
di Constantin von Hoffmeister per il suo Eurosiberia – Traduzione a cura di Old Hunter
Alain de Benoist non ha scritto manifesti. Ha scritto detonazioni. “Contre tous les racismes” (Contro tutti i razzismi) fu una faglia tracciata sotto i piedi della modernità. Pubblicato nel 1974, il saggio rifiutò di accettare i copioni pre-scritti tramandati dalla moralità del dopoguerra: che si dovesse scegliere tra lo screditato grottesco razzismo biologico e le soffocanti finezze dell’antirazzismo liberale. Scelse una terza via. Una rottura. Una rottura dello specchio in cui l’Occidente si vedeva sia come salvatore che come giudice.
Quello che de Benoist rifiutò fu l’idea che la storia dovesse sempre essere purificata dall’identità per essere morale. In un’epoca in cui l’antirazzismo era diventato una religione civica, completa di sermoni, rituali e scomuniche, fece l’impensabile: ne mise in discussione il fondamento. Non difese i vecchi dogmi razziali, che ripudiò apertamente. Vide che la nuova fede nell’uguaglianza era più insidiosa. Fingeva di opporsi all’odio mentre appiattiva il mondo nella monotonia. Affermò il diritto a essere diversi.
Il suo saggio si dipana come una dichiarazione di guerra intellettuale. De Benoist inizia con un rifiuto preciso: il razzismo biologico è insostenibile, scientificamente assurdo, corrosivo per l’integrità del pensiero e della comunità. Non moralizza; seziona. La sua preoccupazione è la devastazione causata dal riduzionismo, il modo in cui appiattisce la differenza umana in categorie prive di significato, spogliando le persone della loro forma culturale e della profondità storica. Ridurre una persona a un genotipo, un pigmento, una dimensione del cranio è il primo tradimento della condizione umana. Segue un altro tradimento. Si presenta rivestito di virtù, mascherato da benevolenza: la richiesta che tutti diventino intercambiabili.
De Benoist prende un bisturi e taglia sul cadavere della scienza razziale del XIX secolo, senza nemmeno preoccuparsi di ricucirlo. Il razzismo biologico, scrive, è una lingua morta, una tassonomia di fantasmi: forme di crani, linee di sangue, gerarchie immaginarie scolpite nella carne che non hanno mai significato nulla di reale. Non lo piange. Lo supera come un coltello nella nebbia. Non ci sono razze superiori, solo culture con la loro gravità, le loro storie, i loro canti intraducibili. L’umano non è un cromosoma. È un mito, un ricordo, una forma. Quindi sputa fuori le mappe genetiche e si volge verso la mappa sacra della differenza, non per dominare ma per ricordare: siamo ciò che ereditiamo, non nelle ossa ma nel significato.
La razza era un’impalcatura eretta da una cattiva scienza e da una metafisica ancora peggiore, una categoria che pretendeva di spiegare ma che soltanto riduceva. Gobineau e Chamberlain sistemavano le persone come esemplari nei cassetti, scambiando l’ordine per comprensione, scambiando la differenza per valore. Le loro gerarchie ora crollano, artefatti di una visione del mondo che non può parlare delle complessità dell’appartenenza umana. La lente deve spostarsi, lontano dalla biologia, che appiattisce, verso la cultura, che plasma, richiama e dà forma. L’identità non emerge dal sangue, ma dal significato condiviso, dalle strutture in cui viviamo, dalle tradizioni che portiamo avanti, dai modelli che rifiutiamo di abbandonare.
Il mondo liberale diventa il grande omogeneizzatore. De Benoist lo vide chiaramente. In nome della tolleranza, cancella le distinzioni. In nome dell’apertura, dissolve i confini: politici, spirituali, simbolici. La differenza, un tempo vista come fonte di bellezza e tensione, viene rinominata disuguaglianza e presa di mira per la cancellazione. L’obiettivo diventa la neutralità. L’assimilazione sostituisce il rispetto. Le culture sopravvivono come contenuto, spogliate di sostanza.
In questo clima, l’antirazzismo diventa il martello dell’impero del male. Bandiere e soldati non sono più necessari. Mercati e valori svolgono il lavoro. Il nuovo impero del male esige che tutti i popoli parlino la stessa lingua di “diritti” e “sviluppo”. De Benoist lo comprese come un tradimento della pluralità. Ritmi antichi — tribali, nazionali, sacri — vengono riconfezionati per l’esportazione. Il sacro diventa esposizione. L’estero diventa una festa. La cultura perdura nei simulacri.
De Benoist propose l’etnopluralismo come principio. Una visione del mondo composta da comunità radicate. Ogni popolo porta con sé una storia, una forma, un linguaggio dell’essere che non può essere trasposto. Cancellarli in nome dell’universalismo evoca la violenza della conquista. L’etnopluralismo afferma la differenza senza invocare la superiorità. Riconosce la coesistenza in voci distinte. L’armonia emerge attraverso la molteplicità.
De Benoist non si voltò indietro. Stava tracciando linee di difesa. Memoria, continuità e identità nascono dall’eredità piuttosto che dalla selezione. In un mondo affascinato dalla scelta, si è rivolto a ciò che la precede: linguaggio, discendenza, radicamento nella profondità storica. Questi offrono un diverso tipo di dignità. Il sé cresce da un luogo, formato attraverso la trasmissione.
Il saggio si esprime contro due forme di tirannia. Una avviene attraverso l’esclusione e il dominio. L’altra avviene attraverso l’astrazione, professando amore mentre si dissolve ogni forma. Entrambe cancellano il particolare. Entrambe trattano la differenza come una minaccia. De Benoist si è allontanato da quei punti di fuga. Si è rivolto all’appartenenza, alla conservazione della forma e alla fedeltà al luogo.
Le implicazioni vanno oltre la filosofia. Una società che abbandona la differenza si apre all’indifferenza. De Benoist ha identificato il multiculturalismo come un sintomo piuttosto che una cura. Quando tutte le culture si mescolano senza misura, non esprimono più mondi coerenti. Un mosaico ha bisogno di chiarezza, contorno, distinzione. L’identità sostiene la pace attraverso l’orientamento. Un popolo radicato in sé stesso non ha bisogno di soggiogare gli altri.
