Nell’odierno “mondo libero” niente fa più paura della libertà di pensiero. La dialettica è un retaggio del passato, il pensiero critico viene percepito come una minaccia, il voto popolare come un incubo. C’è la paura all’origine dell’incredibile levata di scudi sui media e sui social per impedire il convegno “Mariupol. La rinascita dopo la guerra” a Modena. La sopravvivenza delle élite occidentali è ormai possibile solo attraverso un crescente restringimento delle libertà individuali e della volontà popolare.

C’è stato un tempo – e non parliamo di secoli, ma solo di pochi decenni fa – in cui citare l’art. 21 della Costituzione era superfluo. Perché era implicito che “chiunque ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. In quel tempo, cronologicamente non troppo lontano, ma che oggi sembra appartenere a un’altra epoca e a un altro mondo, quando qualcuno leggeva o ascoltava un pensiero che per qualche ragione riteneva errato, pericoloso o altrimenti sgradito, reagiva provando a confutarlo. Per prima cosa, cercava un mezzo, un luogo, un’occasione per controbattere: scriveva un saggio, un libro, un editoriale, rilasciava un’intervista, organizzava una manifestazione. Ove possibile, chiedeva un confronto pubblico. Piuttosto che zittire l’avversario, cercava di smontarne le tesi. Anche perché temeva, e a ragione, che la censura avrebbe finito per produrre l’effetto opposto a quello auspicato, ossia rendere più popolari le tesi che si prefiggeva di combattere.

Zittire è meglio che confutare

Oggi il confronto non si fa più. Da tempo. In una società ormai divisa in monadi che hanno cessato di comunicare tra loro, il contraddittorio non va più di moda. Nemmeno nei talk show, dove fino a qualche anno fa si assisteva, sia pure in un contesto finalizzato per lo più alla spettacolarizzazione, ad accesi dibattiti tra sostenitori di idee e posizioni diverse, talvolta diametralmente opposte. Già nell’agosto del 2021 scrivevamo infatti in un nostro editoriale:

I meno giovani tra i nostri lettori ricorderanno certamente i talk show di 25 o 30 anni fa, quando vigeva la cosiddetta par condicio e si era soliti invitare nelle trasmissioni un egual numero di esponenti della maggioranza e dell’opposizione, se non altro nella speranza di aumentare l’audience e la visibilità del programma presso il maggior numero possibile di telespettatori. Niente di tutto ciò sembra rimasto oggi. I talk show si sono ridotti a conventicole chiuse, con indici di ascolto per lo più modesti, dove gli invitati vengono scelti da due o tre potentissime agenzie di consulenza strategica di comunicazione e sono, quindi, inevitabilmente sempre gli stessi, dove il dibattito avviene all’interno di confini rigorosi, ritenuti ideologicamente e politicamente ammissibili, dove si escludono fin dall’inizio voci realmente dissenzienti e discordanti, dove la diversità tra i partecipanti è data più dalla personalità e dall’individualismo che da reali differenze politiche o ideologiche. Oppure pensiamo ai sempre più decadenti quotidiani a tiratura nazionale, che da anni si dibattono disperatamente per sopravvivere alla chiusura cercando di rivolgersi a un target di pubblico ben definito e sempre più circoscritto, consapevoli dell’impossibilità di raggiungere fasce di pubblico che ormai semplicemente “parlano un’altra lingua”. I media mainstream sembrano aver abbandonato ogni velleità di raggiungere quello che un tempo si chiamava il grande pubblico. Consapevoli che questo obiettivo è ormai un’utopia nella società di oggi, mirano selettivamente a una fascia di pubblico che sanno essere raggiungibile e di cui conoscono bene l’orientamento, le sensibilità, gli umoriFingono che l’altra parte della società semplicemente non esista e deliberatamente la ignorano. Il concetto di totalità, ammesso fosse raggiungibile in passato, oggi è consapevolmente scartato fin all’inizio.

DECOUPLING SOCIALE IN FASE AVANZATA. LA CHIAVE PER VINCERE? ORGANIZZARSI – Dalle manifestazioni al mondo parallelo, 17 agosto 2021, Giubbe Rosse

