“L’Europa è un giardino, il resto del mondo una giungla”. “La cultura è nostra, gli altri non sanno cosa sia”. Da Borrell a “una piazza per l’Europa”, la UE rivela la sua anima razzista ma la nuova tratta degli schiavi riguarda noi con le catene del riarmo.

Il 15 marzo, sul palco di “Una piazza per l’Europa”, Roberto Vecchioni ha affermato: “Chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico: Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni, Leopardi… Ma gli altri le hanno queste cose?”
Sì. Soloviev, Solzenycin, Dostoevskij, Tolstoj, Puškin, Gogol, Turgenev, Čechov, Nabokov, Bulgakov, Borodin, Chagall, Kandinskij, Malevic, Prokof’ev, Rachmaninov, Stravinskij, Čajkovskij, giusto per citarne solo alcuni per la Russia.
E ancora: “Pacifisti siamo noi perché teniamo alla nostra cultura. Poi questa parola cultura, dovrebbe finire qui perché non so come sia, ma a parte qualche intellettuale in America, dovrebbe essere nostra e basta. Certamente è nostra la cultura, loro non sanno cosa sia”.
Qualche nome? C.S. Peirce, Thoreau, William James, Dickinson, Poe, Melville, Fitzgerald, Steinbeck, Hemingway, Harper Lee, Salinger, Faulkner, Henry Miller, Bukowski, Lee Masters, Calder, Hopper Pollock, Rothko, Warhol, Lichtenstein, Basquiat, Louis Armstrong, Miles Davis, Elvis Presley, giusto per citarne solo alcuni.
E, naturalmente, la lista potrebbe continuare all’infinito perché ogni Paese del mondo ha sviluppato la sua cultura, la sua arte, la sua musica, la sua scienza, la sua filosofia, ecc. Tutti, nessuno escluso, nemmeno quelli che hanno forme di concettualizzazione differenti dalle nostre come i popoli senza scrittura e che esplicitano il loro sapere attraverso i racconti orali, i canti, le danze, le maschere, le tessiture, le pitture su corteccia, i disegni su terra, ecc. Culture, oggi, pienamente riconosciute come Patrimonio dell’Umanità e poste sotto l’egida dell’Unesco (come quella dei Dogon, degli Aborigeni australiani o degli Indiani d’America), a fianco della Pietà di Michelangelo e della città di Firenze.
Quello che sorprende dell’intervento sfacciatamente eurocentrista di Roberto Vecchioni durante la manifestazione non è tanto che sia stato pronunciato da un personaggio famoso in un luogo pubblico quanto piuttosto che il cantautore vanti una lunga carriera come insegnante di italiano, greco e latino al liceo classico.
Ma costui ha mai letto Hegel, Leopardi o Pirandello? Autori che incarnano i più alti valori del pensiero critico e anticonformista pagandone le conseguenze con censure e persecuzioni, come Cervantes, e persino con la vita, come Socrate.

