L’ATTACCO ISRAELE-STATI UNITI ALL’IRAN: IL PREZZO DELLE GUERRE ETERNE DI NETANYAHU

DiOld Hunter

22 Giugno 2025
Vivere in uno stato messianico che conduce una guerra perpetua comporta costi psicologici e finanziari, anche per coloro che un tempo ne godevano i benefici.
Fumo e fuoco si alzano da una struttura colpita durante un attacco
missilistico dell’Iran contro Israele, ad Haifa il 15 giugno 2025

Abed Abou Shhadeh, Middle East Eye, 22 giugno 2025   —   Traduzione a cura di Old Hunter

La decisione di Israele di attaccare l’Iran non può essere interpretata in modo razionale perché è in aperta contraddizione con la consolidata dottrina militare israeliana, fondata su operazioni brevi e decisive volte a garantire obiettivi strategici concreti – una dottrina che ha le sue radici nelle intrinseche vulnerabilità geografiche, economiche e demografiche di Israele.

Ciò a cui stiamo assistendo ora è un cambiamento fondamentale: l’abbandono del realismo strategico in favore di una guerra senza fine guidata dalla teologia. 

La trasformazione è netta. Israele si sta evolvendo da un progetto coloniale sostenuto dall’Occidente, in cerca di legittimità internazionale, a un’impresa coloniale messianica che prospera grazie alla guerra perpetua. Il crescente uso della retorica religiosa e l’inclusione di Dio nella logica della guerra sottolineano questo cambiamento sistemico.

Domenica, Washington si è unita alla guerra di Israele contro l’Iran, attaccando i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. Donald Trump ha descritto gli attacchi come “di grande successo”.

Funzionari iraniani hanno confermato che sono state colpite parti di siti nucleari, tra cui Fordow, il segreto impianto iraniano di arricchimento nucleare sepolto mezzo chilometro sotto una montagna nei pressi della città di Qom.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha elogiato quella che ha definito una “decisione coraggiosa” da parte di Trump di bombardare i siti nucleari iraniani, affermando che “cambieranno la storia”.

Dopo gli attacchi americani, Netanyahu si trova ora ad affrontare una profonda sfida interna. La sua opposizione laica, che un tempo sosteneva le sue iniziative militari, si chiede perché debba sacrificare la propria qualità di vita in nome di un conflitto senza fine. 

Allo stesso tempo, Netanyahu sta erodendo lo spazio democratico del popolo ebraico per mantenere lo slancio del suo programma militarizzato. Il fronte interno, non l’Iran, potrebbe diventare il suo campo di battaglia più duro.

Una delle decisioni più bizzarre ma significative è stata l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini israeliani, tra cui la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion ai viaggi in uscita, unita a un avvertimento del Consiglio di sicurezza nazionale che scoraggia il rientro attraverso la Giordania o l’Egitto

Sebbene dei voli partano ancora da Israele, sono in gran parte riservati a turisti e residenti stranieri, mentre i cittadini sono di fatto intrappolati. Questa mossa ha un’inequivocabile logica politica interna: colpisce in modo sproporzionato gli elettori dell’opposizione di classe media che possono permettersi viaggi a lungo termine all’estero, mentre la base operaia del Likud, in gran parte proveniente dalla periferia, resta impossibilitata.

Trasferimenti di denaro

Nel frattempo, dallo scoppio della guerra a Gaza, come anche prima, durante la riforma giudiziaria di Israele, molti israeliani hanno scelto di trasferire denaro all’estero: a marzo una società di servizi finanziari ha segnalato un aumento del 50 percento nel numero di israeliani che cercano di cambiare e trasferire denaro all’estero. 

Da ottobre 2023, si segnala un aumento di sette volte dei trasferimenti di denaro da Israele verso altri Paesi, con circa 5,6 miliardi di dollari trasferiti fuori da Israele solo durante quell’anno.

Per Netanyahu, questi cambiamenti finanziari devono essere allarmanti. Per anni ha sostenuto l’idea che il Paese potesse mantenere il suo esercito altamente equipaggiato solo per mezzo di un’economia forte. Eppure i suoi partner della coalizione ultra-ortodossa contribuiscono poco in questo senso, mentre i suoi alleati messianici spingono per ulteriori guerre ed espansione territoriale.

