
di Elijah Magnier per ejmagnier.com del 16 maggio — Traduzione a cura di Old Hunter
Nelle ultime 24 ore, l’esercito israeliano ha ucciso 115 palestinesi a Gaza e, prima del mattino successivo, ne sono caduti altri 100. Non si tratta di un’improvvisa esplosione. È una campagna calcolata e prolungata per schiacciare la resistenza e preparare il terreno a uno sfollamento di massa non appena il clima politico lo consentirà. Ciò a cui stiamo assistendo non è antiterrorismo, è pulizia etnica, celata dietro la retorica della sicurezza nazionale.
L’incessante spargimento di sangue ha intorpidito la reazione globale. Ciò che dovrebbe scatenare l’indignazione ora passa inosservato: un titolo fugace, subito sepolto. L’uccisione sistematica dei palestinesi è stata normalizzata, come se le morti di massa fossero solo un’altra caratteristica della vita quotidiana a Gaza. Questa desensibilizzazione non è casuale; è strategica. Disumanizzare le vittime, smorzare l’attenzione internazionale e procedere impunemente.
Il governo israeliano parla di “un giorno difficile a Gaza” quando un singolo soldato viene ucciso – un’oscena distorsione della realtà, poiché decine di civili palestinesi, compresi bambini, vengono quotidianamente massacrati senza riconoscimento, rimorso o moderazione. Per oltre due mesi, Gaza è stata sottoposta a un assedio totale: cibo, acqua, elettricità e medicine sono stati negati. Questa non è una svista; è una politica calcolata. Alti funzionari israeliani hanno pubblicamente disumanizzato i palestinesi, dichiarandoli “non umani” e insistendo sul fatto che “non ci sono innocenti” a Gaza. Questa non è guerra. È lo smantellamento sistematico di un popolo, giustificato con il linguaggio della sicurezza.
Per la resistenza palestinese, la resa è inconcepibile. La logica è brutale ma chiara: ogni giorno porta nuove uccisioni, case demolite e sepolture di massa. Cedere non fermerebbe lo spargimento di sangue, ma lo convaliderebbe. Di fronte a una violenza così prolungata, la ribellione diventa una forma di sopravvivenza. Se il prezzo della capitolazione è la cancellazione, allora la resistenza, per quanto mortale, è vista come l’unica via dignitosa rimasta.
Questa cupa logica plasma le scelte sia dei combattenti che dei civili: la resa non offre sicurezza, solo sottomissione. Ai loro occhi, l’esercito israeliano ha perso da tempo ogni prestigio morale a causa del bombardamento indiscriminato di case, scuole e rifugi. Gaza, che ospita oltre due milioni di persone, è diventata una prigione a cielo aperto, martellata quotidianamente da aria, terra e mare. Per molti, morire dignitosamente difendendo la propria casa è meno terrificante che vivere sotto assedio permanente o fuggire in un esilio forzato.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ora in gran parte isolato sulla scena mondiale, sembra scommettere vite civili per prolungare la sua carriera politica – una realtà che non è più sconvolgente per i leader internazionali né per la stessa società israeliana. L’esercito israeliano, tra i più tecnologicamente avanzati al mondo, sta agendo senza freni etici, scatenando una distruzione di proporzioni raramente viste nella storia recente. Il bilancio non è collaterale, è calcolato. Famiglie vengono cacciate dalle loro case, ospedali costretti a chiudere e gruppi di resistenza spinti in angoli morali impossibili.
Il dissenso sta crescendo tra i ranghi più alti dell’esercito israeliano. I comandanti di grado superiore dubitano sempre più che gli obiettivi dichiarati dal governo – eliminare Hamas, liberare gli ostaggi o raggiungere una sicurezza a lungo termine – siano raggiungibili solo con la forza. Questi obiettivi sono vaghi nella migliore delle ipotesi, in continua evoluzione nella peggiore. Ciò che emerge sul campo non è una strategia coerente, ma una campagna segnata da confusione e contraddizioni.
Eppure, Netanyahu continua a insistere, non per convinzione nell’efficacia della guerra, ma per paura di ciò che la pace porterebbe: controllo, responsabilità e collasso politico. I suoi critici lo accusano di sacrificare non solo vite palestinesi, ma anche soldati e ostaggi israeliani, per alimentare un conflitto che non serve ad alcun interesse nazionale, ma solo alla sua sopravvivenza.
Netanyahu ha già iniziato a scaricare la colpa su ex leader militari e a indebolire silenziosamente il suo stesso apparato di sicurezza. Questo capro espiatorio rivela una crisi più profonda all’interno della leadership israeliana: un’erosione di responsabilità, mascherata dal linguaggio del nazionalismo e della forza.
La vera ragione dell’intransigenza di Netanyahu non è la sicurezza nazionale, ma la sopravvivenza politica. La sua fragile coalizione dipende dal sostegno di figure di estrema destra come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, le cui ideologie ruotano attorno alla supremazia religiosa e all’espansione territoriale. Qualsiasi passo verso la de-escalation potrebbe incrinare quell’alleanza, costandogli la maggioranza parlamentare. Le conseguenze sarebbero rapide: il collasso del governo, nuove indagini sulla corruzione e la probabile fine della sua vita politica.
Netanyahu è alle strette. Questa guerra non riguarda più la sicurezza di Israele, ma la sua stessa sopravvivenza, ed è disposto a lasciare che il Paese bruci pur di evitare la resa dei conti politica.
