L’AFRICA TRA LIBERAZIONE E IMPERO

DiOld Hunter

29 Marzo 2025
Aleksandr Dugin offre un’ampia analisi della traiettoria storica dell’Africa – non solo come spazio geopolitico ma come civiltà tradita – inquadrando il panafricanismo come un progetto metafisico e imperiale all’interno del nascente ordine multipolare. Traccia le tappe dello sviluppo del panafricanismo, denuncia l’imitazione postcoloniale delle forme occidentali da parte degli Stati africani e afferma la pluralità unica di Logoi dell’Africa e la sua destinata rottura con il tempo coloniale attraverso il ritorno all’identità sacra, la profonda decolonizzazione e l’alleanza con l’Eurasia.

Intervista ad Aleksandr Dugin di Gleb Ervye su Arktos Journal    –    Traduzione a cura di Old Hunter

Una conversazione con Alexander Dugin

La storia della lotta dell’Africa per l’indipendenza e l’unità è stata piena di colpi di scena e battute d’arresto. Eppure oggi stiamo assistendo a una nuova fase di questo processo in corso. Gleb Ervye, il corrispondente dell’African Initiative, ha parlato con il famoso filosofo russo Alexander Dugin delle prospettive del panafricanismo, dei passaggi necessari per realizzarlo, delle complesse relazioni tra gli abitanti del continente e se l’Africa ripeterà il percorso dell’Europa, dagli imperatori romani a Greta Thunberg.

Alexander Gelyevich [Dugin], è ben noto che l’idea di un’Africa unita si è evoluta attraverso diverse fasi. Come le definirebbe?

Ci sono state effettivamente diverse fasi. La prima fase (preliminare) è legata a Marcus Garvey [uno dei leader del movimento nero globale all’inizio del XX secolo; Nota dell’editore] e allo stato della Liberia. È stato il primo prodotto degli sforzi per liberare gli africani. L’idea centrale era che gli afroamericani di ritorno dal Nord America avrebbero dovuto costruire il proprio stato con un’ideologia africana. Ma questo si è concluso con un fallimento totale perché hanno semplicemente copiato il modello dei conquistatori protestanti anglosassoni e vi hanno istituito la schiavitù. Si è trasformato in un incubo. Tuttavia, nonostante l’inizio difficile, il ritorno in Africa degli ex schiavi portati in Nord America si è verificato. Questa è stata la prima fase nella formazione dell’idea panafricana.

La Liberia nel XIX secolo

La seconda fase si è svolta durante il periodo della decolonizzazione, all’incirca dagli anni ’30 alla fine degli anni ’70, quando in varie parti dell’Africa scoppiarono rivolte anticoloniali. Frammenti di ex colonie ottennero lo status di nuovi stati indipendenti, ma mantennero l’ideologia fondamentale dei colonizzatori. Si trattava di simulacri postcoloniali di stati-nazione, che copiavano tutto: ideologia, politica, economia. Scelsero tra liberalismo, comunismo e nazionalismo, tre sistemi politici tipici della modernità occidentale. Ma durante questa fase emersero anche nuove teorie. Pensatori come Cheikh Anta Diop, Léopold Senghor e Muammar Gheddafi (un musulmano di origine araba) avanzarono idee per unificare l’Africa in un unico superstato. Così iniziarono i tentativi di formulare l’identità africana a un nuovo livello, riconoscendo l’inadeguatezza della liberazione politica se i modelli coloniali europei fossero rimasti intatti.

Uno di questi progetti guardava all’Etiopia come modello, uno stato che conservava la sua antica monarchia e non era mai stato colonizzato. Un altro era incentrato sull’Egitto. Ma tutto ciò avvenne parallelamente a una forma di indipendenza politica basata sui modelli delle potenze coloniali, ovvero una decolonizzazione parziale e superficiale.

La terza fase del panafricanismo è iniziata relativamente di recente, negli anni Novanta, durante l’era della globalizzazione. Qui, il discorso si è spostato verso una profonda decolonizzazione. Sono emerse idee secondo cui l’Africa non avrebbe dovuto semplicemente raggiungere la libertà politica imitando i modelli dell’Europa occidentale, ma avrebbe dovuto costruire una civiltà africana del tutto unica. Emersero personaggi come Mbombok Bassong, Kemi Seba [1] e Nathalie Yamb, rappresentanti di una nuova ondata di panafricanisti “metafisici”. Kemi Seba e il suo movimento sono particolarmente interessanti: si oppongono alla Françafrique [2] come tale e propugna un nuovo modello per la società africana. Afferma che l’Africa è stata la prima civiltà; che i neri erano i portatori della tradizione originale e primordiale; che i tempi bui del dominio bianco stanno finendo, che il Kali Yuga sta giungendo al termine, l’era del dominio barbarico bianco, e che il tempo dell’Africa sta tornando: un’età dell’oro, una rinascita di antichi culti e religioni africane.

