Da città a Società per Azioni: il mondo-mercato e la guerra per l’accesso al territorio.

“Ci hanno murati vivi” dice una condomina della piccola palazzina milanese sopravvissuta alla “rigenerazione urbana” di via Melchiorre Gioia. Prima dalla finestra di casa sua vedeva le Alpi e il parco, ora non vede nemmeno più la luce del sole. Il suo condominio è stato circondato, o meglio assediato, da grattacieli di 98 metri. Nessun rispetto delle distanze minime per garantire aria e luce prescritte dal regolamento edilizio meneghino.

Lo scandalo urbanistico di Milano è iniziato, infatti, da un cortile che ha, fra le altre, proprio la funzione di garantire il diritto umano e inalienabile all’aria e alla luce, oltre ad essere il fondamento di tutta la tradizione architettonica del Mediterraneo e di Milano in particolare con le sue tipiche “case popolari a ringhiera”. A Milano ancora oggi gli anziani dicono “cortiliamo” per darsi appuntamento con i vicini fuori dalla porta di casa e fare due chiacchiere.
Il patio è anche una forma archetipa e implica il rarefarsi del tessuto edilizio che consente il rovesciamento del cielo sulla terra e, alla scala urbana, è l’agorà, la piazza intorno alla quale si è edificata la città occidentale, luogo e principio di socialità e di democrazia, sintesi dello spazio pubblico per eccellenza, ubicata subito sotto il tempio sacro. Un cortile o una piazza non sono vuoti in quanto assenza di costruito ma l’essenza stessa di ogni principio insediativo. E non solo in Occidente: quando i popoli nomadi delle foreste equatoriali trovano una radura lì, intorno a quell’area libera dall’intrico degli alberi in cui penetra la luce, collocano il loro accampamento e la radura diventa lo spazio delle cerimonie e della parola intorno a cui si raduna la comunità.
Una città è, quindi, una tessitura di pieni e di vuoti, di costruito e di non costruito che lascia libero lo spazio per l’ubicazione delle piazze, delle vie, dei cortili, dei parchi, dei giardini, dei navigli o dei fiumi che la attraversano, dove i vuoti hanno la stessa importanza dei pieni per garantire la qualità della vita dei suoi abitanti.
Ma nell’occupazione predatoria del nostro territorio, questi elementi fondamentali dell’abitare sono visti solo come un vuoto da intasare di cemento generando una vera e propria città claustrofobica e una vita soffocante. E siccome edificare nei cortili è, per l’appunto, vietato, i grandi picconatori della speculazione edilizia milanese li hanno rinominati “spazi residuali”.
Ed è così che nel 2023 un gruppo di residenti ha sporto denuncia dopo aver visto spuntare nel proprio cortile una torre di sette piani dando il via all’inchiesta sull’urbanistica milanese. La Procura scopre che il caso non è affatto isolato, vengono fuori una serie di abusi e conflitti di interesse senza precedenti all’interno di un “vorticoso circuito di corruzioni che colpisce le istituzioni e ha disgregato ogni controllo pubblico sull’uso del territorio, svilito a merce da saccheggiare” (parole della Procura).
Già a marzo di quest’anno era arrivato l’arresto per Giovanni Oggioni, direttore dello Sportello Unico Edilizia del Comune, ed era emerso anche il tentativo di influenzare il disegno di legge “Salva Milano” che puntava a far ripartire i primi progetti edilizi bloccati dalla magistratura e a condonare, di fatto, il sistema con cui nel capoluogo lombardo sono proliferati, in questi anni, grattacieli facendo passare nuove, gigantesche, costruzioni per banali interventi di ristrutturazione per i quali basta una semplice Scia (autocertificazione di inizio attività) senza uno straccio di piano attuativo che valutasse i servizi dovuti per legge (strade, fognature, acqua, luce, gas, verde, asili, scuole, ecc.) e senza nessun onere di urbanizzazione che avrebbe dato un minimo di compenso alla cittadinanza.