Oggi la dialettica è un ricordo del passato. E non solo nella politica propriamente detta. Lo stesso fenomeno è visibile da tempo anche nel campo dell’economia, dell’energia, della climatologia, più recentemente nelle scienze mediche. Il dibattito, anche laddove sopravvive, rimane rigidamente confinato all’interno di ambienti che condividono in partenza paradigmi, ideologie, concezioni del mondo, obiettivi. Vige una sorta di convinzione implicita secondo cui chiunque non condivida quei punti fermi non meriti di partecipare e non abbia neppure diritto di manifestare il proprio dissenso. Deve essere ignorato, se necessario, ridotto al silenzio. “Chi ha dei dubbi sul vaccino Covid verrà zittito, non avrà diritto di parola, non scherziamo più”, ebbe a dire un parlamentare dell’allora maggioranza non più tardi di tre anni fa. “Io in questa trasmissione i no-vax non li invito”, disse in diretta una nota conduttrice televisiva, con l’aria di chi sta affermando una verità così ovvia che è quasi una scocciatura doverla esplicitare. Nei rari casi in cui un personaggio che sostiene tesi non allineate continua ancora a godere di un qualche spazio sui mainstream o in una università, non ci si fa scrupolo di attaccarlo con campagne diffamatorie, arrivando a promuovere raccolte di firme per chiederne apertamente l’allontanamento forzato, l’oscuramento, l’espulsione, il licenziamento. C’è chi va oltre e sui social crea autentiche liste di proscrizione di “nemici”, magari sperando che vengano lette da un giudice compiacente o dal management della piattaforma e si trasformino un giorno in altrettanti ban.

Dalla battaglia sulle idee alla battaglia sugli spazi

Nessuno, insomma, vuole più discutere. La battaglia non si fa più sulle idee, ma direttamente sugli spazi in cui si dovrebbero discutere le idee. L’obiettivo non è più sconfiggere l’avversario nell’arena, ma escluderlo preventivamente dall’arena. Anche perché l’arena è oggi controllata da quegli stessi soggetti che, direttamente o indirettamente, la occupano o hanno facoltà di decidere chi può occuparla. L’ultimo di una lunghissima serie di esempi ci viene proprio in queste ore dalla campagna in atto sui media e sui social per impedire lo svolgimento del convegno intitolato “Verso un mondo multipolare. Mariupol. La rinascita dopo la guerra”, che si sarebbe dovuto svolgere nell’ultima settimana di gennaio in quattro città d’Italia (Milano, Modena, Bologna, Lucca). La presenza tra gli ospiti di nomi come Giorgio Bianchi, Andrea Lucidi e, soprattutto, Alexander Dugin, che avrebbe dovuto partecipare in collegamento Internet, ha messo in stato di allerta massima politici e media legati alla galassia dell’attuale opposizione. Allarme rosso, il nemico è alla porte! Per giorni il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli ha dovuto rispondere ad appelli diretti di giornali, riviste, esponenti politici, in prima linea quelli del suo stesso partito, affinché trovasse un modo, non importa se de iure o d’autorità, per impedire lo svolgimento del convegno. Inizialmente il sindaco ha provato a resistere alla pressione, ricordando che la richiesta della sala aveva seguito procedure regolari e che, pur non condividendo personalmente i temi affrontati nella conferenza, non trovava alcun motivo valido per revocarne l’uso. In un post su Facebook del 4 gennaio, Muzzarelli scriveva ancora che “non c’è alcun patrocinio del Comune e nessuna forma di sostegno, tantomeno economica, a questo appuntamento per il quale l’associazione ha sottoscritto l’impegno previsto dal regolamento comunale a condividere i valori sanciti dalla Costituzione e dalla Repubblica Italiana”, illudendosi probabilmente che questo bastasse a placare le polemiche e a rimarcare al tempo stesso la propria estraneità all’evento. Niente di più sbagliato. La polemica e la pressione sono aumentate. Ieri Più Europa, che nel 2022 si definiva niente meno che “l’unico partito in Parlamento liberale, libertario e garantista”[1], ha attaccato violentemente la conferenza con un tweet (vedi immagine sotto il titolo), sostenendo che essa divulgherebbe “informazioni false e paradossali che annunciano l’arrivo di una vera e propria campagna di propaganda filo-putiniana in Italia”. Un esponente dell’associazione “Liberi oltre le illusioni” (mai nome fu scelto con maggiore senso dell’umorismo) ha scritto sul proprio account X che, nell’eventualità in cui il sindaco non si decidesse a impedire la conferenza, sarebbe sceso in piazza per protestare. Come prevedibile, alla fine il sindaco Muzzarelli ha ceduto. Ieri ha annunciato infatti dal suo profilo Facebook che martedì prossimo proporrà “alla Giunta comunale la revoca del noleggio della sala civica di via Viterbo per l’appuntamento del 20 gennaio su Mariupol”.

