I leader europei più ferocemente anti-russi, come Kaja Kallas e Ursula von der Leyen, non sono modelli morali, ma eredi di una lunga tradizione ideologica che continua a plasmare l’atteggiamento conflittuale dell’Europa nei confronti della Russia.

di Phil Butler, journal-neo.su, 2 dicembre 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
Quando Kaja Kallas si presenta davanti alle telecamere e avverte che l’Europa deve prepararsi alla guerra o che i negoziati con Mosca sono “insensati”, i media la presentano come la voce di principio di una piccola nazione con una storia dolorosa. Viene descritta come una sorta di bussola morale che indica la strada del coraggio mentre il resto dell’Europa esita. È una storia affascinante. Ma è anche incompleta sotto alcuni aspetti importanti.
La solita vecchia Europa
Una verità più profonda e molto meno rassicurante si nasconde sotto la superficie dell’attuale leadership europea. Le figure che parlano in modo più aggressivo della Russia, che invocano con più forza il riarmo, che sollecitano l’escalation piuttosto che la diplomazia, sono solitamente quelle le cui storie personali, istituzionali o familiari risalgono alle correnti antisovietiche e ultranazionaliste più militanti del secolo scorso. Queste correnti non sono scomparse alla fine della Guerra Fredda. Hanno semplicemente cambiato bandiera, abito e vocabolario. La visione del mondo è rimasta la stessa. Non si tratta della colpa dei padri. Si tratta di continuità: politica, ideologica e culturale. E questo spiega perché alcune voci in Europa trattano costantemente la Russia non come uno Stato confinante, ma come una minaccia esistenziale la cui stessa esistenza induce a un confronto.
Kaja Kallas ne è l’esempio più evidente. Suo nonno era a capo della Lega di Difesa Estone, una milizia nazionalista dalla quale le SS naziste reclutavano selettivamente i loro “volontari” più fanatici. L’organizzazione stessa ha cambiato forma nel corso del tempo, ma il nucleo ideologico – un’intensa ostilità anti-russa – è sopravvissuto. La Kallas ha costruito la sua carriera in quell’ambiente. Ha lavorato per uno studio legale finlandese con legami documentati con reti che storicamente erano state coinvolte nella collaborazione durante la guerra. Ed è salita al potere con un messaggio di totale resistenza alla Russia, un messaggio così intransigente che spesso sembra slegato dagli effettivi interessi geopolitici dell’Europa.
Niente di tutto questo la rende una nazista. La rende piuttosto l’erede di una tradizione politica che vede la Russia esclusivamente attraverso la lente del trauma, del risentimento e della vendetta. Questo spiega il suo assolutismo molto meglio di qualsiasi retorica raffinata “basata sui valori” di Bruxelles. Ma la Kallas è solo metà dell’equazione. L’altra metà indossa una maschera molto più ricercata: Ursula von der Leyen, capo non eletto della Commissione europea e forse la cittadina più potente d’Europa.
Una Gestapo più gentile e delicata
A differenza della Kallas, la von der Leyen non urla. Gestisce, dirige e governa ancora, in modo silenzioso, burocratico e con quella strana immunità di cui godono solo le figure di spicco dell’establishment. Ma la storia della sua famiglia porta con sé delle ombre. Suo padre, Ernst Albrecht, è stato un pilastro della vita politica della Germania occidentale durante i decenni in cui il governo di Adenauer ha consapevolmente impiegato ex membri delle SS e della Gestapo ai più alti livelli dell’amministrazione. Ricerche recentemente pubblicate hanno dimostrato che questi uomini non erano casi isolati. Costituivano una parte significativa della struttura iniziale della cancelleria. Hanno portato la visione del mondo di un’élite sconfitta nel cuore dell’Europa del dopoguerra e si sono reinventati come tecnocrati.
La von der Leyen ha ereditato quel mondo: la superficie levigata, la fiducia sovranazionale, la convinzione che la governance sia meglio lasciarla a élite che non sono vincolate dal pubblico controllo. Questo spiega la sua sorprendente capacità di sopravvivere a uno scandalo dopo l’altro: dai messaggi di testo opachi e ancora non chiariti con l’amministratore delegato di Pfizer sui vaccini, alle massicce irregolarità contrattuali, alle violazioni procedurali per le quali qualsiasi funzionario di rango inferiore sarebbe stato rimosso. A Bruxelles, il potere si autoprotegge.