Il metodo consisteva, infatti, nella “rigenerazione urbana” di aree dismesse fingendo di ristrutturare edifici di piccole o medie dimensioni che, in realtà, venivano abbattuti per edificare al loro posto palazzoni o, ancor meglio, salendo in verticale con i grattacieli per aumentare i metri quadri da mettere a profitto occupando a terra poco spazio. Una vera febbre di “grattacielismo” che, inoltre, poco c’entra con la struttura architettonica di Milano e, in generale, con quella delle città storiche che è la caratteristica distintiva di ogni città italiana la cui memoria viene schiacciata e messa in ombra dal gigantismo di questi abnormi edifici fuori scala.

La tipologia del grattacielo nasce alla fine del XIX secolo a Chicago dopo il grande incendio del 1871 che aveva completamente raso al suolo il centro cittadino. Lo sviluppo in altezza degli edifici (reso possibile dai nuovi materiali) permetteva infatti di compensare l’alto valore economico dei terreni concentrando quanti più abitanti possibili in strutture verticali su aree di superficie limitata. Da allora il grattacielo è divenuto il simbolo della metropoli americana e, in generale, del modernismo occidentale.
Oggi sono 79 i nomi coinvolti nell’inchiesta che ha delineato un quadro di “avidità”, “spregiudicatezza”, “modalità eversive di comportamenti”, “asservimento sistemico a una rete occulta” costituita “da rappresentanti delle istituzioni, professionisti, faccendieri, operatori privati dei settori immobiliare, finanziario e del credito”. Nel frattempo è stato disposto il carcere per Andrea Bezziccheri, imprenditore di Bluestone, mentre sono finiti agli arresti domiciliari l’ex assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi; l’ex presidente della commissione Paesaggio Giuseppe Marinoni; l’architetto Alessandro Scandurra, membro della stessa commissione; l’ex manager della società di ingegneria J+S Federico Pella; il re del mattone Manfredi Catella di Coima, Risultano, invece, indagati, fra gli altri, il sindaco Beppe Sala e l’archistar Stefano Boeri, già interdetto nei mesi scorsi da incarichi e concorsi nella pubblica amministrazione in quanto indagato per l’inchiesta sulla nuova Biblioteca europea (Beic) di Milano.
Sarà compito della magistratura accertare i reati contestati al sindaco ma, in ogni caso, la sua responsabilità politica c’è tutta ed è grave: lui è stato il garante istituzionale di un sistema che, sotto la facciata dell’innovazione, ha sfregiato il territorio con trasformazioni violente sotto la regia di grandi operatori finanziari e conseguenze devastanti per l’equilibrio sociale.

L’alterazione del tessuto urbano esistente non si fermava di fronte a nulla, anzi, le ruspe della tabula rasa avevano già acceso i motori per andare a colpire impunemente anche opere monumentali come lo Stadio Meazza per mettere le mani su tutto il quartiere di San Siro e sulla costruzione dei nuovi stadi a Rozzano e a San Donato.. L’associazione di abusatori si apprestava a compiere il salto di paradigma andando a picconare un monumento del 1925 che è nel cuore di tutti i milanesi, un simbolo della storia cittadina, oltre ad essere un capolavoro di ingegneria novecentesca (firmato da Alberto Cugini e Ulisse Stacchini, autore in quegli stessi anni anche della Stazione Centrale con la sua splendida galleria coperta ispirata all’Art Nouveau) e definito dal Time il secondo impianto sportivo più bello del mondo.
Timide le riserve della Soprintendenza mentre i cittadini, dopo vari esposti rigettati, contano i giorni mancanti per raggiungere la scadenza dei 70 anni (il 10 novembre) dall’inaugurazione ufficiale dello stadio dopo la ristrutturazione del 1955 da parte del Comune (che lo aveva acquistato dal Milan nel 1935), condizione necessaria per far ricadere l’opera in regime di tutela quale “bene architettonico”. San Siro è, infatti, ancora in pericolo: nel suo ultimo intervento in Comune, il sindaco Sala non solo non si è dimesso (come era prevedibile) ma ha vergognosamente rimandato la decisione della vendita del Meazza a settembre.
