi fuori
Allo stesso modo, anche per l’Arabia Saudita verrà posta un’autorità autonoma. Il Paese è ancora troppo legato agli Stati Uniti per le questioni petrolifere e ha una serie di spiacevoli scheletri nell’armadio – soprattutto per quanto riguarda il terrorismo e il finanziamento delle guerre – ma le relazioni di Mohammad Bin Salam con Russia e Cina sono oggettivamente eccellenti. A Kazan, secondo le parole di Dmitry Peshkov, portavoce del Cremlino, verrà presa una risoluzione.
Il rischio di rivoluzioni colorate o di colpi di Stato in Arabia Saudita è enorme e può destabilizzare il Paese a seconda delle scelte che farà. L’influenza americana e la presenza militare sul territorio sono una spina nella carne che non è facile da estrarre e curare. Tuttavia, è vero che il petrolio rimane la principale fonte di energia e determina la maggior parte del mercato globale. Per strappare l’Arabia Saudita, ma anche gli Emirati Arabi Uniti, al controllo dell’egemone, è necessario offrire loro alternative vantaggiose e sicure.
In questo contesto, il lavoro dei comitati che si occupano dell’integrazione e della riorganizzazione delle alleanze islamiche con il partenariato sarà cruciale. Dopo le provocazioni della Turchia e la vicenda sionista che si è ormai diffusa in tutto il Medio Oriente, la “chiamata alle armi” dell’Iran nei confronti di tutti i Paesi arabi islamici è un segnale molto chiaro di urgenza politica. Un’instabilità come quella attuale non è più possibile.
L’appello dei Paesi islamici a lottare contro il sionismo pone una scelta radicale e senza ritorno.
Ciò avverrà anche attraverso l’esercizio del soft power commerciale: poiché i Paesi arabi sono incentrati sul commercio (e sul lavaggio del denaro), in particolare di greggio e materie prime, mettere all’angolo le rotte commerciali e limitarle con i membri dei BRICS significherebbe uno smacco non indifferente in termini di fatturato. Proviamo a pensare a un piano B da parte dei BRICS, un nuovo Campidoglio petrolifero che dirotti i traffici di Abu Dabi e Dubai, un vero e proprio scherzetto per convincere i Paesi arabi a decidersi. Verosimile, non vi pare?
La presidenza del 2025
L’anno prossimo la presidenza del partenariato sarà affidata al Brasile di Luiz Inacio Lula. Le preoccupazioni non sono poche.
Ci sono molte contraddizioni interne che devono essere risolte.
Il governo non sembra preparato alla governance dei BRICS. La presenza sionista è fortissima – Bolsonaro era un sionista di ferro – e ci sono molte ONG americane ed europee che hanno un grande potere sulla politica nazionale. Per non parlare del gran numero di agenti stranieri, soprattutto americani, con la gestione del crimine organizzato da parte degli apparati di intelligence, un vero e proprio “esercito ombra” che fa il lavoro sporco. Il margine di manovra di Lula è quindi limitato.
L’organizzazione dell’Agenda BRICS durante il vertice di Kazan deve andare nella direzione di “bloccare” la formazione geoeconomica del partenariato, in modo da non disfarla nelle prossime delicate fasi. Teniamo presente che nei giorni scorsi sono trapelate informazioni dichiarate segrete, riservate solo ai membri dei Five Eyes, su un attacco pianificato da Israele e Stati Uniti all’Iran, che sarebbe avvenuto proprio nei giorni della cupola BRICS. Questo caso di fuga di informazioni ha suscitato non pochi malumori nell’establishment statunitense.
Dal punto di vista geografico, il Brasile è uno Stato enorme, quindi non facile da gestire, morfologicamente e geologicamente ricco, vario e non facile. Dopo il controllo coloniale europeo del Portogallo, la dipendenza brasiliana è rimasta con gli Stati Uniti. Il Brasile è circondato da Paesi nettamente antiamericani e ha un legame con Russia e Cina per questioni politiche ideologiche.
Negli ultimi mesi, è come se il Brasile fosse stato messo nella posizione regionale di dover rispettare l’agenda dei BRICS: la Russia ha riattivato le basi militari a Cuba, il Venezuela ha confermato la sua alleanza con la Russia e la Cina e ha stretto importanti accordi di intelligence con l’Iran, sono stati firmati accordi commerciali che ridefiniscono le rotte di navigazione.
Eppure il Brasile ha già dato delle risposte: il primo vertice dei BRICS nel 2025 sarà posticipato a luglio, lasciando così più della metà dell’anno senza fasi decisionali, per dare priorità alla COP30, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima.
Il Brasile ha poi meno relazioni diplomatiche rispetto, ad esempio, alla Russia, quindi c’è meno margine di manovra, che dovrà essere risolto in qualche modo.
Sempre guardando alla mappa del mondo, il Brasile è decentrato rispetto alla maggior parte dei membri del partenariato ed è lontano dalle rotte geoeconomiche e geostrategiche dei BRICS, che sono ancora molto concentrati sull’Eurasia, sul Sud-Est asiatico, sul Medio Oriente e ora si stanno aprendo all’Africa. Questa è la regola della geopolitica classica: l’Heartland (Eurasia) deve mettere in sicurezza il Rimland, il cordone che lo circonda, e attraverso i BRICS (ma anche la SCO) lo sta facendo brillantemente. Possiamo prendere in prestito l’espressione “Heartland dei BRICS”, di cui parlerò nel prossimo articolo. Secondo le definizioni di Karl Haushofer delle pan-idee geografiche, il Brasile è sì nei BRICS, ma è di fatto nella zona di influenza americana, non essendo l’Iberoamerica ancora indipendente.