Ironicamente, i segmenti della società che sostengono l’economia israeliana sono quelli più contrari al governo di Netanyahu. Ma non si sono opposti alle sue guerre: anzi, continuano a sostenere le azioni militari di Israele, cercando nel contempo di preservare uno standard di vita occidentale. 

La loro incapacità – o il rifiuto – di esaminare criticamente l’ethos sionista, che ha insegnato loro che il mondo è intrinsecamente antisemita e che devono vivere di spada, ha permesso a Netanyahu e ai suoi alleati di sfruttare il loro potere economico. Così facendo, hanno contribuito ad accelerare la discesa di Israele in uno stato messianico che incoraggia politiche razziste e un’ideologia suprematista ebraica.

Questa dinamica è ora visibile nel contesto del conflitto con l’Iran, con molteplici casi documentati in cui ebrei israeliani hanno negato ai cittadini palestinesi, e persino ai lavoratori stranieri, l’accesso ai rifugi antiaerei durante gli attacchi missilistici. 

Questa è la visione di Netanyahu per Israele: uno stato etnico-religioso e di libero mercato in conflitto permanente con i suoi vicini, che semina distruzione ovunque estenda il suo raggio d’azione, destabilizzando attivamente la regione circostante. Ironicamente, questo riecheggia le critiche di Israele all’Iran.

Gli israeliani che comprendono le conseguenze di questa guerra le stanno già subendo. L’impatto finanziario va dai danni alla proprietà privata alle più ampie ripercussioni della chiusura dell’economia civile israeliana e della transizione verso un’economia di emergenza, in cui solo le imprese e le istituzioni essenziali continuano a operare. 

Da un lato, ciò crea incertezza economica e crescente preoccupazione; dall’altro, tutto ciò avviene sotto la pressione psicologica e con una reale paura di attacchi missilistici iraniani.

Stabilità temporanea

Sebbene l’economia israeliana continui a mostrare resilienza, gli analisti israeliani avvertono che questa stabilità è temporanea. Se Israele non torna alla sua dottrina di guerre brevi e decisive, le sue risorse finanziarie si esauriranno e l’economia subirà danni a lungo termine.

Sebbene il numero di missili iraniani che hanno colpito con successo il territorio israeliano sia relativamente esiguo, ogni impatto comporta gravi conseguenze, rendendo inabitabili interi quartieri residenziali. Nel contesto israeliano, dove il mercato immobiliare è tra i più costosi al mondo, anche danni limitati comportano implicazioni economiche smisurate.

A livello personale, posso testimoniare una paura reale e inedita dei missili iraniani, una paura che né i cittadini palestinesi di Israele né gli ebrei israeliani hanno mai sperimentato prima. Sta generando panico diffuso e profonda preoccupazione.

Molte famiglie sono ora senza casa, ma sono ancora oberate dai debiti del mutuo. Quindi, quando sono emerse notizie di israeliani che tentavano di fuggire a Cipro a bordo di yacht privati, non è stata una sorpresa. 

La fantasia di sorseggiare un caffè espresso a Tel Aviv mentre Gaza brucia è crollata. Vivere in uno stato messianico che conduce una guerra perpetua comporta costi psicologici e finanziari, anche per coloro che un tempo ne godevano i benefici.

È ormai diffusa la convinzione che Netanyahu non si fermerà con l’Iran. Le escalation che coinvolgono PakistanTurchia non sono più inverosimile. I think tank israeliani stanno già gettando le basi per giustificare futuri scontri con Ankara, presentandoli come inevitabili.

Per l’osservatore razionale, questa è follia. Ma questa è la realtà di Israele oggi: uno Stato che ha trascinato l’economia globale nei suoi giochi di guerra, innescato tensioni regionali e invocato Dio per giustificare la distruzione. Gli israeliani laici che hanno sostenuto le guerre di Netanyahu ora hanno il privilegio di pianificare la propria fuga, mentre i palestinesi continuano a pagare il prezzo non solo per la politica israeliana, ma anche per la perdurante complicità dell’Occidente nel legittimarla.

Abed Abou Shhadeh è un attivista politico residente a Giaffa. Ha conseguito una laurea magistrale in scienze politiche presso l’Università di Tel Aviv. È stato rappresentante del consiglio comunale della comunità palestinese di Giaffa-Tel Aviv dal 2018 al 2024

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