Oggi sono passati due anni da quel fatidico 7 ottobre 2023, ed ora che con il piano Trump si apre uno spiraglio – non ancora di pace per il Medio Oriente, ma forse di tregua per Gaza – si può fare un bilancio, anche se certamente non ancora definitivo. E poiché si tratta di una questione assai articolata e complessa, questo primo bilancio sarà diviso per comodità in due parti. In questo articolo esaminerò, sia sotto il profilo politico che militare, questi due anni di guerra, e soprattutto cosa ne emerge; in un articolo successivo invece esaminerò la vexata questio del via libera calcolato, da parte del governo israeliano, affinché l’attacco palestinese fungesse da giustificazione per il successivo genocidio. E cercherò di farlo non a partire da una posizione preconcetta – pro o contro questa tesi – ma da un esame quanto più oggettivo possibile, e sottolineo possibile, delle informazioni certe di cui ad oggi disponiamo. Per il momento, mi limito ad osservare che, se davvero l’operazione Al Aqsa Flood ha potuto essere messa in atto grazie ad una decisione del governo di Tel Aviv, possiamo oggi affermare, con tutta evidenza, che in tal caso si sarebbe trattato della decisione più folle, più errata e più controproducente dell’intera storia di Israele.

Una delle cose che scrissi, nell’immediatezza dell’attacco palestinese del 7 ottobre, fu che quella operazione rappresentava la definitiva sconfitta politica del progetto sionista; e che, a quel punto, restava soltanto da attendere la sconfitta militare. Che, a due anni esatti di distanza, ed anticipata da due fondamentali passaggi (il conflitto con Hezbollah, settembre-novembre 2024, ed il conflitto con l’Iran, giugno 2025), è ora arrivata. Nell’arco di questo biennio, Israele ha semplicemente fatto a pezzi il progetto sionista, lo ha sbriciolato in un modo che rende semplicemente impossibile rimettere insieme i pezzi, e quando la spinta cinetica del conflitto si arresterà, la società israeliana sarà semplicemente squassata sino alle fondamenta dall’onda d’urto di questi due anni.Quando le formazioni combattenti della Resistenza palestinese lanciano l’attacco, il contesto geopolitico regionale – e non solo, ma questo al momento ,lo lasciamo da parte – è caratterizzato fondamentalmente da due elementi. L’attenzione israeliana è concentrata sulla Cisgiordania, che era ed è il cuore del vero progetto espansionista di Tel Aviv, mentre Gaza è considerata più un problema di sicurezza che altro. Non va dimenticato che la Striscia fu occupata da Israele, che vi costruì anche degli insediamenti, per poi abbandonarla nel 2005 (quando ancora la Resistenza non era così forte), proprio perché considerata una bandit county. Vista dalla capitale israeliana, Gaza era solo un gigantesco campo di concentramento a cielo aperto, in cui fare periodicamente irruzione con l’esercito per tenerne a bada i detenuti. Altro elemento, gli Accordi di Abramo sembrano essere l’orizzonte consolidato verso cui stanno convergendo tutti i paesi arabi, e con essi ci si apprestava a seppellire definitivamente – forse per decenni – la questione palestinese.

Nel momento stesso in cui i 1.200 uomini delle forze d’élite delle formazioni palestinesi abbattono le recinzioni, e dilagano oltre il muro, entrambe gli elementi saltano. Israele deve riconcentrare tutti i suoi sforzi ed interessi sulla Striscia, che diventa prioritaria rispetto alla Cisgiordania, e gli Accordi di Abramo vengono archiviati. La questione palestinese, che sino al giorno prima sembrava archiviata, non solo riemerge con forza, ma si impone a livello globale, superando come impatto – per varie ragioni – persino il conflitto NATO-Russia in Ucraina. È qui importante sottolineare che, anche a prescindere dal comportamento israeliano nel conflitto, peraltro non nuovo ma solo portato ad una superiore dimensione di scala, quello che si apre con l’attacco palestinese ha una valenza significativamente diversa, sul piano globale, rispetto a ciò che diciannove mesi prima è iniziato nell’est europeo. Mentre l’avvio dell’Operazione Speciale Militare russa, infatti, seppure ha una chiara chiave anti-occidentale, appare comunque riconducibile ad una logica di confronto tra grandi potenze, la nuova fiammata del conflitto in Palestina assume tutte le caratteristiche della rivolta contro il dominio coloniale, e dunque parla a tutto il sud del mondo.

