
di Lama El Horr per China Beyond the Wall – Traduzione a cura di Old Hunter
Un vecchio proverbio dice: “Se vuoi affogare il tuo cane, accusalo di rabbia”. Con la sua strategia di sabotaggio dell’economia cinese, gli Stati Uniti hanno fatto un ulteriore passo avanti: accusare la Cina di avere la rabbia non è sufficiente, bisogna darle la malattia.
Da quando l’amministrazione Trump ha dichiarato guerra commerciale alla Cina, gli Stati Uniti e i suoi alleati dell’UE hanno intensificato costantemente la loro politica di disaccoppiamento dall’economia cinese, attraverso l’adozione di sanzioni economiche, barriere tariffarie e non tariffarie e divieti di esportazione di alcuni prodotti “sensibili” in Cina.
Parallelamente a questo ostracismo nei confronti di alcuni settori dell’economia cinese, i media occidentali affermano ripetutamente che l’economia cinese è in cattive condizioni e addirittura sull’orlo del collasso. Secondo questi uccelli del malaugurio, l’età dell’oro della crescita economica cinese è finita.
Creare profezie che si autoavverano
Washington e i suoi affiliati presentano gli indicatori economici della Cina come una successione di disastri dovuti alle politiche economiche sbagliate del governo cinese.
Secondo questa narrazione, la crescita della Cina è a metà strada a causa di un’errata allocazione delle risorse da parte delle autorità cinesi. Questi errori di valutazione avrebbero portato a un diffuso effetto domino: l’indebitamento delle province sta diventando insostenibile, il settore immobiliare sta crollando, le aziende fanno meno profitti, la disoccupazione giovanile è alle stelle, i prezzi al consumo sono in calo, così come i salari e la fiducia. Anche la volatilità dei mercati azionari cinesi viene invocata a sostegno della narrazione occidentale. – E se a questo si aggiunge l’invecchiamento della popolazione, c’è sicuramente motivo di credere che l’economia cinese sia in declino terminale.
Naturalmente, dietro questo ritratto catastrofico si cela l’obiettivo di minare la fiducia: della domanda interna, degli investitori e dei partner di Pechino. Non bisogna infatti dimenticare che questo ritratto finge di ignorare la
valanga di restrizioni commerciali imposte alla Cina da Washington e dai suoi Paesi satelliti, intenzionati a ridurre, e in alcuni casi a vietare, gli scambi con Pechino. Queste manovre rivelano che il vero obiettivo del blocco occidentale è quello di limitare la competitività economica e commerciale della Cina e, per estensione, lo sviluppo dei suoi partner del Sud.
In un momento in cui la transizione energetica è il nuovo cavallo di battaglia del blocco occidentale, che vi vede un mezzo per perpetuare la propria egemonia imponendo nuove regole di scambio, non sorprende che gli spettacolari progressi della Cina in questo campo suscitino le ire di Washington. L’imposizione di tariffe particolarmente elevate sulle auto elettriche cinesi – 100% da parte degli Stati Uniti e fino al 45% da parte dell’UE – non lascia dubbi sulle intenzioni di Washington: minare la posizione dominante delle aziende automobilistiche cinesi, accusandole di concorrenza sleale attraverso sussidi e sovraccapacità. Consapevole del fallace pretesto alla base di questo protezionismo mascherato, la Cina ha deciso di rivolgersi all’OMC, le cui regole di libera concorrenza vengono chiaramente violate.
L’accusa che la Cina utilizzi il lavoro forzato della popolazione uigura della provincia dello Xinjiang ha lo stesso scopo: escludere interi settori dell’industria cinese dal commercio con gli Stati Uniti. Basta consultare l’elenco dei prodotti cinesi inclusi nell’UFLPA per rendersi conto della dimensione geopolitica e geoeconomica di queste leggi adottate da Washington. Prendendo di mira prodotti strategici come il cotone, il PVC, l’alluminio, i prodotti a base di silice, i pomodori e i frutti di mare, l’obiettivo evidente è quello di tenere fuori un concorrente la cui posizione dominante sta minando Washington e i suoi alleati.