Non perderemo tempo ad analizzare le ragioni addotte dal sindaco per giustificare il proprio dietrofront, palesemente motivato dall’enorme pressione politica alla quale è stato sottoposto per giorni. Certo, fa riflettere vedere citati “i valori sanciti dalla Costituzione e dalla Repubblica Italiana”, i quali, se mai, avrebbero dovuto indurre il sindaco a non cedere alla pressione e a garantire la libertà di pensiero e di espressione. Così come fa sorridere il riferimento al “divieto di professare e/o praticare ideologie e comportamenti fascisti e razzisti” per giustificare la decisione di impedire d’ufficio lo svolgimento di un evento. Decisione che non potrebbe essere intrinsecamente più fascista. Non è questa la sede per un simile approfondimento. Né vale la pena soffermarsi più di tanto a commentare etichette come quella di filosofo neofascista[1] attribuita ad Alexander Dugin o di “reporter filorusso negazionista del massacro di Bucha” in riferimento a Giorgio Bianchi. Il lettore medio a cui si rivolgono quelle testate non ha l’abitudine di occuparsi di geopolitica, se non per quel poco di totalmente distorto che gli arriva appunto da quelle stesse testate. Se scrivessero che Dugin trascorre il tempo libero fabbricando missili nel proprio scantinato o che Giorgio Bianchi ha l’hobby di pescare aragoste in Thailandia nel fine settimana, in pochi tra i loro lettori si prenderebbero la briga di andare a verificare se quelle affermazioni corrispondono a verità. Il target al quale mirano non è abituato a farsi domande. Preferisce di gran lunga affermazioni apodittiche che confermano le certezze.

Applicare la censura per salvare l’illusione

C’è da scommettere che simili azioni ostruzionistiche seguiranno nelle prossime ore anche nelle altre città in cui si sarebbe dovuto svolgere l’evento, fino a quando non verrà cancellato del tutto. Del resto, è già accaduto ripetutamente in questi ultimi anni per altre iniziative analoghe. Non è il primo né sarà certamente l’ultimo caso. Piuttosto viene da chiedersi, almeno a chi non soffra di miopia patologica, che cosa si speri di ottenere impedendo fisicamente lo svolgimento di un convegno che, in un modo o nell’altro, oggi o domani, in una sede fisica o in un dibattito online, troverà comunque il suo spazio, magari con interlocutori diversi. Illudersi che il boicottaggio basti a far sparire idee comunque condivise oggi da ampie fasce della società è un po’ come sperare che il sole cessi di esistere là fuori solo perché si abbassano le tapparelle e la luce non entra più in casa. Ma anche questa è una domanda retorica. Il vero motivo all’origine di queste penose azioni di censura e ostruzionismo è essenzialmente uno: la paura. La paura di fare i conti con una realtà che, uno dopo l’altro, demolisce invariabilmente i loro dogmi. Che giorno dopo giorno smentisce le loro previsioni e irride le loro aspettative. Sono così spaventati dall’idea di leggere o ascoltare qualsiasi teoria, ipotesi, spiegazione diversa da quella cui sono abituati che l’unica cosa che sanno fare per combatterla è delegittimarla in partenza con etichette, stereotipi, marchi infamanti. Prima ancora di conoscerla. Sperano di fare abbastanza paura da indurre i potenziali interessati a tenersi lontani. Sono così terrorizzati dall’idea che le persone scelgano fonti diverse dalle loro per informarsi che chiedono ai social, alla magistratura, all’Unione Europea, al Parlamento di chiudere per legge quelle fonti. Qualsiasi informazione che non confermi le loro aspettative o metta in crisi il loro sistema di valori è potenzialmente pericolosa e merita quindi di essere censurata preventivamente come “disinformazione”. Anche un semplice convegno basta a togliere loro il sonno: agitano lo spettro di fantomatiche quinte colonne e infiltrazioni straniere, fanno partire campagne di odio, creano hashtag, invocano la ragione di stato, la sicurezza nazionale, minacciano contromanifestazioni fino a quando l’evento non viene annullato. Hanno così tanta paura del loro avversario che, anziché affrontarlo e sconfiggerlo, lo evitano in tutti i modi. Vorrebbero vincere a tavolino, per decisione d’ufficio, per squalifica preventiva dell’altro contendente. Chi è abituato all’autoreferenzialità non può permettersi il lusso del confronto. Il fanatismo crolla miseramente ogni qualvolta è costretto a misurarsi con qualcosa di diverso da se stesso. Nel momento in cui si apre, si rivela per ciò che è, quindi fatalmente muore. Può sopravvivere solo in ambienti chiusi, refrattari a ogni influsso esterno, all’interno di un sistema circolare nel quale le risposte ammesse sono unicamente quelle già implicite nelle domande. Se già un convegno o un canale Telegram li spaventa, immaginate il terrore che possono suscitare le elezioni. “Ho paura della paura, ho paura che gli europei votino perché hanno paura”, ha detto recentemente l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell al Guardian[2]. Non sembra andare meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il principale avversario dell’attuale presidente, sebbene dato in vantaggio in tutti i sondaggi, deve affrontare una lunga serie di guai giudiziari che alla fine potrebbero comprometterne l’eleggibilità stessa. Da mesi editorialisti, opinionisti, analisti politici del mainstream ammoniscono che un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca rappresenterebbe uno scenario da incubo, se non addirittura la fine della democrazia stessa. Qualcuno è arrivato a sostenere che sarebbe addirittura preferibile un colpo di stato.[3]