Quello che le varie formazioni della Resistenza affermano, nel momento stesso in cui portano l’attacco in territorio nemico, è precisamente l’irriducibilità della resistenza e l’impossibilità di averne ragione, e quindi che non esiste alcuna possibilità di eludere la questione, né di nasconderla sotto la sabbia del deserto, e men che meno sotto la coltre di affari che le leadership arabe sperano di poter fare all’ombra di un accordo con Tel Aviv. Ed è una rottura talmente radicale, da shockare i vertici israeliani. Ai quali non sfugge il senso profondo dell’attacco, la sua potente valenza politica. E la rabbia feroce che trasuda dalle prime reazioni, non solo testimonia lo stupore (sempre a proposito del presunto via libera…) per l’accaduto, né per l’entità delle vittime (il governo sa perfettamente che la gran parte sono dovute all’applicazione della Direttiva Annibale), ma appunto la consapevolezza delle conseguenze politiche di quella operazione.
Tutto ciò che ha fatto seguito al 7 ottobre, da parte di Tel Aviv, è riconducibile da un lato all’ira per tali conseguenze, e dall’altro al disperato tentativo di sovvertire quell’esito, impiegando un surplus di ferocia.

L’assoluta mancanza di un progetto strategico, quindi sia politico che militare, rispetto al conflitto nella Striscia di Gaza, è la costante che si è potuta osservare lungo tutti questi due anni – ed è un ulteriore elemento che smonta la tesi della pianificazione. Ciò a cui abbiamo assistito è stato indubbiamente un dispiegarsi pressoché illimitato della potenza di fuoco israeliana, anche grazie all’alimentazione continua ed altrettanto illimitata ricevuta da parte degli Stati Uniti, ma senza che questa fosse mai finalizzata, appunto, al conseguimento di obiettivi possibili. Senza entrare qui in analisi dettagliate delle tattiche messe in atto dell’Israel Defence Force, che richiederebbero spiegazioni troppo dettagliate per risultare comprensibili ad un pubblico non avvezzo, basti considerare come nessuno dei tre principali obiettivi dell’IDF sia stato conseguito. Non c’è stata liberazione dei prigionieri israeliani catturati il 7 ottobre, se non successivamente attraverso negoziati, ma in compenso molti sono rimasti uccisi proprio dall’azione militare israeliana. Non è stata smantellata, se non in ridottissima misura, la rete sotterranea di tunnel utilizzati dalla Resistenza, e che costituisce ancora l’infrastruttura attraverso cui vengono portati i continui attacchi alle forze di occupazione. Non è stata intaccata né la capacità operativa delle formazioni combattenti, né la loro capacità di ricostituire le fila – gli stessi servizi israeliani stimano che, grazie ai nuovi arruolamenti, le forze delle varie brigate palestinesi siano sostanzialmente uguali a quelle del 7 ottobre.

Anche rispetto al presunto piano genocidario e/o di pulizia etnica attraverso espulsione, un’osservazione lucida degli avvenimenti ci dice che c’è stata probabilmente l’intenzione, ma senza alcuna pianificazione. Se si fa un paragone – al di là delle dimensioni quantitative – con il genocidio messo in atto dai nazisti tedeschi, risulta evidente come questo fosse attentamente pianificato, con una precisione quasi aziendale, ed in cui ciascun elemento era predisposto per collocarsi opportunamente nel disegno complessivo. Diversamente, nel caso in questione, tutto appare frutto di forza bruta, violenza allo stato puro, liberazione di istinti belluini avallata da una copertura ideologica di tipo messianico, ma senza alcuna organizzazione. Gli stessi spostamenti di massa della popolazione civile, chiaramente non rispondono né ad una logica militare né ad un piano di sterminio, ma sono frutto evidente di un caos gestionale, in cui si opera senza alcuna idea di ciò che seguirà l’indomani. Anche l’idea di l’espulsione dei palestinesi fuori dalla Striscia si manifesta nella sua più totale improvvisazione, ancora una volta frutto del capriccio e della rabbia del momento, ma del tutto privo di un minimo disegno organizzativo. La ricerca di qualche paese disposto ad accogliere i gazawi – anche solo poche migliaia – è tutta successiva all’avvio dell’operazione militare di terra, ed è chiaramente condotta nella più totale improvvisazione.

L’intrecciarsi di un conflitto a cui né l’esercito né la società israeliana erano preparati, con la fragilità di una maggioranza di governo legata ad equilibri molto spostati a destra, nonché la personale situazione del premier Netanyahu – sottoposto a svariati procedimenti penali – hanno insomma determinato un quadro in cui, come si è appunto visto, quello che si è sempre rappresentato come il più potente esercito della regione non è stato capace di vincere un conflitto contro alcune formazioni di guerriglia, prive di sistemi d’arma pesanti, e completamente circondate in un’area geografica ristretta. Due anni di guerra feroce, la più lunga nella storia dello stato di Israele, senza ottenere un solo risultato, né politico né militare. Al contrario, tutto questo alla fine ha regalato alla Resistenza l’aura di una forza invincibile, a cui di fatto lo stato sionista si deve inchinare. Quanto si diceva all’inizio, in merito al fatto che, a due anni da quel 7 ottobre, la sconfitta militare si aggiunge a quella politica, sta esattamente in questo. E gli accadimenti di questi giorni ne sono la plastica manifestazione.