Questa legge americana sul lavoro forzato – un protezionismo mascherato da difesa dei diritti umani – permette inoltre a Washington di coltivare l’immagine di una Cina dittatoriale, irrispettosa della dignità umana e che maltratta la sua popolazione musulmana. Va da sé che i notevoli investimenti di Pechino nello sviluppo economico dello Xinjiang, che si è rivelato il miglior antidoto ai movimenti terroristici e separatisti diretti dall’esterno, privano Washington di un formidabile strumento di ricatto nei confronti di Pechino. Va da sé che, nel contesto del quotidiano spargimento di sangue a Gaza e in Libano – carneficine compiute da Israele, ma sponsorizzate e promosse da Washington e dai suoi alleati europei – queste accuse alla Cina non hanno un briciolo di credibilità.
La diagnosi occidentale sullo stato di salute della Cina ignora volutamente anche i riorientamenti economici intrapresi da Pechino. Come le grandi politiche economiche cinesi degli ultimi trent’anni, questi riorientamenti sono processi di trasformazione lunghi e di ampia portata, che vengono costantemente riadattati in base alle circostanze interne ed esterne. È così che comprendiamo il concetto di doppia circolazione, la priorità data all’economia digitale e la marcia della Cina verso la sovranità tecnologica – senza dimenticare, ovviamente, l’architettura geopolitica globale della BRI. La “Decisione” del Terzo Plenum del 20° Comitato Centrale del Partito Comunista ha definito nel dettaglio le priorità su cui basare le politiche economiche del Paese.
Sicurezza nazionale contro sovranità
Le restrizioni economiche imposte alla Cina sarebbero motivate principalmente da preoccupazioni di “sicurezza nazionale”. Queste preoccupazioni sarebbero sufficientemente allarmanti da giustificare, agli occhi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, l’esclusione di alcuni prodotti o addirittura settori cinesi dal commercio con Washington e Bruxelles.
Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno sempre sottolineato il pericolo rappresentato dalle tecnologie a doppio uso, come il 5G o i semiconduttori ad alta tecnologia, che possono essere utilizzati sia per scopi civili che militari. Così, su pressione degli Stati Uniti, diversi Paesi dell’UE hanno dovuto rinunciare al 5G cinese. Allo stesso modo, i produttori di semiconduttori high-tech sono stati costretti da ingiunzioni statunitensi a vietare le esportazioni dei loro prodotti in Cina.
Le preoccupazioni americane per la “sicurezza nazionale” si estendono anche ai porti marittimi dei quattro continenti. La costruzione e/o la gestione da parte di Pechino di porti commerciali strategici, come Hambantota in Sri Lanka, Bata in Guinea Equatoriale e Chancay in Perù, è percepita da Washington come una potenziale minaccia, in quanto questi porti potrebbero essere utilizzati per scopi militari.
Washington ha recentemente imposto sanzioni a sei nuove aziende cinesi, accusandole di aver aiutato l’Iran ad “acquisire armi di distruzione di massa” e di aver contribuito alla modernizzazione dell’esercito cinese. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti continuano a compromettere la sovranità e l’integrità territoriale della Cina, avendo appena firmato un nuovo contratto di armi da 2 miliardi di dollari con Taiwan violando, per l’ennesima volta, lo spirito dei tre comunicati congiunti firmati con Pechino.
Queste misure coercitive unilaterali rivelano che l’ascesa economica della Cina, il cui corollario è l’ascesa militare, è percepita dagli Stati Uniti come una minaccia alla loro egemonia. L’adozione di barriere economiche e commerciali contro Pechino mira a ostacolare la sovranità tecnologica della Cina e a mantenerla dipendente dal blocco occidentale dominato dagli Stati Uniti. Non c’è dubbio che queste misure coercitive abbiano anche lo scopo di garantire a Washington una voce in capitolo nelle relazioni Cina-UE e di evitare che l’UE diventi troppo indipendente da Washington.
Di fronte a questa realtà, dobbiamo affrontare l’unica domanda valida: quale legittimità può avere la nozione di “sicurezza nazionale”, avanzata dagli Stati Uniti e dai loro alleati, se nega ai loro concorrenti geopolitici il diritto di proteggere i loro confini e le loro risorse, di scegliere il proprio percorso di sviluppo e di migliorare la vita delle loro popolazioni? Questa domanda va oltre la Cina: vale anche per la Russia, l’Iran, la Corea del Nord, il Venezuela, lo Zimbabwe e tanti altri Stati la cui “sicurezza nazionale” è calpestata senza pietà da una manciata di grandi potenze.
In breve, dobbiamo chiamare le cose con il loro nome: la guerra commerciale contro la Cina è una guerra contro la sovranità cinese.