Prima ancora che legale, siamo di fronte a un problema culturale enorme che sottrae alla cittadinanza un’opera perché “vecchia” (quindi da alterare o, se va bene, da museificare) scambiando per sviluppo urbano la distruzione di tutto ciò che ha una memoria e un significato collettivo e sostituendolo con nuova, indiscriminata, cementificazione, avvenga essa secondo procedure corrette o no.

D’altronde quando un’amministrazione autorizza la festa aziendale di una estetista influencer alla Braidense – una delle biblioteche storiche più importanti d’Italia dove spesso si possono toccare i libri solo con i guanti – con djset e luci al neon sparate anche sul “Napoleone” di Canova nel Cortile d’Onore, come accaduto un anno fa, le ruspe sono già in moto per devastare tutto perché la prima picconata è sempre culturale ed è quella che stabilisce che fra una location per eventi e un bene storico non c’è poi così tanta differenza.
E dopo l’ingiuria nei confronti della storia, non stupisce quella verso la geografia con l’annuncio in pompa magna di Milano-Cortina 2026. Pur di speculare non si esita a ribaltare le coordinate geografiche assimilando le pianure alle montagne e Milano a improbabili sport invernali. Tanto è vero che il Villaggio Olimpico allo Scalo Romano è già finito fra i 200 cantieri al centro dell’inchiesta bloccati dalla procura.
La spregiudicatezza dei grandi picconatori era tale che il re del mattone milanese Manfredi Catella, in un’intervista di qualche mese fa, suggeriva come soluzione alla crisi abitativa della metropoli la ricollocazione delle famiglie milanesi a Genova dove sono disponibili 40mila case vuote, perché tanto con l’alta velocità la distanza sarebbe stata coperta in un’ora di treno.
Non sono semplici follie di personaggi discutibili ma segni tangibili dell’idea di città che si sta andando ad edificare nel III millennio nell’indifferenza generale:
una città sradicata, sollevata dal suolo, lanciata in aria e sospesa in tutte le direzioni. Il globalismo apolide e deterritorializzato ridisegna le geografie urbane annichilendo il valore dei “luoghi” nella loro radicata e irripetibile specificità spezzando il legame antropologico tra spazio e identità che è l’essenza di ogni abitare. Non c’è più un “qui”, una localizzazione all’interno delle coordinate geografiche, ma un’ubiquità permanente in uno spazio indifferenziato con le città che oramai si assomigliano tutte. E non c’è nemmeno più un dentro e un fuori ma un unico processo onnivoro di urbanizzazione planetaria che riscrive i territori a specchio del mercato globale mettendo in crisi il concetto di sovranità territoriale dei cittadini in ogni prossimità locale e, dunque, l’idea stessa di città quale spazio della politica e della dimensione collettiva.
Abbiamo visto in un precedente scritto che, a partire dagli anni Novanta, con la penetrazione delle dottrine neoliberiste in ogni ambito della vita, la città non è più concepita come sede (storicamente, fisicamente e giuridicamente riconosciuta) della civitas ma come centro dell’economia globale votato ad ad alzare il PIL e ad attrarre investimenti necessari per essere competitivi con le altre metropoli pubblicizzando tutto ciò come sviluppo, l’unico possibile. La città diventa, quindi, una Società per Azioni (S.p.A.) a vantaggio dei suoi investitori. In tale orizzonte, la corsa al ribasso degli oneri di urbanizzazione e alla deregulation rispetto agli strumenti canonici di progettazione (visti come troppo rigidi e lenti) diventano sistemici agevolando i fenomeni corruttivi che sono solo la patologia più estrema di un meccanismo che si sta andando a normalizzare e che prevede l’imprenditorializzazione della pianificazione urbana e la privatizzazione dello spazio pubblico.
