Mosca affronta con grande pragmatismo la caduta del regime siriano, e trasforma quella che l’occidente dipinge come una sconfitta strategica in una opportunità per rilanciare la sua penetrazione nel continente africano. Dal Màghreb al Sudan, passando per il Sahel, la presenza russa in Africa assume sempre più una rilevanza strategica di ampio respiro, che dimostra come la leadership russa stia giocando molto abilmente la sua partita geopolitica, e con uno sguardo lungimirante.

È interessante osservare gli sviluppi susseguenti alla repentina caduta del regime di Assad ed alla conseguente ascesa dei cosiddetti “jihadisti moderati”, che sembrano produrre effetti leggermente diversi da quelli auspicati ed immaginati nelle cancellerie occidentali. Ancora oggi, la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, volata a Damasco insieme al collega francese Jean-Noël Barrot, ha ripetuto il mantra che “la Russia deve essere espulsa dalle basi di Hmeimim e Tartus”, manifestando ostinatamente l’infantilismo politico che caratterizza le leadership europee. Il nuovo regime siriano, infatti, su evidente input del suo main sponsor turco, ha già messo in chiaro che gli interessi strategici di Damasco escludono un simile evolversi della situazione.
Benché immediatamente festeggiata in Occidente come un duro colpo per Mosca e Teheran, la caduta di Assad si sta piuttosto rivelando come un evento capace di scuotere gli equilibri regionali, ma non necessariamente nel senso desiderato a Washington e Bruxelles. Per un verso, infatti, la situazione interna siriana rimane estremamente instabile, con il Syrian National Army – di stretta osservanza turca – chiaramente assai più impegnato ad affrontare la questione curda che non in un processo di nation building, l’Hayat Tahrir al-Sham che si barcamena tra le spinte oltranziste delle sue frange più radicali e la costruzione di una credibilità internazionale, gli Stati Uniti (chiaramente poco disposti a cedere il controllo del petrolio siriano ad Ankara) sempre più schierati a sostegno delle SDF, mentre Israele continua a scorrazzare liberamente, occupando pezzi di territori e bombardando ovunque voglia.
In questo quadro generale, paradossalmente la posizione più stabile appare essere proprio quella russa. Assicuratasi sostanzialmente il mantenimento delle sue due basi principali, Mosca sta provvedendo in tutta tranquillità a smantellare le varie basi minori presenti nel paese, trovandosi oltretutto nella condizione di potersi liberare dall’onere del sostegno economico e militare alla Siria (stessa cosa dicasi per Teheran) e di disporre, quindi, di risorse logistiche e militari da dispiegare altrove.
In questa fase, quindi, gli unici ad avere un’interlocuzione dialogica e non conflittuale con la Turchia, sono proprio Russia ed Iran che, nell’ambito del cosiddetto formato di Astana discutono del futuro della Siria, mentre gli USA hanno assunto una posizione di netto contrasto verso i turchi, sostenendo (almeno per il momento…) le forze curde. Nei primissimi giorni del nuovo anno si segnalano scontri sempre più duri tra SDF e SNA nelle vicinanze di Manbij, dove i curdi hanno contrattaccato respingendo le milizie filo-turche sino ai villaggi di Al-Atshana e Al-Masataha; nel frattempo, mentre Ankara afferma di prepararsi ad attaccare Ayn al-Arab (Kobane), per tutta risposta gli Stati Uniti si affrettano ad inviare rinforzi logistici, e sembrano intenzionati a costruire una propria base in città.
La strategia statunitense sembra pertanto centrata sul mantenimento del controllo delle aree petrolifere (che saccheggiano ormai da dieci anni) e, più in generale, nel frapporre ostacoli alla nascita di una nuova Siria in possesso della piena integrità territoriale. Indipendentemente da chi governi a Damasco, Washington – in questo in pieno accordo con Tel Aviv – preferisce mantenere il paese diviso, e con una propria presenza militare.
Mentre, quindi, le varie forze impegnate sul campo si fronteggiano, al fine di definire i futuri equilibri di potere nel paese, Mosca sembra invece aver colto pragmaticamente l’opportunità aperta dal cambio di regime per sviluppare un’ulteriore penetrazione strategica in un’area sulla quale sta investendo molto.

Le risorse liberate in Siria, infatti, vengono trasferite massicciamente nella Libia orientale, con un ponte aereo continuo tra la base di Hmeimim e quella di Al Khadim, vicino Tobruk. E proprio la Libia sembra delinearsi come un nuovo grande hub logistico per la presenza militare russa in Africa. I russi stanno, infatti, costruendo una grande base aerea nel sud libico, a Ma’tan as Sarah, vicino al confine col Ciad, mentre le forze del generale Haftar hanno preso il controllo del campo di Tindi, situato a ovest di Ubari, sempre nella Libia meridionale, che fornirà una via d’accesso alle forze russe verso i paesi africani del Sahel.