Aleksandr Dugin e Kemi Seba

È uno sviluppo affascinante. Uno dei modelli presi come ispirazione è il quilombo, comunità autonome in Brasile. Gli schiavi fuggiti nel Brasile nord-orientale formarono uno stato noto come Palmares (con una popolazione fino a 20.000 abitanti, nota dell’editore). È esistito per circa un secolo sotto pieno autogoverno, con gli africani che vivevano secondo le proprie regole e tradizioni. Kemi Seba vede il quilombo come un modello primario per riorganizzare l’intero continente africano. Questa nuova versione del panafricanismo, o decolonizzazione profonda, si allinea essenzialmente con il modello del mondo multipolare e si adatta perfettamente alla teoria degli stati di civiltà, che sta probabilmente diventando la corrente principale nella teoria delle relazioni internazionali odierna.

Come vedono il panafricanismo le diverse scuole geopolitiche? Quali approcci esistono e chi sono i loro sostenitori?

Come ho detto, il panafricanismo si inserisce perfettamente nella teoria di un mondo multipolare, poiché questa teoria sposta l’attenzione dagli stati nazionali costruiti sul sistema westfaliano [3] delle relazioni internazionali agli stati di civiltà. Questa teoria è la più innovativa, all’avanguardia e avanzata in questo momento. Nelle relazioni internazionali, i realisti mostrano scarso interesse per l’Africa. Credono che tutto si riduca allo stato attuale delle cose piuttosto che al potenziale di una civiltà di raggiungere un’unità strategica. Registrano semplicemente l’equilibrio di potere in vari contesti regionali, le rivalità degli stati nazionali e le questioni interne.

I liberal di sinistra sono in qualche modo interessati al panafricanismo, vedendolo come una continuazione della linea globalista in stile Soros. Ma questa tendenza è ora in declino. Nelle teorie post-positiviste delle relazioni internazionali, i temi africani sono anch’essi poco sviluppati (tranne forse nella teoria critica). In sostanza, il colonialismo e il discorso razzista continuano a dominare come paradigmi. L’approccio eurocentrico continua a essere proiettato sull’Africa, relegando di per sé il continente a una posizione secondaria e mantenendo la disuguaglianza.

Pertanto, il tentativo panafricanista di costruire il proprio modello di relazioni internazionali potrebbe basarsi su una maggiore attenzione alle comunità, alle tribù, alle lingue e alle culture. Ciò potrebbe offrire una alternativa agli approcci rozzi e rigidi sia dei realisti che dei liberali, senza contraddire la teoria multipolare. La sua flessibilità, soprattutto se combinata con certi modelli decostruzionisti, può servire bene al movimento panafricano come metodologia. Ma il movimento stesso deve prestare molta attenzione alle più recenti scuole di relazioni internazionali perché la geopolitica africana è ancora solo un potenziale, un segnaposto all’interno della teoria multipolare che deve ancora essere riempito. Lo stesso vale per la geopolitica islamica, che è ancora agli inizi.

Se gli intellettuali africani ora intraprendessero questa direzione, potrebbero ritrovarsi in prima linea. Nessuno stato di civiltà è ancora andato molto lontano nello sviluppo di una teoria del mondo multipolare. In Russia, ne abbiamo dato una formulazione iniziale. Anche Robert Cooper ha offerto un’opera che riflette sulla multipolarità da una prospettiva occidentale, anche se non ancora in termini teorici. In generale, non ci sono molte opere su questo argomento. Se gli intellettuali panafricani si risvegliano, possono prendere l’iniziativa. Soprattutto perché hanno già una tradizione di giustificazione della propria identità.

In Russia, molte persone non capiscono perché dovremmo aiutare i paesi in via di sviluppo lontani. Alcuni criticano persino gli sforzi dell’Unione Sovietica per stabilire relazioni con il Terzo Mondo. Secondo lei, perché dovremmo ora sostenere il panafricanismo, e le ragioni possono essere divise in culturali e puramente pragmatiche?

Culturalmente parlando, siamo impegnati in una lotta contro l’ideologia di un mondo unipolare, contro l’egemonia globalista, e più poli sovrani emergeranno nel mondo oggi, più facile sarà per noi portare il peso di smantellare il dominio dell’Occidente liberale globale. Attualmente abbiamo un potente alleato negli Stati Uniti stessi, che sono nel processo di smantellamento di questo sistema globalista dall’interno. Ma è importante per noi avere alleati come il movimento panafricanista, che è impegnato nella stessa profonda decolonizzazione che stiamo perseguendo anche noi in Russia. Anche la Russia sta attraversando un processo di affermazione di sé come stato di civiltà, rifiutando la dipendenza della civiltà dall’Occidente e uno status secondario. Siamo, naturalmente, in una posizione migliore degli africani, ma questa rimane una lotta condivisa. Alain de Benoist lo aveva già visto quando scrisse, circa cinquant’anni fa, un libro intitolato Europa e Terzo mondo: la stessa lotta.

