La decisione del governo di Javier Milei di privatizzare AySA, l’azienda statale argentina responsabile della fornitura di acqua potabile e servizi fognari nell’area metropolitana di Buenos Aires, ha riacceso il dibattito sulla gestione dei servizi essenziali nel Paese. Mentre il governo, in attesa delle elezioni di novembre, giustifica la mossa come necessaria per modernizzare il settore e ridurre il deficit fiscale, critici e organizzazioni sociali denunciano i rischi di mercantilizzazione di un diritto umano fondamentale. A complicare il quadro, il possibile coinvolgimento dell’azienda israeliana Mekorot, accusata di “apartheid idrico” in Palestina e già coinvolta in controversi contratti in Argentina.

Quella che oggi viene presentata come una necessità tecnica – modernizzare il servizio, attirare investitori – è di fatto la replica di un copione già visto. Per comprendere la portata di quello che sta accadendo, infatti, bisogna tornare agli anni ’90, quando Carlos Menem (presidente dal 1989 al 1999) trasformò l’Argentina nel laboratorio mondiale del neoliberismo.
Fu un’orgia di privatizzazioni senza precedenti. Nei ruggenti anni ‘90, lo Stato argentino si spogliò di tutto: in primis di Yacimientos Petroliferos Fiscales (YPF), l’azienda petrolifera statale, vera gallina dalle uova d’oro poi ri-nazionalizzata nel 2011. Ma anche del servizio postale (ceduto in concessione alla SOCMA di Mauricio Macri – ex presidente dal 2015 al 2019 – che si rese protagonista di una causa miliardaria per mancati versamenti), della compagnia telefonica statale (ENTEL; ceduta per un terzo del suo valore reale a Telecom Italia e Telefónica), dell’energia elettrica (SEGBA; la cui frammentazione in tre diverse aziende private fu gestita da JP Morgan), delle ferrovie (Ferrocarriles Argentinos; frammentata e svenduta per una cifra di circa 20 volte inferiore al suo valore commerciale; poi in parte ri-nazionalizzata nel 2015), emittenti radiofoniche e televisive (praticamente tutte a parte ATC), persino banche pubbliche (Banco Hipotecario Nacional, Banco Nacional del Desarrollo).
Un fuoco d’artificio di svendite che aveva un obiettivo preciso: garantire a tutti i costi la parità peso-dollaro, l'”1:1″ introdotto nel 1992 come àncora di stabilità e ipotetica salvezza, coadiuvata da copiosi investimenti esteri che in realtà non arrivarono mai.

In questo contesto, nel 1993, toccò a Obras Sanitarias de la Nación, l’antenata di AySA. Il servizio idrico fu consegnato a un consorzio guidato dalla francese Suez, con la solita promessa di efficienza e investimenti. Le cronache dell’epoca raccontano di una cerimonia sontuosa alla Casa Rosada, con un Menem sorridente, che stringeva la mano agli investitori stranieri. I dettagli del contratto furono per anni tenuti all’oscuro dell’opinione pubblica e permisero alla multinazionale di aumentare le tariffe del 400% nei successivi dieci anni, pur non eseguendo nessun intervento di manutenzione o miglioria del servizio, tanto che in alcune analisi di laboratorio dell’epoca iniziarono ad apparire livelli pericolosi di nitrati e altre sostanze nocive.
In questo contesto, nel 2006, dopo tredici disastrosi anni, Néstor Kirchner decise di riportare l’acqua sotto il controllo pubblico. Nacque così AySA, con un piano ambizioso: portare l’acqua potabile a 9 milioni di persone in dieci anni. Anche se gli investimenti statali – circa 16 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2013 – permisero effettivamente reali miglioramenti, i problemi strutturali non vennero mai davvero risolti e l’azienda si trovò ad operare quasi sempre in deficit, creando un terreno fertile per i critici della gestione pubblica.
Come avevamo già anticipato qualche mese fa, la privatizzazione di asset pubblici è sempre stata presente nell’agenda economica del governo di Javier Milei, e sarebbe arrivata quando tutte le altre strategie macroeconomiche fossero inevitabilmente fallite o, quanto meno, quando non si fossero rivelate abbastanza efficaci da colmare l’enorme problema legato alle riserve valutarie del BCRA.
Questa privatizzazione (come quelle che inevitabilmente seguiranno), però, oltre a presentare la contraddizione di voler dimostrare il primato e la bontà del mercato e del privato assegnando una risorsa comune a un’azienda pubblica, risulta diversa dalle precedenti per diversi aspetti. Uno di questi è sicuramente la mercantilizzazione di un bene talmente essenziale come l’acqua potabile, con aumenti stellari delle tariffe per gli utenti, che già nel 2024 sotto la presidenza Milei sono stati del 362%.