Paradossale, no? La libertà individuale, la libertà collettiva, il libero esercizio del voto, tutto ciò che un tempo rappresentava il fiore all’occhiello delle democrazie occidentali, il presupposto su cui si fondava la convinzione della superiorità civile ed etica delle proprie istituzioni rispetto ad altre forme di governo, oggi sono visti come un ostacolo, anzi, come il principale limite del sistema. Il “mondo libero” è arrivato al paradosso per cui ormai riesce a concepire la propria sopravvivenza solo invocando ciò che ha sempre affermato di voler combattere: la censura e l’eliminazione coatta degli avversari politici.

Il punto di non ritorno è stato raggiunto

Difficile credere, al punto in cui si è arrivati, che si possa tornare indietro. Quello che ancor oggi ama definirsi “mondo libero” appare sempre più simile a una teocrazia nella quale il dissenso è bandito, prima di ogni altra cosa, per necessità. Chi è arrivato a postulare la fine della storia ed è convinto di rappresentare il prodotto raffinato, selezionato e distillato di tremila anni di civiltà non può permettersi anche solo di considerare la possibilità di essere in errore. Dovrebbe tornare indietro di troppe caselle, ripensare troppi paradigmi, mettere in discussione troppe certezze su cui ormai ha investito risorse e denaro e attorno a cui ha costruito verità ed equilibri. Dovrebbe soffermarsi a riflettere su come e perché l’attuale sistema non sia più in grado di distribuire ricchezza come faceva un tempo. Sul perché negli ultimi trenta anni la forbice tra il 10% più ricco e il resto della popolazione si sia allargata a dismisura. Sul perché la precarietà sia diventata ormai la normalità. Sui motivi che spingono ogni anno milioni di giovani a cercare fortuna all’estero, mentre si continua a imbarcare disperati da altri continenti, senza peraltro offrire loro prospettive. Su come l’economia sia ormai totalmente asservita alla finanza, sul perché si continui a tagliare servizi pubblici essenziali e a chiedere sacrifici ai cittadini quando la spesa pubblica degli stati nazionali continua a gonfiarsi per effetto degli interessi sul mostruoso debito accumulato. Troppo complesso, troppo difficile. Molto più semplice dare un calcio al barattolo e spostare l’incontro con la realtà di qualche mese, di qualche anno. Molto più rassicurante pensare che le contraddizioni interne di questo sistema siano riconducibili a fattori esterni. Che gli insuccessi elettorali siano dovuti a intromissioni della Russia piuttosto che alla propria debolezza intrinseca. Che le difficoltà incontrate nell’attuazione del Green Deal si debbano alla concorrenza sleale della Cina piuttosto che alla propria imbarazzante miopia, ad assiomi fallaci e obiettivi irrealistici. Molto più comodo credere che il progressivo allontanamento di milioni di individui dalla politica e la loro eclatante perdita di fiducia nelle istituzioni siano attribuibili a ignoranza, rassegnazione, analfabetismo politico piuttosto che ammettere che nessuno è interessato a partecipare a decisioni dalle quali sa già in partenza che sarà escluso. Chi è disposto a scommettere in un gioco in cui le carte sono notoriamente truccate? In un contesto del genere non c’è più spazio per la dialettica o per il confronto. La Costituzione non è più un recinto invalicabile: oggi viene usata o ignorata, applicata o calpestata a seconda delle convenienze. E poco importa se la maggioranza non è d’accordo. Tanto decidono loro e, dal loro punto di vista, è bene che sia così.

Quasi naturalmente, il pensiero neoliberale dominante ha sostituito a poco a poco la dialettica con la censura e trasformato la battaglia contro il dissenso in una battaglia per la propria stessa sopravvivenza. Senza rivoluzioni, senza salti quantici, senza grandi scossoni. Ci si è arrivati per gradi. Inventandosi a ogni passaggio un’emergenza, una necessità impellente, un Fate presto, un Ce lo chiede X o Y. Fino al punto di non ritorno. Oggi sono sempre meno quelli convinti di essere sulla rotta giusta, ma ancora meno quelli che si illudono di poterla correggere tornando indietro. L’iceberg è lì che ci attende. Molti non lo vedono e neppure lo vedranno quando si spalancherà alla loro vista in tutta la sua fragorosa enormità. Altri lo vedono da tempo ma, stanchi di non essere ascoltati, si sono rassegnati all’inevitabile e attendono la fine, un po’ per sarcasmo, un po’ per compiaciuto autolesionismo, canticchiando le melodie dell’orchestra.

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