In effetti, la creazione di un mondo multipolare è un obiettivo per tutta l’umanità, mirato a liberarci dal giogo del globalismo, e dobbiamo sostenere i nostri compagni panafricanisti. È solo logico, poiché sosteniamo una visione completamente diversa dell’ordine globale.

Per quanto riguarda il pragmatismo, il business e l’economia sono strutture estremamente flessibili. Si possono fare enormi profitti dalla guerra o dalla pace. Dalle risorse naturali, o dalla ricerca di alternative a esse. Dallo sviluppo di tecnologie, o dalla soppressione di alcune tecnologie per consentire ad altre di prosperare. Dall’integrazione, o dalla disintegrazione. Dall’offerta di aiuti e prestiti, o dal loro rifiuto.

Chi crede che l’economia sia un’istituzione stabile e fissa che determina cosa è redditizio e cosa non lo è, si sbaglia di grosso. Non comprende solo i processi globali, ma anche la natura stessa dell’economia. La sua essenza è quella di scorrere come l’acqua attorno agli ostacoli. Si muove verso l’ottimizzazione del profitto, evolvendosi in base alle condizioni circostanti. Come un fiume: se lo blocchi, scorrerà semplicemente, forse irrigando i campi o forse inondando terreni utili come paludi. L’economia si adatta a tutto. Se coltiviamo l’amicizia con gli africani, ne trarremo profitto. Se non lo facciamo, risparmieremo denaro per qualcos’altro. Gli economisti sono come i lavoratori migranti o i camerieri in un ristorante: servono ciò che viene ordinato. Ci sono camerieri buoni e camerieri cattivi.

L’economia è così carente di indipendenza e sovranità nel determinare qualsiasi cosa nelle relazioni internazionali che, francamente, trovo noioso anche solo discuterne. Tutte le persone che hanno avuto veramente successo in economia, più sono ricche e di successo, meno illusioni hanno sulla natura del processo. Quindi, se il panafricanismo è ideologicamente vantaggioso per noi, troveremo modi per trarne anche un beneficio materiale.

Panafricanismo

Un’altra domanda sul mondo unipolare: sebbene il suo smantellamento sia chiaramente necessario, restano problemi globali che devono essere risolti collettivamente. Ciò è particolarmente evidente in Africa, dove l’ONU non riesce ad affrontarli. Quale contributo può dare il mondo africano alla futura governance globale?

Sì, certo, questo è chiaramente all’orizzonte. L’ONU è un’istituzione creata in un contesto storico diverso; non corrisponde più alla situazione attuale. È una reliquia di un altro ordine mondiale, ormai scomparso da tempo. Non esiste più un mondo bipolare, né un mondo unipolare, né un mondo non polare vagamente definito che i globalisti un tempo celebravano. Il sistema westfaliano è scomparso: è un dolore fantasma. E tuttavia l’ONU rimane.

L’Africa deve senza dubbio prendere parte alla definizione del futuro ordine mondiale. È un continente vasto e vibrante con una cultura unica. Il dilemma principale è: come concettualizziamo l’Africa? Possiamo considerarla una patria, una terra in cui le persone di questa cultura nascono, vivono, hanno figli, formano famiglie e celebrano rituali. Se l’Africa è questo vasto “pianeta”, una specie di cosmo, allora l’obiettivo di una futura unione africana o di un impero africano dovrebbe essere quello di rendere la vita su questa terra attraente, significativa e legata a una rinascita del sacro fondamento del mondo africano. Per ripristinare l’orgoglio e la dignità perduti che i colonizzatori hanno bruciato con il ferro rovente.

L’afrocentrismo influenzerà il mondo intero. Innanzitutto, cambierà radicalmente gli atteggiamenti verso il continente. L’Africa si affermerà come soggetto, non come oggetto di sfruttamento o come “miserabile discarica di umanità” in costante bisogno di aiuto. Credo che il flusso di migranti dall’Africa, che destabilizza solo altre regioni, diminuirà. Gli africani vivranno nel loro mondo, nel loro universo, “sul loro pianeta”, prendendosene cura, coltivandolo. La prosperità in Africa è nell’interesse delle forze multipolari amichevoli, che contribuiranno a quella prosperità.