Netanyahu è consumato dalle eredità. Aspira a eclissare David Ben-Gurion, il Primo Ministro fondatore di Israele, in termini di statura storica. Ben-Gurion ha forgiato uno Stato dal conflitto e rimane un’icona nazionale. Netanyahu, sebbene sia già il Primo Ministro più longevo, non sta costruendo un’eredità di forza o unità: sta presiedendo una nazione frammentata e in caduta libera morale e politica.
Invece di portare pace o stabilità, la leadership di Netanyahu ha aggravato le fratture interne, intensificato la violenza e allontanato alleati chiave. La storia potrebbe ricordarlo non come un padre fondatore, ma come l’artefice del disfacimento morale e politico di Israele.
Il netto rifiuto di Netanyahu di negoziare è diventato un ostacolo importante alla risoluzione. Ha respinto le proposte sostenute dagli Stati Uniti che avrebbero potuto garantire il rilascio degli ostaggi, tra cui Edan Alexander, cittadino statunitense e israeliano con doppia cittadinanza. Questo caso, che un tempo rappresentava un’opportunità di progresso diplomatico, è stato abbandonato a favore del proseguimento della guerra, spingendo l’intervento americano diretto per garantire la libertà di Alexander. Netanyahu ha chiarito: qualsiasi cessate il fuoco sarà temporaneo e la guerra riprenderà a prescindere dalle condizioni. Il suo atteggiamento provocatorio ha portato il presidente Donald Trump a ignorare completamente Israele durante le sue recenti visite in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti: un rimprovero silenzioso ma deciso.
Gli Stati Uniti hanno mantenuto un silenzio deliberato mentre le atrocità si moltiplicavano. Durante il suo recente tour in Medio Oriente, il presidente Donald Trump ha accuratamente evitato di indicare Israele come responsabile della devastazione. Si è invece affidato a una retorica soft su “pace” e “ricostruzione di Gaza”, eludendo qualsiasi riferimento allo Stato responsabile della sua distruzione. Il suo linguaggio – svuotato di ogni responsabilità e plasmato dalle realtà politiche interne – riflette una più ampia politica di negazione strategica. È una performance diplomatica che maschera la complicità e permette all’impunità di prosperare sotto la maschera della preoccupazione.
Questa calcolata ambiguità rivela una falla più profonda nella diplomazia occidentale: il rifiuto di chiamare Israele a rispondere delle proprie azioni. Si promettono aiuti umanitari, si esprimono condoglianze, ma non si riesce a trovare una pressione significativa. Finché gli alleati chiave distoglieranno lo sguardo, Israele non avrà motivo di cambiare rotta, e avrà invece ogni motivo per continuare senza controllo.
Il costo umano e la strada da percorrere
Dietro ogni statistica si nasconde una famiglia distrutta, una casa distrutta, un bambino sepolto tra le macerie. Gli ospedali di Gaza sono al collasso, le infrastrutture si stanno disintegrando e la popolazione sta subendo traumi indescrivibili. Le agenzie umanitarie ora avvertono che la Striscia è sull’orlo del collasso sociale totale. Eppure, per alcuni membri della leadership israeliana, questo collasso non è una crisi, è una tattica. Più Gaza diventa invivibile, più è probabile che i palestinesi la abbandonino, se non ora, presto.
Ma questa logica travisa profondamente la realtà palestinese. Intere generazioni sono cresciute sotto assedio e occupazione, plasmate dalle difficoltà ma ancorate alla terra. La loro identità è inscindibile da essa e la loro determinazione – segnata ma intatta – è radicata nella memoria, nella storia e nel senso di appartenenza. Nessun bombardamento potrà mai cancellare tutto questo.
Mentre la comunità internazionale discute risoluzioni e termini di cessate il fuoco, il tempo scorre. Senza un deciso cambiamento di politica – sia da parte di Israele che dei governi che lo proteggono – le sofferenze si intensificheranno, la resistenza si indurirà e ogni residua speranza di pace si perderà ulteriormente.
Conclusione: una crisi di coscienza e di leadership
Questa non è una guerra tra pari. È una campagna unilaterale in cui una potenza militare schiacciante viene impiegata contro una popolazione assediata, sfollata e intrappolata. L’impressionante numero di vittime civili, il deliberato attacco alle infrastrutture e il rifiuto assoluto di negoziare rivelano una strategia progettata non per la difesa, ma per il dominio e lo spopolamento.
Al centro c’è Benjamin Netanyahu, che usa la guerra non per proteggere Israele, ma per rinviare il suo collasso politico. Persino gli alleati europei di lunga data, un tempo incrollabili nel loro sostegno, stanno iniziando a voltare le spalle.
L’esercito israeliano, un tempo considerato un modello di moderazione, è ora visto come uno strumento di violenza incontrollata, riadattato per garantire le ambizioni di un leader in crisi. Non agisce più per logica strategica o principio etico, ma come strumento di coercizione al servizio dell’eredità di un singolo uomo. Nel frattempo, la resistenza palestinese, seppur stremata, è intatta. Ogni nuova atrocità non fa che rafforzare la loro convinzione che la resa significherebbe non la pace, ma la sottomissione e l’espulsione. La resistenza, ai loro occhi, rimane l’unica risposta.
Finché la comunità internazionale non affronterà questa realtà – non con vuote dichiarazioni, ma con una pressione significativa – le uccisioni continueranno. La strada per la pace richiede più che compassione. Richiede chiarezza morale, volontà politica e, soprattutto, responsabilità.