E’ bene comprendere quello che è accaduto a Milano in tutta la sua complessità evitando i luoghi comuni se davvero si vuole affrontare la questione della città come bene comune primario e il rapporto (fondativo) che essa instaura tra spazio e società in tutte le sue implicazioni urbanistiche, sociologiche, estetiche, antropologiche, della cultura del diritto e dell’amministrazione. Per il mondo-mercato il territorio, sia esso naturale o antropizzato, non è altro che un fondo disponibile per essere sfruttato senza argini e tale accaparramento trova sempre nuove ideologie di legittimazione allo scopo di incantare l’opinione pubblica. Una delle formule magiche di maggior successo oggi è quella di “sviluppo sostenibile”.
Il caso di Milano fa emergere una volta per tutte il vero volto del green: sotto la vernice ideologica delle ZTL, delle piste ciclabili, delle “città 15 minuti”, dei boschi verticali, del divieto al fumo, del non tagliare più l’erba dei parchi in nome della biodiversità e di tutte le altre mirabolanti boiate per combattere la Co2, qui negli ultimi dieci anni si è costruito il 10% di tutte le volumetrie realizzate a livello nazionale in una città tutto sommato piccola e già densamente urbanizzata.
Una cementificazione fuori controllo per un’espansione edilizia basata sulla speculazione dei terreni e sulla rendita immobiliare che ha fatto impennare i prezzi e generato un mercato immobiliare sempre più esclusivo rendendo l’accesso alla casa impossibile per chi non dispone di un patrimonio familiare o di un reddito elevato.
Solo nell’ultimo anno Milano ha perso 50.000 residenti, soprattutto famiglie, una vera e propria espropriazione demografica e sociale, come accade sempre nelle città in cui viene lasciato solo al mercato la facoltà di decidere le dinamiche di inclusione ed esclusione. Ad essere buttata fuori dai confini della nuova città rifondata dall’ingegneria finanziaria garantita da Sala è stata soprattutto la classe media, quella che da sempre ha fatto germinare il tessuto urbano.
Le dinamiche del potere e i rapporti di forza si inscrivono sempre sul territorio e i grattacieli della speculazione milanese sono il simbolo materiale della guerra universale lanciata dalla finanza e dai fondi di investimento apolidi contro quella classe media illuminata e imprenditoriale che ha fatto grande la città e l’Italia con la sua economia reale fatta di mani, fatica e lavoratori (vedi qui). Ogni conflitto si dà sempre come dominio dello spazio e, dunque, come lotta per l’accesso ai territori e alle risorse, a Milano come in Sardegna. Grattacieli e pale eoliche sono i simboli del nuovo potere predatorio istituzionalizzato che espropria cittadini e contadini rubando loro, letteralmente, la terra sotto i piedi.
È un fenomeno del tutto nuovo quello a cui siamo di fronte oggi che va studiato in tutta la sua inedita portata perché il rischio altrimenti è che la giunta milanese non dimissionaria elemosinerà, ad esempio, alle fasce popolari più fragili quattro case popolari e tutto il sistema dei grandi picconatori continuerà senza essere davvero messo in discussione.
Sono decenni che in Italia non si fa più nessuna politica di edilizia popolare che ha, fra l’altro, la funzione di calmierare i prezzi del mercato immobiliare. La gerarchizzazione del territorio in base alle fasce di reddito non è certo iniziata ora. I ceti poveri hanno iniziato ad essere cacciati dai centri cittadini da almeno un secolo e mezzo con i piani di igiene dell’Ottocento. Le periferie e i quartieri dormitorio sono l’esito della rivoluzione industriale in risposta all’inurbamento delle masse contadine nell’800, fenomeno che da noi è arrivato solo nel II dopoguerra del Novecento. La polarizzazione centro-periferia che ha intessuto la città fordista (di cui Milano è perfetto esempio) oggi non esiste più nel senso che se la periferia è distanza, da intendersi non solo in senso topografico, allora tutto sta diventando una smisurata periferia incluso il centro storico, divenuto esso stesso estraneo e irriconoscibile ai propri cittadini dopo essere stato museificato, ridotto a vetrina per turisti e trasformato in una distesa infinita di grandi store della globalizzazione, un vero e proprio non luogo.