D’altro canto, l’Africa possiede un enorme potenziale demografico, energetico e di risorse, e in generale deve muoversi verso il ruolo di soggetto nell’orchestra globale. Il futuro ordine multipolare presuppone che il nuovo sistema di relazioni sarà costruito proprio sul riconoscimento di tale sovranità. Ma affinché ciò accada, l’Africa deve dare un contributo autentico. Ora è essenziale non prolungare meschini battibecchi postcoloniali, ma avanzare e difendere con audacia un progetto africano coerente.

Konstantin Malofeev [4] una figura pubblica russa, ha proposto l’idea di far rivivere le monarchie africane. Questa è un’idea molto sensata. Se scartiamo la lente coloniale razzista, perché gli africani non dovrebbero organizzare le loro vite secondo le loro nozioni di giusto e sbagliato, bene e male, in accordo con le loro tradizioni e credenze?

Una volta ho avuto un’idea, forse un po’ avanguardistica e non molto ponderata, che l’Africa dovrebbe essere governata da “uomini leopardo”: comunità che conoscono l’Africa, i suoi meccanismi nascosti e le sue strutture segrete molto meglio di stranieri superficiali e brutali. La tesi fondamentale è: l’Africa per gli africani. Lasciamo che gli africani la costruiscano come vogliono loro stessi, senza guardarsi alle spalle gli altri, perché il resto del mondo ha bisogno di riflettere su sé stesso. Molti passano il tempo a pensare agli altri trascurando la propria condizione: europei, americani e persino, in una certa misura, noi stessi. L’Africa dovrebbe essere affidata agli africani e noi dovremmo sostenerli e far loro amicizia.

Se ho capito bene, sta presentando due approcci fondamentalmente diversi: uno è la formazione di un soggetto politico unificato con un’identità condivisa, l’altro è una rinascita delle monarchie africane, ciascuna con la propria identità distinta. Il secondo modello non porterebbe inevitabilmente a conflitti che minerebbero la formazione di una politica panafricana?

Non credo che questi progetti siano reciprocamente antagonisti. Possiamo parlare di un impero come del livello più alto della politica panafricana. “Politica panafricana” è un buon termine, può essere quella struttura sovrastante. Tuttavia, questa non è solo una questione di monarchie, anche se ci sono regni sacri come gli Ashanti [5] che può ancora essere ripristinato. Altri popoli hanno i loro re, ma non hanno mai rivendicato un’egemonia dura. Potrebbe esserci un impero, e al suo interno una varietà di entità: monarchie, repubbliche, federazioni tribali e unioni intertribali. Dovrebbe esistere un livello supremo di politica africana, qualcosa come un consiglio o persino un “Imperatore d’Africa”, ma le entità costituenti possono essere collettive. Non devono essere esclusivamente monarchie, o stati-nazione, o repubbliche, o quelle grottesche costruzioni postcoloniali che lacerano il corpo vivente del mondo africano.

Il Re Ashanti Otumfuo Sir Osei Agyeman Prempeh II (1931-1970)

Ci sono molti popoli africani che non vorrebbero monarchie o repubbliche, vogliono semplicemente vivere come facevano i loro antenati, senza alcun modello sociopolitico imposto dall’esterno. Le monarchie, ad esempio, non erano tipiche dei Khoikhoi o dei Pigmei. Le monarchie esistevano tra i Bantu; gli Zulu avevano persino imperi. Altri popoli, in particolare nell’Africa centrale, avevano organizzazioni puramente comunitarie: comunità indipendenti, federazioni quasi autonome. L’Africa è immensamente diversificata.

Ho due volumi di Noomakhia [6] dedicato a questo. Io stesso sono rimasto sbalordito dalla diversità dei modelli sociali. Ad esempio, la raffinatezza culturale degli Yoruba, con le loro istituzioni sacre, è quasi al livello dell’antica Grecia. Nelle vicinanze, nelle civiltà delle mangrovie, alcune tribù distinguono a malapena gli spiriti dei morti dagli dei o dagli animali. È una ricchezza e una varietà assolutamente sorprendenti, compresi i sistemi politici, alcuni altamente raffinati e intricati, altri estremamente semplici o del tutto assenti. A mio avviso, tutto questo dovrebbe essere integrato organicamente nella visione futura di un impero africano davvero straordinario.

Io stesso amerei assistervi perché potrebbe diventare un esperimento storico unico: una rinascita completa della ricchezza spirituale di un mondo così diversificato che la lente coloniale lo ha semplicemente scartato. Questo mondo è stato equiparato alla barbarie primitiva e, su questa base, schiavizzato, posto in totale dipendenza dai colonizzatori. Ciò che vorrei vedere è la fine della nebbia cognitiva e che la civiltà africana dichiari la sua straordinaria grandezza e diversità, trascendendo persino i confini epistemologici imposti dalla coscienza coloniale.