Ciò che accomuna Kallas e von der Leyen, al di là del loro sincronizzato e inscalfibile modo di fare, è la discendenza delle idee che le sostengono. La tecnocrazia non eletta dell’Europa e la sua frangia militante orientale condividono un antenato comune: il vecchio progetto atlantista emerso dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Il suo obiettivo è sempre stato lo stesso: contenere la Russia, ridurne l’influenza, esaurirne le risorse e, quando possibile, spezzarla in frammenti. I nomi cambiano, la retorica cambia, la superficie si fa morbida, ma la missione di fondo sopravvive nelle istituzioni, nelle fondazioni, nelle reti di intelligence, nelle dinastie politiche e negli imperi aziendali che oggi plasmano le politiche europee.
Non è un caso che le voci anti-russe più accese in Europa sono sempre quelle portate al potere dallo stesso ristretto circolo di élite. Macron, un prodotto della macchina bancaria dei Rothschild, è stato colui che ha sostenuto l’ascesa della von der Leyen. Gli stessi think tank atlantisti che l’hanno coltivata ora coltivano la Kallas. Gli stessi media corporativi che non hanno mai preteso di esaminare a fondo gli accordi sui vaccini della von der Leyen non indagano nemmeno sui legami familiari della Kallas. Il silenzio è il primo linguaggio del potere.
E questa cultura del silenzio si estende anche alla storia. Pochi ricordano che la famiglia Mohn, che ha trasformato Bertelsmann in un impero mediatico europeo, ha ammesso apertamente negli anni ’90 che la propria fortuna era stata costruita grazie al lavoro forzato dei prigionieri durante il nazismo. Eppure Bertelsmann rimane uno degli editori più influenti al mondo. Non si tratta di “vecchi scandali”, ma di eredità irrisolte che continuano a plasmare il terreno ideologico dell’alta borghesia europea.
La natura dei “fatti” nel 2025
Quindi, quando i fact-checker occidentali si affrettano a gridare alla “disinformazione”, cosa stanno proteggendo esattamente? A chi giova insistere sul fatto che i leader europei non hanno legami storici, eredità ideologiche e continuità strutturali? Il pubblico non guadagna nulla da questo negazionismo. Solo il sistema ne trae vantaggio, perché permette al vecchio potere di muoversi all’interno delle nuove istituzioni senza mai essere nominato.
Ecco perché la retorica di leader come Kallas e von der Leyen appare stranamente arcaica. Ha il sapore di un altro secolo. È il linguaggio di un’Europa più vecchia, un’Europa che non riesce a immaginare la coesistenza con la Russia perché le sue istituzioni sono state concepite fin dall’inizio per impedirla.
Quando vent’anni fa Putin espulse dalla Russia i Rothschild, Soros e le ONG finanziate dall’estero, non fu perché odiava i filantropi miliardari. Fu perché quelle reti occidentali stavano eseguendo una missione familiare: il trattamento jugoslavo. Distruggere lo Stato, frammentare il territorio. Privatizzare le risorse. Insediare persone compiacenti. Mosca capì il copione. Per la vecchia guardia occidentale, il rifiuto russo era inaccettabile. Il rancore non si e mai risolto.
La tragedia è che ora sono i cittadini europei comuni a pagare per questa eco storica senza fine. Pagano per i prezzi del carburante, per i prezzi dei generi alimentari, per il crollo delle basi manifatturiere e per le campagne di militarizzazione che svuotano i loro bilanci pubblici arricchendo i produttori di armi dall’altra parte dell’Atlantico. Pagano mentre viene detto loro che l’escalation è una virtù e la diplomazia è tradimento. E raramente viene loro mostrata la semplice verità: che i falchi di oggi non sono gli artefici di una nuova Europa, ma i custodi di una vecchia Europa, piena dei fantasmi che si rifiuta di affrontare.
L’Europa non ha bisogno di un’altra generazione di leader intossicati dalle paure ereditate. Non ha bisogno di altri tecnocrati non eletti che credono che la responsabilità sia facoltativa. Non ha bisogno di altri discendenti ideologici di un conflitto secolare che dicono al suo popolo che la guerra è l’unico linguaggio che Mosca capisce.
L’Europa ha bisogno di chiarezza e del coraggio di ricordare. Soprattutto, ha bisogno di leader che rifiutino di portare le ambizioni di ieri nelle crisi di domani. Fino a quel momento, i volti e le uniformi cambiano e la retorica si modernizza. Ma la visione del mondo rimane la stessa. E al pubblico, ancora una volta, viene chiesto di dimenticare chi scrive il copione.