Non può che suscitare profonda indignazione il fatto che, mentre Trump tenta di aprire i canali diplomatici con Putin e Zelensky, un “intellettuale” salga su un palco di fronte a migliaia di persone (che poi diventano milioni grazie alla cassa di risonanza mediatica) e strumentalizzi la letteratura e la filosofia facendone un’arma ideologica a sostegno del riarmo europeo.
Proprio grazie ai giganti citati da Vecchioni, ci eravamo illusi che la cultura, la musica e l’arte, fossero ponti per unire i popoli al di sopra delle fazioni, che fossero le ultime linee da far saltare in caso di conflitto e le prime a dover essere riaperte per incentivare le mediazioni.
Quello che, invece, ci è toccato ascoltare sono state parole impregnate di suprematismo allo scopo di degradare tutto ciò che è diverso e, di conseguenza, trovare una giustificazione per annientarlo. Se gli Altri non hanno una cultura paragonabile alla nostra, allora sono il nulla e con il nulla non si discute, anzi, diventa legittimo non rispettarlo, colpirlo, raddrizzarlo e colonizzarlo.
Viene da chiedersi dov’era il cantautore milanese quando, in Europa, venivano censurate la “Divina Commedia” di Dante, le opere di Shakespeare, il “Pinocchio” di Collodi e di tanti altri scrittori, accusate di essere piene di contenuti classisti, misogini, omofobi ed islamofobi? Dov’era il professore di liceo quando venivano risicati i finanziamenti all’istruzione italiana e venivano ridotte le ore di letteratura, storia e geografia in favore di educazione stradale, raccolta differenziata, cambiamento climatico ed Eduverso? Quali sarebbero i valori in cui si identifica Vecchioni in questo rigurgito di orgoglio europeista? Forse quelli di Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e Mario Draghi che hanno ridisegnato l’Europa distruggendola attraverso l’Unione Europea?
In effetti, il discorso di Vecchioni ricorda le dichiarazioni aberranti rilasciate da Joseph Borrell il 13 ottobre 2022 durante l’inaugurazione dell’Accademia diplomatica europea a Bruges, in Belgio:
“L’Europa è un giardino. Abbiamo creato questo giardino, tutto in esso funziona. Questa è la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di raggiungere. Il resto del mondo non è un giardino, ma una giungla e la giungla può prendere il giardino con la forza, ma la costruzione di muri non può essere la risposta alla minaccia rappresentata dalla giungla, anche se noi, giardinieri che si occupano del giardino, non possiamo ignorare questo pericolo: dobbiamo andare noi stessi nella giungla”.
In sintesi: noi siamo il Bene, tutti gli altri sono il Male. Noi siamo il giardino, la parte di mondo curata, coltivata, colta, gli altri sono gli incolti, gli incivili, i selvaggi. Noi siamo la civitas, la civiltà, fuori c’è solo la silva, ovvero il silvestre o, meglio, il selvatico.
Gli “altri” sono il resto del mondo, tutti quelli che hanno l’ardire di non condividere il nostro sistema di valori e di voler vivere in base ai propri principi. E ciò è una minaccia, bisogna entrare nella giungla, disboscarla e trapiantarvi i semi del nostro modello di vita. Come dei bravi giardinieri, occorre addomesticare la natura ribelle e sorvegliare che ogni pianta stia al suo posto, essere pronti a potare i rami che crescono troppo e a estirpare le erbacce.
Magari riuscendo a trasformare la terra intera in uno sconfinato giardino, in uno spazio interamente pianificato, controllato, panottico, diradando, una volta per tutte, le ombre della foresta nera dove si nasconde solo caos e irrazionalità.
Come si è fatto con il Colonialismo nella seconda metà del XIX secolo, quando il resto del mondo è stato rappresentato come il luogo di un’umanità corrotta e inferiore e, perciò, idoneo ad essere conquistato e acculturato, come si è fatto con l’Africa, spartita fra le potenze europee. Con l’appoggio dell’antropologia evoluzionistica del tempo che ne ha fornito la giustificazione “scientifica” interpretando le differenze culturali in base a una linea progressiva che andava dal primitivo al civilizzato. I civilizzati siamo, naturalmente, sempre e solo noi.

Loro, gli “Altri”, sono talmente involuti che, quando giungono in Europa le sculture di Ife (attuale Nigeria), gli etnologi si affannano a giustificare cotanta, sublime, raffinata bellezza con improbabili ascendenze etrusche(!). Occorrerà attendere Picasso, Modigliani e gli altri grandi (loro sì!) artisti dei primi del Novecento per vedere riconosciuto il valore delle culture “altre”. Parallelamente, nell’iconografia africana compare per la prima volta il disegno della “chiave”, simbolo del potere europeo di aprire e chiudere gli spazi altrui.
È passato più di un secolo, ma nelle parole dei Borrell, dei Vecchioni e di tanti altri pseudo-intellettuali di regime riecheggia la stessa mentalità di superiorità di allora, la medesima volontà di tenere ben strette nelle mani le chiavi delle porte del mondo. Un’arroganza che, oggi, continua a covare sotto l’ipocrita retorica delle parole progressiste di uguaglianza e tolleranza. Anzi, proprio la presunta difesa delle minoranze è stata la scusa con cui instaurare tutto il sofisticato meccanismo di repressione autoritaria del politicamente corretto.
I cosiddetti “selvaggi” si sono combattuti, uccisi e anche sterminati, ma sempre nel reciproco riconoscimento del valore dell’alterità. Per noi, invece, gli “altri” non sono niente. La nostra idea astratta e universalistica di “umanità” è razzista nella sua essenza, poiché istituisce la categoria opposta di “non umanità”. Non è un progresso morale, ma l’approfondimento del razzismo occidentale che s’incarica di annichilire le differenze estendendo a tutti la logica capitalistica delle equivalenze.

E, infatti, in base agli eventi geopolitici in corso, la categoria dei “non-umani” si estende a nuovi soggetti, anche a quelli che fino a poco prima erano considerati alleati e ad essi, che siano i Russi o i neo-Americani di Trump, viene riservato lo stesso razzismo.
Senza farlo di proposito, Joseph Borrell ha evocato due grandi archetipi dell’antropologia che declinano due modi opposti di concepire il mondo. La foresta è, infatti, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo stato originario di primigeneità immutabile, di crescita autonoma senza modificazioni apportate dall’uomo. È un “assoluto”, l’inabitabile per eccellenza: un luogo che supera ogni misura umana e che non può essere dominato. Il giardino è, invece, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo aspetto più benefico e razionale. È l’emblema di una natura addomesticata, coltivata, progettata per divenire un luogo accogliente, a misura umana. È, infatti, l’immagine del paradiso terrestre creato da Dio e offerto all’uomo come dimora, provvida dispensatrice di frutti e di beni, materiali e spirituali, affinché una vita armonica possa svilupparsi. Dalla stessa radice latina deriva sia domus, casa, sia dominus, dominio.
Giardino e foresta simboleggiano due forme di conoscenza opposte: il giardino è pervaso dalla luminosità solare, apollinea, che dirada le tenebre labirintiche della foresta dionisiaca.