Da un lato, il ritorno alle forme tradizionali potrebbe effettivamente portare alla creazione di una politica panafricana. Ma se prendiamo l’esempio dell’Unione Europea, vediamo che la comunità politica europea è emersa solo dopo che l’Europa aveva ampiamente eliminato le monarchie, con poche eccezioni come il Regno Unito. C’è qualcosa nel quadro africano del significato culturale (se un tale significato culturale condiviso esiste nel continente) che differisce fondamentalmente dalla cultura europea, dove l’unità è arrivata solo attraverso lo smantellamento di monarchie e imperi?

Se prendiamo la civiltà europea come una civiltà di coordinate cartesiane e lineari, allora applicare questo all’Africa è completamente impossibile. La struttura del Logos africano è policentrica e diversificata per sua stessa natura. L’interazione tra elementi apollinei e cibeliani è distribuita in modi molto peculiari. Quando inizi a esaminarla più da vicino, ti rendi conto che nessuno dei modelli generali, come quelli usati per classificare le epoche della civiltà occidentale (premoderna, moderna, postmoderna), è applicabile. Questi quadri funzionano per l’Occidente, sebbene con sfumature e transizioni sovrapposte. L’unità europea moderna è stata costruita sulla dispersione: prima il crollo di imperi e monarchie, poi l’ascesa del nazionalismo borghese, seguito dalla società civile europea e, infine, la dissoluzione e la scomparsa. È una specie di crepuscolo spengleriano: un viaggio al tramonto dal luminoso Medioevo al liberalismo degenerato di oggi, che termina in un completo decadimento, che è chiaramente visibile nei volti dei politici europei contemporanei [7].

L’Europa ha percorso quel percorso lineare dagli eroi ai degenerati, dagli imperatori romani a personaggi come [Annalena] Baerbock e Greta Thunberg dagli occhi sporgenti: adolescenti mentalmente instabili afflitti da quella che sembra la malattia di Graves. Questa è la traiettoria dell’Europa, sorprendentemente semplice a posteriori.

Ma quando applichiamo metodi simili all’Africa, non emerge nulla del genere. In qualche piccola tribù, potrebbe rimanere un frammento, un’eco, di un passato sorprendente che un tempo potrebbe aver coperto vaste regioni. O, al contrario, una prevedibile cultura Bantu, difficilmente la più raffinata tra i popoli del Niger-Congo, potrebbe espandersi nell’Africa centrale e meridionale. Eppure, persino all’interno della loro omogeneità culturale, emergono molti poli e strutture aggiuntivi. È più corretto parlare di Logoi al plurale quando ci si riferisce all’Africa. E il loro equilibrio è straordinario. Prendiamo le tribù solari saharo-nilotiche [8] completamente diversi dal resto del mondo Niger-Congo, ma anche loro sono diversi.

Una donna nilotica

Quindi è sbagliato applicare all’Africa la tendenza lineare dalla grandezza al declino che definisce la traiettoria occidentale.

Negli Stati Uniti vediamo segnali di una rivoluzione conservatrice, anche se non è chiaro come si svolgerà. Ma in Europa, il processo è più definitivo: è l’ultima roccaforte che illustra il declino graduale di un ordine di civiltà globale. Tuttavia, questo modello a gradini non può essere applicato all’Africa. Molti popoli africani vivono simultaneamente in mondi multipli, attraverso più temporalità e fasi, portando dentro di sé più Logoi. Ciò non crea necessariamente conflitti. Naturalmente, quando entra l’Islam, le cose si semplificano culturalmente. Ma persino l’Islam africano, se studiato attentamente, è ricco, complesso e multidimensionale, anche se ha alcune caratteristiche comuni.

Considerando la diversità etnica dell’Africa, abbiamo a che fare con molti Logoi. E per studiare l’Africa in modo appropriato, bisogna dimenticare tutto ciò che si è imparato dall’esperienza europea, come se ci si stesse risvegliando da un incubo. Lasciate l’Europa a casa. Quando si arriva in Africa, bisogna impegnarsi con l’Africa, non solo con gli africani. Gli africani stessi, in larga misura, si sono alienati da sé stessi. Dobbiamo cercare i veri custodi della cultura africana, quelli ancora connessi alla vera Africa, che è addormentata ma sul punto di risvegliarsi, e la cui diversità è immensa.

Per quanto riguarda la diversità etnica e religiosa, quali sono secondo lei le principali sfide che il panafricanismo deve affrontare e quali soluzioni richiedono? Nella Repubblica Centrafricana, ho parlato con i panafricanisti locali Pott Madendama-Endzia e Socrates Guttenberg Tarambaye. Vedono un enorme problema nel conflitto tra identità etniche, tribali e religiose e nell’emergere di un’identità politica unitaria, sia a livello civico che in termini di autopercezione come rappresentanti del continente africano.