Se si ripercorre la storia conflittuale dello stato israeliano, si evidenzia chiaramente come il passaggio che cambia radicalmente il paradigma precedente – ovvero il netto predominio militare israeliano sui vicini arabi – è la nascita della Repubblica Islamica, ed ancor più in particolare la nascita, su iniziativa di Teheran e del generale Soleimani, dell’Asse della Resistenza. Non a caso, la leadership israeliana identifica proprio nell’Iran il nemico esistenziale, che deve essere assolutamente abbattuto.Ed è nel confronto con l’Asse della Resistenza, nel corso di questi due anni, che si registrano i passaggi cruciali che tratteggiano e preannunciano la sconfitta.
Quando Israele, nel settembre 2024, decide di attaccare Hezbollah nel sud Libano, si pone l’obiettivo di respingere la Resistenza Islamica libanese sino oltre il fiume Litani, a circa 30 chilometri dal confine, così da assicurare una fascia di sicurezza che garantisca gli insediamenti coloniali nel nord. Dopo mesi di attacchi reciproci a distanza, l’IDF rompe gli indugi e varca il confine, preceduto però dall’assassinio del capo politico-militare di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e dal famigerato attacco terroristico dei cerca-persone.

Nonostante questi due colpi messi a segno, che nei piani israeliani avrebbero dovuto disarticolare Hezbollah, l’offensiva terrestre delle forze israeliane, portata avanti lungo tre direttrici, si blocca dinanzi alla forte resistenza delle formazioni di Hezbollah, che infliggono dure perdite e fermano la penetrazione israeliana, che non va oltre uno/due chilometri, nelle punte più avanzate.
Ed è a questo punto che scatta un format, che vedremo entrare in scena anche successivamente, e che ha lo scopo ben preciso di salvare la faccia – ed il fondoschiena – all’IDF. La mediazione occidentale, in particolare statunitense, porta ad un cessate il fuoco – che poi Israele in larga misura disattenderà – che consente a Tel Aviv di congelare un conflitto in cui non solo non riusciva a cogliere gli obiettivi prefissati, ma in cui le perdite stavano diventando troppo significative, a fronte appunto di risultati scarsi o nulli.
Uno schema, questo, che vedremo ripetersi, in una scala diversa, lo scorso giugno.

Anche qui, con l’attacco all’Iran, vedremo in azione una componente terroristica, agita da una rete di agenti costruita in anni e anni dal Mossad, e che accompagneranno la prima fase dell’aggressione. In questo caso, anche in virtù della distanza tra i due paesi, e della ben diversa estensione territoriale e demografica, l’obiettivo è un regime change; come emergerà successivamente, il Mossad è in contatto con l’erede di casa Pahlevi, che immagina di portare al governo dopo una qualche forma di insurrezione interna, che sarebbe dovuta seguire al collasso del regime sotto l’impatto dell’attacco israeliano. Come sappiamo, il regime non collassa, la popolazione iraniana si coagula intorno al governo, le forze militari di Teheran riescono a rispondere agli attacchi e, nel giro di pochi giorni, a ribaltare di fatto la situazione. Tanto che Netanyahu è costretto a chiamare Trump chiedendogli di aiutarlo a porre fine al conflitto, mediando un cessate il fuoco. Ed ecco che riappare il format già visto, in questo caso diversamente articolato, del salvataggio di Israele. Washington e Teheran concordano uno scambio di attacchi reciprocamente pre avvertiti, ed il conflitto si chiude.

Ed arriviamo quindi ai nostri giorni. Gli USA hanno supportato Israele come mai prima. Per due lunghi anni, lo hanno rimpinzato di bombe da lanciare su Gaza, di proiettili per carri armati e munizioni per le armi leggere, consentendo all’IDF di portare avanti la guerra più lunga della sua storia. Biden prima, e Trump poi, hanno dato a Tel Aviv tutto ciò di cui aveva bisogno per portare a termine quello che, ignominiosamente, il cancelliere tedesco Merz ha definito “il lavoro sporco” fatto per noi occidente. Non solo armi, non solo soldi, non solo copertura diplomatica e politica. Gli hanno dato soprattutto tempo. Ma durante tutto questo tempo, non solo Israele non è riuscita a concludere il “lavoro sporco”, non solo ha costretto Washington ad intervenire direttamente in difesa dell’alleato (durante i tre round di confronto con l’Iran, ed in quello con gli yemeniti di Ansarullah), cosa che ha comportato un significativo esaurimento di munizioni strategiche – tanto da spingere gli USA a siglare in fretta e furia un cessate il fuoco con lo Yemen – ma ha creato una situazione internazionale senza precedenti.

