Il sito archeologico dell’antica città buddista di Mes Aynak, in Afghanistan, è situato in un’area ricchissima di rame, la cui estrazione è stata da tempo data in appalto a società cinesi. Negli anni passati si è accesa un’aspra controversia internazionale e mediatica che ha surrettiziamente contrapposto la Cina “sfruttatrice di risorse” all’Occidente “paladino della cultura”. Dopo la fuga degli americani da Kabul, il governo talebano e la Cina sembrano finalmente aver trovato un compromesso.

Il sito di Mes Aynak (che vuol dire “piccolo pozzo di rame”) si trova nella montuosa e arida provincia di Logar, ad una quarantina di chilometri a sud-est di Kabul. Fin dall’antichità sfruttato per l’estrazione del rame, è il sito buddista più importante dell’Afghanistan (dopo la Valle di Bamiyan), anzi per gli archeologi francesi responsabili della ricerca “uno dei siti più significativi della Via della Seta”. Si presenta come un cerchio di stupa e monasteri costruiti tra il III e il VII secolo nei pressi di antiche miniere di rame, in cui probabilmente lavoravano gli stessi monaci. Su per la montagna, da sempre roccaforte dei Talebani, Osama Bin Laden aveva un campo di addestramento nel 1999, forse in preparazione dell’attacco alle Torri gemelle. Tutte le tracce del campo sono oggi sparite, ma ci furono diffusi saccheggi nei primi anni 2000 come testimoniano le decine di statue prive di teste, spezzate per distruggere i simboli religiosi.

Nell’area di Mes Aynak, dal 2007 il governo afghano ha negoziato una concessione trentennale per l’estrazione di rame con due giganti minerari cinesi di proprietà statale, Metallurgical Group Corp e Jiangxi Copper, poi confluiti nella società MJAM. Affare che rappresenta il più importante investimento straniero nella storia dell’Afghanistan. E il progetto dell’enorme miniera a cielo aperto interessa la maggior parte dei resti archeologici che si trovano proprio sopra il deposito di rame.

A questo punto, si scatena il putiferio. La mobilitazione internazionale interviene con un appello per il salvataggio. È una lotta contro il tempo affinché i segni del buddismo non vengano ‘inghiottiti’ dall’enorme miniera dei cinesi. L’operazione di salvataggio dei resti archeologici, cui concorrono missioni di vari paesi, rappresenta un ulteriore record: è il più grande scavo archeologico del mondo, con migliaia di lavoratori impegnati. Nel 2009 a Gol Hamid, passo di montagna vicino al campo cinese, cominciano gli scavi realizzati congiuntamente dall’Istituto Nazionale di Archeologia dell’Afghanistan e dalla missione DAFA francese.

Prima ancora dell’inizio dell’estrazione, mentre un gran numero di operai stava già costruendo le infrastrutture, la proprietà cinese stessa offre di sospendere i lavori per tre anni mettendo a disposizione personale qualificato nello scavo archeologico. Nel 2010 il viceministro afghano per l’Informazione e la Cultura promette che il numero di archeologi impiegati sarebbe passato da 30 a 65 e che il numero di operai sarebbe aumentato da 90 a 900. Inoltre, c’è piena disponibilità della Cina ad inviare archeologi qualificati insieme ad aiuti. Anche l’ambasciata americana a Kabul sostiene le indagini e il salvataggio di reperti presso il Museo Nazionale di Kabul, benché le sue strutture di stoccaggio e conservazione siano inadeguate a gestire il volume del materiale riportato alla luce. Gli scavi del complesso monastico tra 2009 e 2010 portano a notevoli risultati. Nel 2010 i lavori archeologici sono trasferiti nel sito di Tepe Kafiriat, più in alto sulla montagna, protetto da una forza di 1.600 militari. In marzo 2011 alcuni reperti sono in mostra a Kabul nell’esposizione Along the Silk Road: Recent Excavations from Mes Aynak.