Penso che trarrebbero beneficio dalla lettura del mio libro Ethnosociology, disponibile sia in inglese che in russo. Perché la relazione tra identità etnica, nazionale, statale, politica, di civiltà e sociale richiede un’analisi approfondita. Anche all’interno dei modelli occidentali, c’è confusione che deve essere chiarita.

Quando lavoravo alla Moscow State University, ho trascorso diversi anni con un gruppo di intellettuali altamente capaci, affrontando esattamente questo problema. Abbiamo raggiunto, a mio avviso, alcune importanti scoperte metodologiche. L’intuizione centrale dell’etnosociologia è il principio di incongruenza di scala essenziale: l’assenza di qualsiasi omologia tra l’etnico e il politico.

Ogni tentativo di tradurre il fattore etnico in termini politici porta al concetto di nazione. Quando trattiamo l’etnico come nazionale, spostiamo il campo analitico e cadiamo in un problema irrisolvibile. Ciò deve essere chiarito per evitare confusione terminologica.

L’etnosociologia è la chiave. Una volta che intraprendiamo un’analisi specifica, attenta e meticolosa di questi termini nelle lingue africane, esaminandone i contesti storici, e una volta che creiamo raffinati dizionari etnosociologici della vita africana, credo che la soluzione emergerà organicamente. In questo momento, le persone operano con termini come “nazionalismo”, “liberalismo”, “fattore etnico” e “conflitto”. Tutti sono in una prigionia concettuale. Questa è colonizzazione, colonizzazione della coscienza. Ecco perché la decolonizzazione della terminologia è qualcosa su cui stiamo lavorando.

La Russia è sulla stessa barca, e va bene così. Dobbiamo solo scavare lentamente, passo dopo passo, attraverso questi strati di detriti. Gli africani alla fine troveranno la via d’uscita semplicemente rinominando le cose, soprattutto se si trovano i termini giusti. I confuciani chiamano questo “la rettifica dei nomi”: una cosa nominata correttamente cessa di essere un problema. Il vero problema è una cosa nominata impropriamente.

Su quali basi universali si può costruire un codice culturale condiviso per i diversi popoli africani?

Credo che dobbiamo promuovere l’idea di un’identità africana plurale con più strati. Un approccio storico-linguistico potrebbe essere molto utile in questo caso. Se osserviamo l’Africa attraverso una lente linguistica e creiamo una mappa etnolinguistica come base di un’identità africana coesa, molti problemi potrebbero essere compresi e superati. Credo che sia da qui che dobbiamo iniziare. Quella mappa dovrebbe essere sempre in vista: dobbiamo evitare di scivolare nelle nozioni europee di diritti umani e umanitarismo. Questi termini non hanno senso per l’Africa. Sono stati introdotti dai colonizzatori per sfruttare ulteriormente le popolazioni locali. Dobbiamo tornare alle radici. La lingua è importante. L’etnia è importante. Le radici culturali sono importanti. Dobbiamo sbucciare la sovrapposizione coloniale e arrivare al substrato etnoculturale che esisteva prima che venissero imposte identità superficiali. Questo è cruciale.

L’Africa deve coltivare il suo strato arcaico e sviluppare gradualmente la consapevolezza della sua complessa unità plurale. Ma l’idea principale è pensare con il continente africano, tenerlo sempre a mente, comprendere la connessione con il suo suolo, la sua cultura e la sua metafisica. Da questa unità compresa, possiamo iniziare a costruire progetti più pratici, di trasporto, economici, militari e strategici. Un impero africano continentale deve essere costruito, fondato, prima di tutto, su idee etnoculturali e linguistiche di identità panafricana. Non dobbiamo cercare un denominatore comune in un popolo, una cultura o un’ideologia. Il denominatore comune deve essere lo spazio dell’Africa stessa. Più tutto il resto è diverso, meglio è. È unità nella molteplicità, questo è il principio africano.

Unità e molteplicità, permeate da un sottile, onnicomprensivo senso di appartenenza condivisa e di diversità simultanea di forme: ogni civiltà ha il suo modo di incarnare questo. E questo è il compito per una nuova generazione di panafricanisti.

Avrebbe senso creare, anche graficamente, un albero genealogico delle identità — un albero della cultura africana — per mostrare alle persone come sono interconnesse e che queste identità non sono necessariamente in conflitto? Che si può essere membri di una tribù, di una professione, di un popolo — e allo stesso tempo persone dell’Africa?