La posizione della Libia orientale è strategicamente centrale, rispetto alla crescente area d’influenza russa in nord Africa. La regione sub-sahariana, infatti, vede già una presenza militare in Niger, Mali e Burkina Faso, mentre anche il Ciad, il Senegal e la Costa d’Avorio si sono liberati dalla presenza delle truppe di Parigi. A nord ovest, sulla costa mediterranea c’è l’importante presenza dell’Algeria, nazione storicamente amica di Mosca, mentre gli sviluppi più interessanti riguardano l’est. I russi (e gli iraniani) stanno infatti sostenendo il governo di Khartum nella sua lotta contro i ribelli delle Rapid Support Forces (RSF). Mosca sta cercando di ottenere l’autorizzazione del governo sudanese per costruire una base navale sul Mar Rosso, che ne rafforzerebbe la proiezione strategica in un’area di grandissima rilevanza.
Oltre agli ottimi rapporti col Sudafrica, quindi, la Russia sta sviluppando una strategia africana [1] volta non solo a consolidare rapporti con paesi ricchi di materie prime (uranio, oro, fosfati, manganese), ma soprattutto a creare una solida rete di relazioni in un quadrante che consente una significativa presenza sia nel Mediterraneo che nel Mar Rosso, e dispone di una sua profondità strategica.
A conti fatti, quindi, la caduta di Assad è stata assai meno problematica per i russi, di quanto in Occidente non si voglia far apparire. Restano ovviamente problemi di natura logistica, ma fintato che Hmeimim e Tartus restano attive, questi sono largamente contenibili. La presenza diretta in Medio Oriente si assottiglia – e del resto la Russia ha sempre avuto un interesse relativo per la regione – ma questo viene largamente compensato da un lato dagli ottimi rapporti in ambito OPEC con l’Arabia Saudita e dall’altro dalla presenza dell’Iran, ormai addivenuto al ruolo di alleato strategico. Sappiamo che già sono stati trasferiti a Teheran sofisticati sistemi di guerra elettronica (visti all’opera durante l’ultimo attacco israeliano), nonché sistemi anti-aerei S-400. Entro la primavera prossima sarà completata la consegna dei cacciabombardieri SU-35, mentre tra un paio di settimane verrà firmato a Mosca l’ accordo di partenariato strategico globale, sulla falsariga di quello russo-coreano.
Questa partnership, che non osta al permanere di posizioni diverse anche su questioni non secondarie (come il conflitto israelo-palestinese), rappresenta comunque un importante atout per entrambe: per Mosca, l’Iran garantisce una importante presenza alleata in due aree cruciali, come il Medio Oriente e l’Asia Centrale, mentre per Teheran l’ombrello russo diventa un elemento centrale della sua capacità di difesa e (quindi) di deterrenza. La defaillance siriana, quindi, si è rivelata per Mosca assai più un’opportunità che una sconfitta, consentendole di rilanciare la propria penetrazione strategica in Africa, la cui rilevanza globale è probabilmente ancora molto sottovalutata in Occidente (tranne probabilmente che dai francesi…), ma che invece potrebbe rivelarsi di enorme importanza. Egitto, Etiopia e Uganda, oltre al Sudafrica, sono già paesi membri dei BRICS+.
Ma è evidente che l’attrazione di questo raggruppamento è destinata a crescere esponenzialmente e l’Africa – che l’Occidente ha sempre considerato come terra di conquista e sfruttamento – ha un enorme potenziale di sviluppo economico ed è destinata ad assumere una rilevanza strategica sempre maggiore. E Mosca sembra averlo compreso meglio di altri.
1 – Oltre ai paesi citati, la presenza africana di forze russe, e più in generale di quella politico-diplomatica, è assai significativa, ed annovera la Repubblica Centrafricana, il Madagascar, lo Zimbabwe, le Comore, l’Eritrea, la Guinea, il Camerun (tutte principalmente attraverso l’ex-gruppo Wagner). Mosca è anche il principale fornitore di armi del continente africano. Esaminando 27 accordi di difesa tra Russia e paesi africani (open source su database governativi russi), è risultato che ben 10 includono “lo scambio di informazioni e comunicazioni riservate tra ministeri della difesa” (Botswana, Burkina Faso, Burundi, Ciad, Congo-Brazzaville, Egitto, Mali, Niger, Nigeria e Ruanda). Secondo Ivan U. Klyszcz (Cfr. “Quel rôle pour les services de renseignement russes en Afrique?”, Le Rubicon) ricercatore presso l’International Centre for Defence and Security (ICDS) di Tallinn, la RCA e il Madagascar sono oggi “piattaforme per l’intelligence russa in Africa”. Quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato per condannare l’aggressione russa in Ucraina, metà dei paesi che non hanno sostenuto il testo erano africani (17 astensioni su 35, un voto contrario), mentre 8 stati del continente non hanno nemmeno preso parte al voto. Le Monde Diplomatique sostiene che “L’Africa è sia la regione più restia a seguire il movimento di condanna sia la più divisa nella sua reazione al conflitto, con solo circa il 50% delle sue capitali che approvano i testi sottoposti alla loro considerazione” (Cfr. “La guerre en Ukraine vue d’Afrique”, Anne-Cécile Robert, Le Monde Diplomatique).
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