Il sindaco dai calzettoni arcobaleno con le bandierine dell’inclusività alzate e la retorica sui diritti delle minoranze, ha favorito la distruzione programmatica del tessuto sociale, ha cacciato la classe media dalla città, ha favorito la privatizzazione di ogni metro quadro facendo sparire il bene pubblico. Ha regalato la città alla peggiore speculazione di sempre: demolizioni e ricostruzioni di interi quartieri senza pianificazione, senza servizi, senza tutele, con enormi profitti privati e nessun beneficio pubblico.
Gli “espropri” indotti dalla speculazione non hanno colpito solo il residenziale ma anche il commercio di prossimità a causa dell’incremento vertiginoso dei canoni di affitto in tutti i quartieri coinvolti dalle innovative “riqualificazioni”. A Milano sono stati chiusi negli ultimi anni due negozi al giorno, attività storiche tramandate da generazioni, una vera desertificazione che ha cambiato il volto e la vita della città (vedi qui). Hanno cessato la loro attività non solo i piccoli negozi al dettaglio ma anche quelli più grandi e in attivo come Cargo in piazza XXV Aprile, punto di riferimento del design milanese, che era lì dal 1989 a fianco dei bottegai in un quartiere dove c’era ancora una composizione mista. Con le lacrime agli occhi Mauro Bacchini, fondatore di Cargo, confida che è stato costretto ad andare via perché la proprietà ha continuato ad alzare i prezzi fino a raddoppiare l’affitto pretendendo, inoltre, un investimento sulla ristrutturazione dello spazio pari a 600 mila euro che significava, inoltre, tenere chiuso il negozio per un anno. Richieste talmente inaccettabili da essere chiaramente strumentali ad un’esproprio forzoso per un cambio di destinazione d’uso dello spazio da riconvertire in lucrosi affitti residenziali di lusso.
Tabula rasa, quindi, di tutto ciò che ha storia, identità, familiarità con Milano, per impiantare nuovi modelli di abitare. Per i grandi picconatori la piazza pubblica del 21° secolo è quella rifondata da Apple in piazzetta Liberty a due passi dal Duomo.
Qui l’azienda ha aperto un megastore completamente interrato il cui tetto a gradoni si offre come auditorium richiamando il teatro greco per ospitare eventi durante tutto l’anno.

L’idea è di offrire alla città un nuovo centro di vita sociale perché “Apple Union Square e Piazza Liberty condividono una preoccupazione comune per il loro ambiente urbano circostante e mirano a dare un contributo positivo allo stesso”, come annunciato dall’azienda. Ecco a voi i “filantropi”: illuminati, caritatevoli, dalla parte della gente. Con il logo della “mela” in primo piano, naturalmente. L’accortezza di usare per i rivestimenti la stessa pietra della piazza storica fa si che l’interno dello store sembri la continuazione dell’esterno facendo percepire come equivalenti luoghi pubblici e luoghi privati, il bene comune e il profitto privato, spazi reali e spazi virtuali. Un global store, insomma, presente a Milano come a San Francisco, come ovunque: i non luoghi si assomigliano tutti e occupano sempre più spazio nel mondo annichilendo le località.
D’altronde Milano è una delle città più esemplificative nella corsa verso il futuro, ovvero la Smart City con cui si sta architettando la riprogettazione digitale del territorio e la rifondazione delle città sulle fondamenta del capitalismo della sorveglianza, della società del controllo e del disciplinamento sociale. Risulta infatti ai primi posti tra le città italiane per “smartness” (come certificato dal rapporto annuale iCity Rank e dal Booklet Smart City), vicina alle più moderne città europee come Berlino, Monaco, Amsterdam, Barcellona e Parigi per le infrastrutture di rete digitali e per la capillarità del wifi e della copertura broadband.