Poi c’è il problema dei confini naturali. A est c’è l’Atlantico, di fronte all’Africa; a ovest, oltre la Cordigliera, c’è il Pacifico meridionale, che è una zona di influenza del Commonwealth, brulicante di basi britanniche e americane, con vari centri di comando dei Five Eyes, l’AUKUS detiene ancora la maggioranza del controllo strategico. Questa non è una pressione immaginaria, ma reale: per attraversare il Pacifico, l’Eurasia dei BRICS deve passare attraverso una “barriera” di controllo militare marittimo e accordi internazionali. Fino a oggi c’è stato un Eurasia-centrismo dei BRICS che ora dovrà espandersi in qualcos’altro.
Anche durante la presidenza sudafricana, le rotte erano squisitamente eurasiatiche: L’Africa non era ancora stata divisa dall’Alleanza degli Stati del Sahel, quindi era ancora abbastanza sotto l’influenza europea e anglo-americana, situazione che è cambiata nel 2024 e che ora vede una maggiore presenza russa e cinese per stabilizzare l’autonomia continentale.
I BRISC, quindi, devono trovare una soluzione per le rotte verso il Sud America. E forse l’hanno già trovata: un mese dopo il vertice di Kazan ci sarà il vertice APEC (Asian Pacific Economic Cooperation) con l’inaugurazione ufficiale del porto di Chancay, la cui assonanza con il porto di Shanghai rende il tutto molto ingegnoso. Si tratta della nuova rotta marittima cinese attraverso il Pacifico, che passando per il Perù porterà in Cina molti prodotti brasiliani e sudamericani in generale. Si tratta geograficamente di una sorta di accerchiamento dell’avversario occidentale, che va per la prima volta a toccare il continente americano attraverso una mossa ben affinata nella sapiente strategia cinese, di cui beneficeranno tutti i BRICS. Non sorprende che la battaglia americana alla Cina, voluta in particolare da Trump, voglia cercare di rompere questo riavvicinamento, motivo per cui la rivoluzione i colorata a Taiwan è una priorità per gli americani.
Un’altra soluzione è il corridoio nord-sud che coinvolge Russia, Iran e Cina, e in parte anche l’India, e la nuova rotta artica: sono ancora in fase di sviluppo e già si parla di una sorta di rivoluzione e di un vero e proprio nuovo dominio del mercato.
Combattere Russia, Cina e Iran significa combattere la spina dorsale dei BRICS: politica, economia, ideologia.
Una questione politica su un tavolo di geoeconomia
Il vertice dovrebbe anche discutere di un tema caldo e urgente: la questione palestinese. Per la prima volta, i BRICS discuteranno di una questione prettamente politica e non geoeconomica. Sebbene la Palestina abbia presentato domanda di adesione al partenariato – e quindi sarà esaminata come tutti gli altri Stati candidati – la questione rimane dirimente per tutti i Paesi islamici che hanno presentato domanda, essendo l’antisionismo un tratto comune a molti nuovi aspiranti membri. Ma è anche una questione molto urgente per i principali BRICS: Il Presidente russo Putin è intervenuto personalmente sulla questione per la prima volta, in attesa del vertice, esprimendo la necessità di un unico Stato di Palestina e di una soluzione rapida ed efficace al problema. Un segnale forte e molto diretto, quasi una sorta di testamento a chiusura dell’anno di presidenza del partenariato.
È persino probabile che i BRICS dedichino un evento specifico alla Palestina, forse entro la fine dell’anno, potendo così giocare sull’attuale fase di unità del partenariato. Il problema non può rimanere senza risposta.
L’Africa pezzo per pezzo
Il grande protagonista del Sud globale di questo vertice è senza dubbio l’Africa, con i suoi numerosi partecipanti. In quel continente, coerentemente con un percorso prudenziale che si addice a una fase di avanguardia e di esplorazione di nuovi territori politici ed economici. Stiamo parlando di un continente le cui difficoltà non sono affatto poche e di non facile soluzione, per il quale occorrerà un tempo lungo, di almeno due generazioni, per poter raggiungere una stabilità interna sufficiente a costituire un solido Heartland africano.
L’Africa, infatti, si sta avvicinando ai BRICS un pezzo alla volta: prima i Paesi più forti e stabili, poi gli altri seguiranno, fino a lasciare isolati quelli ancora legati al controllo straniero. È chiaro che ci deve essere un interesse per avviare queste procedure, perché tutti gli scambi sono una questione di interesse, e questo è stato reso possibile dalla creazione dell’Alleanza del Sahel, grazie alla quale si è creata una frattura sufficiente per aprire nuove possibilità e garantire una maggiore fiducia.
Si pensi, ad esempio, all’accordo della società russa Rosatom con il Burkina Faso per la costruzione di una centrale nucleare: questa mossa potrebbe far “esplodere” la questione nucleare in Africa, sfruttando rapidamente le strutture già presenti di Russia e Cina, ma anche della Corea del Nord. I prossimi mesi saranno un banco di prova per i Paesi aderenti: si vedrà se ci saranno tentativi di destabilizzazione, rivoluzioni colorate, guerre civili, colpi di Stato, e nel momento in cui un accordo clamoroso andrà in porto, cosa impedirà ai Paesi africani di mettersi al tavolo delle trattative?
D’altra parte, si sa: tutti vogliono partecipare ai BRICS. È la nuova febbre del secolo. Allora, cari BRICS, qual è il prossimo passo?