Il secondo è, appunto, il coinvolgimento di un’azienda come Mekorot, che fa parte di un piano più ampio, che lega Israele alla Patagonia, alle Malvinas e all’Antartide.
L’azienda ha già numerosi contratti in qualità di supervisore e consulente con diverse province argentine, che la esentano in caso di disastri naturali. Curiosamente, tali contratti sanciscono anche che, in caso di controversie con gli enti pubblici, la sede di risoluzione dei litigi sia il Regno Unito.
Vale la pena ricordare che Mekorot è un’azienda statale. Il su CEO è un ex politico ed ex militare israeliano di spicco, Yitzhak Aharonovich. Il ruolo di questa azienda si inscrive all’interno di un ben preciso contesto di cessione di sovranità. Israele è già presente in Argentina attraverso altre aziende come Navitas, la quale sta estraendo illegalmente petrolio nelle acque delle Malvinas per un valore potenziale di $1,4 miliardi attraverso il progetto Sea Lion, in collaborazione col Regno Unito. Ma anche attraverso il proprio esercito: sono numerosi, infatti, i report da parte di giornalisti indipendenti che denunciano la presenza di truppe israeliane nella Patagonia argentina. Ufficialmente si tratta di un periodo sabbatico dopo il servizio militare. All’atto pratico, esistono evidenze concrete di tecnici israeliani che mappano falde acquifere e che chiedono informazioni ai locali su infrastrutture di vario tipo.
Lo scorso 24 luglio, Diego Berger, coordinatore dei progetti speciali e internazionali di Mekorot, ha rilasciato un’intervista a Radio Jai in cui ha categoricamente smentito la possibilità che Mekorot acquisti AySA. Berger ha spiegato che, secondo lo statuto aziendale e la legge israeliana, Mekorot non può possedere attivi all’estero, il che renderebbe “impossibile” l’acquisizione di AySA. Ha chiarito che Mekorot sta collaborando con AySA solo in qualità di consulente tecnico, per migliorare l’efficienza operativa e la gestione dell’acqua, come già fatto in diverse province argentine.
Nonostante le smentite, alcuni osservatori speculano che Mekorot possa comunque giocare un ruolo indiretto nella privatizzazione di AySA, ad esempio fornendo supporto tecnico a un futuro operatore privato, senza acquisire direttamente le azioni. La possibile influenza di Mekorot, anche solo come consulente, continua, però, a sollevare preoccupazioni sulla cessione di dati idrici e geologici sensibili a un attore straniero, specialmente in province colpite dalla megaminiera, che consuma grandi quantità d’acqua.
Tutto ciò a corredo delle ormai quotidiane dichiarazioni d’amore del presidente Milei per Israele e del suo viaggio a Tel Aviv nello scorso giugno 2025, dove incontrò il premier israeliano e firmò un memorandum tra le due nazioni dai dettagli ancora largamente ignoti (si sa, però, che verranno garantiti determinati diritti ai cittadini israeliani che decidessero di trasferirsi in Argentina). In occasione dell’incontro, fu inoltre diffusa dall’ufficio del premier israeliano una inquietante foto, in cui si vedeva chiaramente Benjamin Netanyahu chinato su una mappa dettagliata della Patagonia argentina.
Inoltre, The Economist riporta che Milei ha da poco avviato una serie di negoziati top secret col Regno Unito, che dovrebbero riguardare la questione Malvinas, la difesa strategica dell’Atlantico Meridionale e lo sfruttamento delle risorse antartiche. Il tutto, naturalmente, nell’alveo della NATO (come la consegna all’Argentina degli F-16 usati) e in chiave anti-cinese e anti-russa.
La privatizzazione di AySA non è solo una soluzione economica destinata a fallire e ad allargare le già enormi disuguaglianze presenti nel tessuto sociale argentino: è l’ultimo atto di una strategia coloniale, in cui acqua, terra e sovranità vengono svendute al miglior offerente. La vera domanda non è, dunque, se la strategia fallirà, ma quanto costerà agli argentini. Il prezzo potrebbe essere molto più alto di una bolletta salata.