La Smart City è un progetto di rivoluzione urbana planetaria che, dietro la retorica di rispondere alle nuove sfide della contemporaneità come quelle della sicurezza, dell’ecologia, dell’innovazione e della crescita, persegue uno sviluppo economicamente e ideologicamente orientato. Il destino delle città non è deciso democraticamente ma viene imposto dall’alto a causa dell’ingerenza di lobby e organi sovranazionali non eletti da nessuno.
Beppe Sala, infatti, non risponde tanto ai propri cittadini quanto piuttosto a C40, l’influente network di sindaci creato e finanziato nel 2005 dalla Fondazione Clinton che fornisce la direzione strategica per la rete di megalopoli impegnate ad agire sul cambiamento climatico (ne fanno parte, ad esempio, Roma, Londra, Parigi, Barcellona, Copenaghen, Stoccolma, Bogotá, Rio, Los Angeles, New York, Tokyo, Seul, Cape Town).
Non a caso, appena eletto sindaco di Milano, Sala è stato subito nominato nel 2016 vicepresidente di C40 affinché fosse chiaro cosa ci si aspettava da lui. Infatti, grazie al suo incessante lavoro, il capoluogo lombardo è all’avanguardia anche per aver inaugurato la sperimentazione della “Città dei 15 minuti” nel quartiere Loreto con il progetto “LOC, Loreto 15 Minuti” che vede l’intervento di N-Hood, società immobiliare responsabile del progetto.
Nel 2022 la “città dei 15 minuti” è stata dichiarata “movimento globale” e pilastro per la lotta al cambiamento climatico durante il C40 Summit tenutosi in Argentina, evento annuale organizzato dal Cities Climate Leadership Group.
Palazzo Marino punta, quindi, a ridisegnare la metropoli ispirandosi a Carlos Moreno, l’ideatore del nuovo modello urbano e consulente del sindaco di Parigi Anne Hidalgo che ne ha adottato la formula fin dalla campagna elettorale del 2019. L’idea è suddividere la città in quartieri autosufficienti dotati di tutti i servizi essenziali prossimi alla residenza dei cittadini: tutto deve essere raggiungibile in 15 minuti a piedi, in monopattino o in bicicletta, allo scopo di disincentivare l’uso dell’automobile, riducendo l’inquinamento, la CO2 e la congestione del traffico. Ora, dotare ogni quartiere dei servizi essenziali dovrebbe essere la normale pianificazione di ogni buona urbanistica mentre qui lo scopo è altro e riguarda il controllo della libertà di movimento delle persone con il rischio di creare dei veri e propri recinti.
Non dimentichiamo che il capoluogo lombardo è stato il primo in Italia ad introdurre nel 2011 l’”Area C” sotto la giunta di Letizia Moratti ispiratasi, come dichiarò, direttamente a Londra: ufficialmente per ridurre il fantomatico riscaldamento globale, di fatto per rivoluzionare la conformazione urbana, lo spazio di movimento sul suolo pubblico, l’accesso alle strutture e ai servizi principali della pubblica amministrazione, la vita di tutti gli abitanti. Del tutto inutile anche per ridurre lo smog dato che l'”Area C” viene applicata nel centro della città a scapito del fatto che le punte del traffico automobilistico avvengono sulla cintura esterna delle circonvallazioni e delle tangenziali, la ZTL nasce per erigere nuovi confini invisibili e invalicabili per tutti tranne per chi, come a Milano ad esempio, può permettersi di pagare 7,50 euro per l’ingresso portando ad una ulteriore gerarchizzazione del territorio in base alle fasce di reddito. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che dove si impianta una ZTL i negozi chiudono non solo perché perdono clienti ma soprattutto perché devono sobbarcarsi il costo per l’ingresso dei camion che scaricano le merci.
Ciò che deve sempre inquietare non sono tanto i palazzinari quanto piuttosto i fanatici: i primi se ne vanno una volta presi i soldi, i secondi non si accontentano finché non hanno costretto le persone a vivere dentro le loro malate utopie.