È progettato, infatti, per essere offerto primariamente alla vista che, da lontano, con distacco razionale, può abbracciarne il disegno complessivo. La foresta, invece, può essere conosciuta solo standovi dentro, percorrendola, poiché nessuno sguardo esterno globalizzante è in grado di sintetizzarne la complessità che si dà solo per scorci parziali perpetuamente cangianti ad ogni passo. Richiede la partecipazione intima e fisica alle sue leggi, come fa il selvaggio che la vive dall’interno per ottenerne una memoria e un controllo.
Per le etnie africane il concetto di spazio come vuoto da invadere e riempire non esiste. Lo spazio non è mai un’entità astratta, divisibile in parti equivalenti e misurabili, come è nella nostra tradizione cartesiana, ma è un campo relazionale, topologico, qualitativamente differenziato e non quantitativamente omogeneo.
Così come non esiste una netta scissione fra l’uomo e la natura, esiste solo una distinzione fra natura umanizzata e natura selvaggia dove, all’esigenza della demarcazione, si accompagna sempre anche quella del raccordo: non si tratta di esercitare un dominio sulla natura ma di innescare uno spazio antropizzato al suo interno. La demarcazione non è un confine fisso, non crea una cesura ma un’osmosi porosa. Per i “selvaggi”, che non hanno mai “naturalizzato” la natura, essa è un “altro” reale, vivente, differenziato: è una figura alla pari dello scambio sociale nell’ordine simbolico. E il territorio è sempre uno spazio elastico generato da una dialettica delle differenze.
Giardino e foresta simboleggiano, quindi, due paesaggi a temperatura differente, orientati secondo specifiche coordinate geo-culturali. La nostra civiltà si basa sul pensiero logico-analitico, ovvero su una cultura dedita a coltivare la natura. Il giardino simboleggiava il sogno di portare il Paradiso in terra, un ideale lungamente vagheggiato da un Occidente che, alla fine, tradendo sé stesso, lo ha trasformato in un incubo.
Il giardino ha cominciato ad appassire quando i tarli del pensiero calcolante hanno iniziato a prosciugare la fertile vitalità di ogni contenuto che non fosse riducibile a formule scientifiche. La modernità, col suo grande progetto di addomesticamento totalitario del reale, di rimodellamento uniforme di ogni alterità, di rarefazione di ogni ombra alla luce delle sue ipostasi illuministe, in sintesi, con il suo sogno di trasformare il mondo intero in uno spazio perfettamente controllato, si ritrova, infine, senza più terreno sotto i piedi facendo dello sradicamento e della deterritorializzazione le proprie coordinate di fondo.

E il giardino, accuratamente coltivato da Socrate, Pitagora, Leonardo, ora è infestato dai parassiti di Bruxelles che stanno facendo marcire definitivamente i frutti di tutta la nostra tradizione.
Tecnocrazia, globalizzazione, cancel culture, censura della pluralità, massificazione livellante, abbassamento dell’istruzione, distruzione dell’arte, green, genderismo, transumanesimo, scientismo, metaverso, sono i semi assai velenosi piantati nel nostro terreno dai Borrell e dalle Von der Leyen, i “giardinieri” al soldo dei proprietari del tecno-capitalismo neoliberale, apolide e devastatore.
Il giardino sta appassendo velocemente sotto i nostri occhi: se non lo ripuliamo subito dagli infestatori morirà del tutto.

E mentre Paesi come l’Africa si ribellano e spezzano i ceppi per correre verso il multipolarismo, l’Italia decide di restare dentro la gabbia dell’eurozona dove si sta allestendo la nuova tratta degli schiavi con le catene dell’economia di guerra, del debito infinito, della deindustrializzazione, delle smart cities, delle monete digitali, ecc.
E così non ci saranno più nè la verginità precapitalistica della foresta né l’ordine armonico del giardino ma un’unica monocultura improntata al modello panopticon di uno spazio interamente visibile, senza zone d’ombra e vie di fuga, cioè lo spazio pianificato e controllabile del potere disciplinare e del capitalismo della sorveglianza.
Abbiamo dimenticato che all’origine della nostra luminosa civiltà c’è anche quel luogo di curve e bivii che è il labirinto, l’analogo architettonico della foresta oscura. E se è vero che Teseo uccide il Minotauro segnando la vittoria dell’elemento apollineo su quello dionisiaco, del logos sul mytos, è anche vero che ritrova la luce del sole uscendo dalle tenebre solo grazie al filo tesogli da Arianna, sorella del Minotauro e sposa di Dioniso.
La sapienza greca non ha mai scordato la dialettica feconda delle differenze fra il giardino e la foresta, fra il Sé e il diverso da sè, fra Noi e gli Altri, fra l’Europa e la Russia.
Sarebbe ora di licenziare tutti i giardinieri di Bruxelles, oramai è evidente che non hanno il “pollice verde”.. .