Il genocidio dei palestinesi, in diiretta internet, non ha soltanto provocato un’ondata di sdegno ed indignazione globale, particolarmente significativa proprio nei paesi che più sostengono Israele, ma – ed è questo il fattore cruciale – ha messo in difficoltà il main sponsor di Tel Aviv, e proprio in casa sua. È proprio negli Stati Uniti, infatti, che su questa questione si è determinato un cambiamento politico grave (sia per Trump che per Israele). Da un lato, le giovani generazioni degli ebrei statunitensi hanno largamente rigettato la politica di Israele, gettando un’ombra sul futuro dell’influenza delle lobbies ebraiche. Dall’altro, soprattutto dopo l’omicidio del giovane leader conservatore Charlie Kirk, anche all’interno dell’influentissima lobby degli evangelisti sionisti – cui apparteneva Kirk – sono apparse crepe significative. E, più in generale, l‘appiattimento della politica (e degli interessi) statunitensi su quelli israeliani, incontra un crescente malumore nella base M.A.G.A., fedele all’idea dell’America First. E come se non bastasse, tutto ciò si colloca in un declino generalizzato del sostegno ad Israele nella società americana, mentre la stessa approvazione dell’operato presidenziale è scesa ai suoi minimi termini [1].

L’insieme di questi fattori – incapacità israeliana di risolvere militarmente la questione palestinese, drammatico deterioramento del sostegno internazionale ad Israele, crescenti malumori dei paesi arabi amici, significativo peggioramento del sostegno a Tel Aviv negli Stati Uniti e particolarmente nella base elettorale trumpiana – ha determinato infine ciò che stiamo vedendo in questi giorni. Il piano di pace di Trump, al di là del suo confezionamento – fatto apposta per mascherare la realtà effettiva – è esattamente l’ennesima replica del format già visto, il salvataggio di Israele da se stesso. Molto semplicemente la guerra in Palestina deve finire. E deve finire perché Israele l’ha persa, e Trump non vuole che gli Stati Uniti siano trascinati nella sconfitta. In questo, e già si vede, è evidente che il miglior alleato tattico del presidente statunitense è proprio la Resistenza palestinese; sono entrambe a dare le carte, e sono entrambe che convergono nel mettere all’angolo Netanyahu. Il quale è pur sempre affidabile come una serpe, quindi non è certo solo sulla sua parola che si potranno poggiare le prime pietre di un accordo; serviranno garanzie affidabili, quindi – sui temi sostanziali – affidate a terze parti credibili. Un attore importante potrebbe rivelarsi l’Indonesia, ad esempio, che si è già offerta di inviare una forza di interposizione.

Il processo, in ogni caso, è appena agli inizi, e gli ostacoli non sono né pochi né piccoli. Ma è il contesto generale in cui si è determinato a dare i maggiori elementi per ben sperare. Di sicuro, non va nemmeno sopravvalutato, perché – nonostante la solita retorica trumpiana – questo è solo un piccolo passo – benché drammaticamente urgente – ancora assai lontano dal portare la pace nell’intero Medio Oriente. Restano ancora aperte le crisi libanese e siriana, resta aperto lo scontro con l’Iran, resta fuori dall’eventuale accordo la questione dei territori occupati della Cisgiordania.
Anzi, sono proprio questi ultimi due che, in virtù del prezzo che Israele e Netanyahu dovranno pagare, a presentare i maggiori fattori di rischio, poiché potrebbero diventare l’elemento di compensazione offerto a Tel Aviv.
A conti fatti, oggi possiamo dire che forse si apre uno spiraglio per il martoriato popolo palestinese, e se questo spiraglio si riuscirà ad allargarlo quanto basta, potrebbe servire – questo sì – a gettare le basi per un più ampio processo di stabilizzazione del Medio Oriente.

Come si diceva all’inizio, quanto più questa crisi si ferma, ed imbocca una strada verso una risoluzione quantomeno a medio-lungo termine, tanto più si cominceranno a manifestare dei poderosi scossoni all’interno della società israeliana, i cui sbocchi sono al momento imprevedibili, ma che potrebbero benissimo tradursi in nuove fiammate di violenza; del resto, è l’esistenza stessa dello stato israeliano, nella sua essenza, ad essere un fattore destabilizzante.
Ma una cosa è certa, ed è ragionevole presumere che presto lo sarà anche visibilmente: senza quel 7 ottobre, nulla di tutto questo sarebbe stato mai possibile. E sicuramente è una di quelle date che finiranno nei libri di storia.


1 – Cfr. “Trump hits lowest approval rating so far in Marquette Law School poll”, Rayan Mancini, The Hill

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