D’altronde Milano è la sede dove si è eretto nel 2014 il monumento-manifesto green progressista per antonomasia, il Bosco Verticale firmato da Stefano Boeri, vincitore di innumerevoli premi internazionali e riverito da tutto il circuito culturale che conta.

Due parallelepipedi di cemento che giganteggiano con i loro 112 e 80 metri di altezza, del tutto fuori scala rispetto al contesto, un’aggressione alla città ammantata da un maquillage green che ha dei costi di gestione altissimi.
L’archistar è già indagato per il Pirellino, per Bosconavigli e per turbativa d’asta e false dichiarazioni per la Biblioteca europea di informazione e cultura (Beic), un progetto in ferro e vetro che, come tutte le architetture di questo genere tanto alla moda, non ha proprio nulla di sostenibile essendo una tipologia nata nei paesi nordici dove il clima è freddo e che spostata in Italia richiede molta aria condizionata in estate e molto riscaldamento in inverno.
Il “modello Milano” è solo la punta dell’iceberg di un lungo processo iniziato a partire dagli anni ’90 in cui il sistema di gestione, controllo e tutela del territorio da parte del potere pubblico (la defunta urbanistica) è stato progressivamente delegittimato e smantellato ad opera di ministri, amministratori e incompetenti che hanno liberalizzato e normalizzato il saccheggio del territorio italiano, svilito a merce su cui speculare fino a prefigurare la totale alienabilità del suolo, della memoria dei luoghi, della qualità dell’abitare, della vita delle persone, del futuro dei giovani.
Negli anni, infatti, si è passati dai vecchi “Piani Regolatori”, visti come strumenti troppo rigidi per un Paese in corsa verso la modernizzazione, a innumerevoli riforme (“Piani di governo del territorio”, “Accordi di programma”, “Programma integrato di intervento”, ecc.) che hanno consentito di costruire in deroga al Piano Regolatore spacciando per semplificazioni amministrative in favore dei cittadini quella che in realtà era solo la volontà di facilitare le speculazioni di pochi.
Sono decenni che lo spazio in cui viviamo viene devastato impunemente ogni giorno, il pubblico interesse calpestato e il territorio saccheggiato per il profitto di pochi. Un processo che va avanti grazie al disinteresse per i propri luoghi e all’apatia dei cittadini che sono i più efficaci alleati dei predatori senza scrupoli insieme alla disinformazione operata da media addomesticati che mistificano interessi privati con formule magiche come quella di “sviluppo sostenibile”, come denuncia da tempo Salvatore Settis (e il mio “Milano S.p.A.” è un omaggio al suo “Italia S.p.A.” del 2007).
Lo scandalo urbanistico di Milano deve essere l’occasione per mettere al centro il tema della tutela del territorio analizzando seriamente le ragioni del suo logoramento.
La città è l’elemento portante della stessa società civile e dell’identità comunitaria, è il bene comune per eccellenza, il fondamento stesso della democrazia, della libertà, della legalità, dell’uguaglianza, è lo spazio della politica, della politeia come testimonia la parola greca polis. È un valore assoluto che non può essere svenduto a nessun prezzo.
Intanto, il 21 luglio 2025, è arrivata una sentenza di cui poco si è parlato che ferma la deregulation milanese e restituisce dignità alla pianificazione urbanistica rimettendo al centro il diritto alla città. La Cassazione (con sentenza 26620) ha confermato il sequestro del cantiere delle Residenze Lac nel Parco delle Cave con la motivazione che non si possono spacciare per “ristrutturazioni” interventi che distruggono tutto e ricostruiscono grattacieli con funzioni e volumi nuovi. Serve un piano urbanistico, non una semplice Scia, perché gli edifici vanno programmati pubblicamente.
“L’ambizione di Milano non può essere quella di costruire grattacieli”, ha detto l’urbanista Elena Granata alludendo alla grande scuola di maestri dell’architettura novecentesca che qui hanno fatto la cultura del progetto.

Complimenti, ottimo articolo!