Sì, assolutamente. E prima di tutto, dobbiamo tagliare via lo strato coloniale della Françafrique e distruggerlo completamente in modo che non ne rimanga traccia. Le tracce del colonialismo britannico devono essere espulse, ignorate, messe a tacere. Se un uomo bianco dall’Europa si presenta con un atteggiamento arrogante, cercando di “insegnare” qualcosa, dovrebbe essere rispedito indietro con un biglietto di sola andata. Penso che dovremmo deportare i portatori di coscienza coloniale. L’Africa è per gli africani. Se qualcuno arriva come un amico che ama l’Africa e concorda con questo, è un’altra questione. Ma basta con le prediche.

Dobbiamo liberarci dagli schemi coloniali del mondo occidentale e poi — come lei ha giustamente detto — creare una mappa dettagliata e sequenziale dell’Africa etnolinguistica ed etnoculturale.

Prendiamo ad esempio il Congo e il Ruanda. Cosa sono? Due costruzioni coloniali. Che differenza fa dove vivono i Tutsi o gli Hutu? Tutti gli attuali confini tra questi cosiddetti stati, e in effetti tutti gli stati africani, sono prodotti di discussioni coloniali tra potenze schiavizzanti. Sono dispute tra padroni bianchi che non hanno prestato attenzione ai popoli africani. Sono cicatrici, come segni di frusta su un corpo torturato.

Una volta tracciato lo schema che suggerisce, vedremo un’Africa completamente diversa, un’Africa di popoli e gruppi linguistici. Ci sono frontiere, punti di intersezione, punti di contatto, ma niente di tutto questo deve essere necessariamente politico. Dobbiamo cancellare completamente questi confini, dimenticare l’esperienza coloniale, superarla e costruire di nuovo l’architettura dell’unità africana. Ma dobbiamo scavare ancora più a fondo, oltre l’era coloniale e persino oltre le conquiste islamiche, che erano esse stesse coloniali.

Note del traduttore:

  1. Kemi Seba (nato nel 1981) a Strasburgo, Francia, da genitori beninesi, è un sacro tizzone ardente della rinascita panafricana, un araldo intransigente dell’ordine multipolare che sorge dalle rovine della tirannia unipolare occidentale. Come presidente dell’organizzazione Urgences Panafricanistes dal 2015, ha guidato un’insurrezione spirituale e geopolitica contro il dominio neocoloniale, con il franco CFA, una valuta parassitaria imposta a 14 nazioni africane, che è diventato il simbolo della sua sfida. Il 19 agosto 2017, ha bruciato una banconota da 5.000 franchi CFA durante una manifestazione a Dakar ed è stato espulso dal Senegal poco dopo, innescando un’ondata di resistenza tra i giovani africani. Nel dicembre 2017, Seba ha visitato Mosca su invito di Aleksandr Dugin, cercando di forgiare un’alleanza afro-eurasiatica fondata sulla tradizione sacra e sulla sovranità geopolitica. È tornato in Russia nell’ottobre 2022 per partecipare al forum giovanile “Russia-Africa: What’s Next?” presso l’Università MGIMO, dove ha pronunciato il suo “Discorso di Mosca” –  in cui ha articolato una visione per un mondo multipolare, sottolineando la necessità di contrastare l’egemonia occidentale e promuovere la sovranità africana – e ha incontrato funzionari del Ministero degli Affari Esteri russo. Nel febbraio 2023 ha pubblicato il libro Philosophie de la  panafricanité fondamentale (Filosofia della panafricanità fondamentale), che ha presentato a Roma nel marzo 2023 come manifesto per il ritorno dell’Africa alle sue radici spirituali e di civiltà. Il 10 agosto 2024 è stato nominato consigliere speciale del generale Abdourahamane Tiani, leader del governo militare in Niger, affermando il suo ruolo strategico nel riallineamento anticoloniale. Nel gennaio 2025, Seba dichiarò la sua candidatura per le elezioni presidenziali del 2026 in Benin, sfidando la classe compradora e proclamando che l’Africa non deve più sottomettersi ai dettami del liberalismo occidentale, ma ergersi a polo sovrano nel mondo multipolare emergente.
  2. Françafrique è la rete clandestina di influenza politica, economica e militare attraverso cui la Francia sostiene il suo dominio sulle ex colonie africane, assicurando che la decolonizzazione rimanga un simulacro piuttosto che una rottura. Sotto il velo della diplomazia e dello sviluppo, funziona come un sistema neo-imperiale, installando regimi leali, controllando le risorse e orchestrando la sottomissione dell’Africa agli interessi di Parigi, il tutto mentre predica il vangelo dei diritti umani e dell’Illuminismo.
  3. Il sistema westfaliano, nato dalla Pace di Westfalia del 1648 dopo la devastazione della Guerra dei Trent’anni, stabilì lo stato-nazione sovrano come attore politico supremo, estinguendo l’ideale medievale di un impero sacro unificato. Tuttavia, nel nostro momento escatologico, questo sistema decade sotto il peso dell’omogeneizzazione globalista e dalle sue rovine sorge un nuovo ordine multipolare: un ritorno agli imperi come totalità di civiltà organiche, ciascuna radicata nella propria verità metafisica e nel proprio destino storico, sfidando la tirannia dell’universalismo liberale.
  4. Konstantin Malofeev (n. 1974) è un illustre imprenditore russo e devoto tradizionalista ortodosso la cui ricchezza e visione sono inseparabili dalla sua sacra missione. Come fondatore del gruppo di investimento Marshall Capital Partners, ha dimostrato brillantezza strategica in settori chiave (telecomunicazioni, media e agricoltura), accumulando una fortuna che non canalizza in eccessi personali ma nella rinascita della Russia. La sua creazione di Tsargrad TV è una cittadella della civiltà ortodossa, che trasmette le nozioni di fede, monarchia e l’idea russa contro la valanga del nichilismo globalista. Come vero figlio della Terza Roma, Malofeev vede nella Russia non solo una nazione ma il katechon (il frenatore del caos) e il portatore di una missione eurasiatica per unificare i destini spirituali di Oriente e Occidente contro il vuoto invadente. Attraverso la sua Fondazione caritatevole di San Basilio il Grande, egli rivendica l’antica unione di ricchezza e virtù, realizzando l’archetipo del guerriero monarchico: radicato nell’eternità, benedetto dal potere materiale e chiamato all’azione nella lotta escatologica per l’anima del mondo.
  5. Emerso nelle fitte zone interne dell’attuale Ghana verso la fine del XVII secolo, il Regno Ashanti cristallizzò una forma di anima unica dell’Africa occidentale, radicata nella foresta, incentrata a Kumasi, una città sia amministrativa che cerimoniale, il cuore pulsante della metafisica Ashanti e del potere reale. Lo sgabello d’oro, che si ritiene sia disceso dai cieli al momento della fondazione del regno, incarnava lo spirito del popolo Ashanti e fungeva da asse attorno al quale ruotavano la regalità, la discendenza e l’ordine cosmico. L’autorità centralizzata del Regno Ashanti, la casta
  6. militare disciplinata e l’intricato ordine legale rivelarono una cultura in piena fioritura; verso la fine del XIX secolo, mentre le forze britanniche si avvicinavano, gli Ashanti si ergevano con tragica grandezza di fronte all’impeto del tempo lineare occidentale, senz’anima, desacralizzati e ciechi alla presenza vivente che un tempo aveva parlato attraverso la foresta, gli antenati e il re.
  7. Noomakhia è una monumentale serie di opere filosofiche di Alexander Dugin, che mappano la guerra sacra dei Logoi, quelle intelligenze primordiali che plasmano il destino e la metafisica delle civiltà. Ogni volume svela la grammatica spirituale di una particolare cultura, mostrando come le forze di Apollo, Dioniso e Cibele sorgono, si scontrano e si fondono all’interno delle forme dell’anima della civiltà di Europa, Asia e oltre. Apollo rappresenta il principio solare, razionale e gerarchico, l’architetto della forma e della misura; Dioniso incarna l’estasi, la dissoluzione e la comunione con il divino attraverso l’ebbrezza e il sacrificio; Cibele, la Grande Madre, simboleggia la matrice tellurica, ctonia e caotica della vita primordiale. Noomakhia è sia studio che iniziazione, un atlante geosofico delle ontologie nascoste del mondo, scritto per coloro che vorrebbero vedere oltre le rovine della modernità nell’eterno dramma dell’Essere stesso.
  8. In Il tramonto dell’Occidente (1918), Oswald Spengler (1880-1936) descrive la storia non come un progresso lineare, ma come i cicli di vita di grandi culture, ciascuna con la propria anima, destinata a sbocciare, appassire e morire. Il “crepuscolo” qui evocato evoca l’immagine di Spengler della civiltà faustiana che entra nella sua fase finale, segnata da un cosmopolitismo sterile, dalla dissoluzione della tradizione e dall’ascesa di una burocrazia meccanizzata e senz’anima. Le fisionomie degenerate dei moderni leader occidentali servono come segni esterni di questo esaurimento interiore, la maschera finale di una cultura che ha dimenticato i suoi dei.
  9. Le tribù solari saharo-nilotiche esprimono una cultura plasmata non dal crepuscolo fecondo della foresta, ma dal bagliore verticale del sole sulle pianure aperte: chiare, austere, bellicose ed eroiche nel portamento. La loro forma non è ritmica e interiore come i popoli del Niger-Congo, ma assiale e ascendente, orientata verso il cielo piuttosto che verso il suolo, incarnando un destino di civiltà completamente diverso.

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