Con il contributo cinese (i lavori di estrazione del rame erano sospesi ormai da 4 anni), viene allestito, a 8 km dalla miniera, un museo-laboratorio dove ricostruire gli stupa dopo lo smontaggio. I politici sembrano sempre più ottimisti per la ricaduta di immagine. Dal 2014 in poi si moltiplicano le iniziative. Appena eletto, Donald Trump dichiara sostegno e assistenza da parte della sua amministrazione.

Tutto degenera negli anni 2017-18 quando vengono lanciati appelli e sottoscrizioni per salvaguardare Mes Aynak dai supposti ‘appetiti’ cinesi e da uno “scontro di civiltà” tra la Cina, sfruttatrice di risorse, e il mondo occidentale, paladino di cultura. Di fatto, si dimentica o si sottace il valido contributo cinese che ha sospeso i lavori estrattivi per anni, fornito risorse umane specializzate e stanziato fondi per una appropriata salvaguardia dei reperti. La messinscena di questo ‘scontro di civiltà’ è raccontata con dettagli “strazianti” nel notissimo documentario “Saving Mes Aynak” di Brent Huffman (non archeologo ma professore alla Medill School of Journalism, University Evanston, Illinois, USA).

La questione degenera quando gli sforzi di protezione sono stati messi in discussione da minacce dei Talebani e da saccheggi opportunistici. Il progetto minerario cinese è ulteriormente osteggiato perché provocherebbe il trasferimento forzato delle comunità che vivono nell’area e per la prospettiva che l’estrazione del rame abbia ripercussioni ambientali, su cui Huffman ammonisce: “Ci sarà un enorme cratere tossico dove nessuno potrà più vivere. I serbatoi d’acqua che immagazzinano acqua potabile e sfociano a Kabul e in Pakistan saranno permanentemente inquinati” (Fonte: “International Business Times”). Dopo anni di lamentele, accuse e false partenze, a novembre 2017 i Talebani danno la loro approvazione, impegnandosi ufficialmente sulla sicurezza dei lavoratori cinesi e locali.i

A giugno 2023, dopo che gli USA se ne sono andati, la società estrattrice cinese MJAM non ha ancora potuto iniziare ad operare a causa della mancata acquisizione di terreni (che avrebbe dovuto concedere il governo “democratico” almeno 6 anni prima!). Per procedere, è dunque necessaria la cooperazione dell’Emirato islamico che, da parte sua, è soddisfatto che la MJAM sia contrattualmente obbligata ad aiutare le famiglie bisognose della zona. Il ministro della Cultura e delle arti, Atiqullah Azizi, dichiara che il suo ministero ha preparato un piano per preservare l’antico sito e afferma che spera di iniziare il prima possibile. Anche il Ministero delle Miniere e del Petrolio afghano afferma l’interesse ad avviare i lavori e sta trattando con MJAM per risolvere eventuali divergenze sul progetto.

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Fonti: “Il tempo sta per scadere per il sito archeologico di Mes Aynak?” di Craig Lewis, “Buddhist door Global”, 09/02/2017; “Mes Aynak mining still on hold as company deals with challenges”, 22/06/ 2023

articolo estratto da “Afghanistan. Storia, geopolitica, patrimonio” ed. Anteo, 2023

i Qualche titolo di stampa per rendere l’idea delle molte falsità e disinformazioni: “La Cina ha in programma di distruggere un’antica città buddista per sfruttare il rame” (CNBC); “La Cina ottiene il via libera dai talebani per estrarre rame in Afghanistan” (CNBC); “La Cina distrugge la città buddista di 5.000 anni in Afghanistan per l’estrazione del rame” (International Business Times) [N.d.r. non esiste nessuna “città buddista” ma si tratta di siti monastici e le date sono ridicolmente sballate]; “I talebani afgani danno il segnale verde alla Cina per lo scavo di una miniera di rame da 3 miliardi di dollari” (Daily Pakistan); “La storia dietro la Miniera cinese a lungo stallo in Afghanistan” (The Diplomat); “Antichi tesori su un terreno instabile mentre i minatori cinesi corteggiano Kabul” (The Sydney Morning Herald).

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