La crisi dell’arte è segno della crisi di questa umanità, di questo tempo. Del suo essere sprofondato nel materialismo. Ed è una crisi che avvolge tutti noi. Occorre andare alla radice per delineare nuove traiettorie di azione.

I tempi che stiamo attraversando dovrebbero manifestare un fermento culturale e in particolare artistico senza eguali, perché è dei tempi di turbolenza, di sgretolamento dei vecchi paradigmi il far germogliare nuove ondate di creatività, rifiorimenti inattesi quanto salutari. Perché è proprio nel dramma e nell’oscurità che si accende la fiammella dell’arte. Invece? Invece si è testimoni di un’aridità che pare addirittura guadagnare spazi e confini. Le cause sono plurime, ma per coglierle occorre scavare in profondità senza timore di portare alla luce verità scomode, anche per chi si ritiene “divergente”. Lo faremo a partire da una lettura Tradizionale della realtà, una lettura che ovviamente avversa dalle sue radici lo “spirito del mondo moderna”. E lo faremo conducendo il lettore oltre le analisi stantie, verso traiettorie di azione che altrimenti sarebbero impensabili.

L’arte è l’attività umana che più di ogni altra manifesta la convivenza del piano spirituale con il piano materiale, avendo come fine proprio l’ordinamento formale della materia grezza a principi di natura soprannaturale. Guardiamo per un attimo dove oggi l’arte, o più in generale l’espressione creativa, trova spazio senza per il momento avanzare giudizi sulla qualità delle singole opere.

In qualunque negozio, supermercato, bar siamo costantemente intrattenuti da musica. Se accendiamo la radio, fra un intervento e l’altro dei conduttori, ancora musica. Scorrendo le pagine su internet, specialmente dei social network ci imbattiamo di continuo in fotografie d’autore, dipinti, video musicali, trailer di film. Alle pareti delle nostre abitazioni, come degli uffici ci sono stampe o quadri. La sera, rientrati a casa spesso guardiamo un film o una serie TV. Senza nominare tutte le opere d’arte che abbelliscono le nostre città o i nostri paesi e che magari vediamo ogni giorno andando al lavoro. In realtà l’elenco potrebbe essere completato, ma ci pare già fin qui sufficiente per constatare che noi siamo letteralmente circondati da espressioni artistiche, che le nostre giornate sono riempite dei loro suoni e immagini sino all’inverosimile.

Ribadiamo che non è ancora il momento per noi di fare delle considerazioni qualitative. Fra questo oceano di creatività vi sono alcune cose eccellenti, moltissime mediocri e altre addirittura inqualificabili. Resta però il fatto fondante, ovvero che l’arte è ovunque nelle nostre vite, nelle nostre quotidianità. E noi?

Noi la trattiamo come un che di accessorio, un qualcosa che, nella quasi totalità dei casi, resta come un sottofondo. Ma se immaginassimo, che questo sottofondo scompaia, noi avvertiremmo un vuoto incredibile. Un vuoto a cui probabilmente non riusciremmo nemmeno a dare un significato definito. Perché in fondo la nostra attenzione, il nostro “tesoro” è altrove. Del regno dell’immateriale non abbiamo più forse le coordinate, talmente ci siamo ormai rinchiusi nelle tristi stanze della materia.

Bisogna però subito precisare quale sia la prima e più importante vittoria del materialismo. Essa non consiste, come forse pensano troppi, nella cancellazione della dimensione spirituale, quanto nella separazione netta fra piano della materia e il piano dello spirito. Separazione che si è resa piuttosto facile eliminando la dimensione intermedia, animica.

Dobbiamo tornare quindi indietro di molti secoli per osservare come tale separazione ha avuto il suo nascere ed evolversi. Scrive ad esempio un Guénon riferendosi al Rinascimento: «Quanto alle scienze tradizionali del Medioevo, esse, dopo aver avuto in quest’epoca qualche ultima manifestazione, disparvero in blocco, quasi come quelle di civiltà lontane distrutte da qualche cataclisma». Il Rinascimento è stato in verità ancora ricco di slanci intellettuali e artistici di grande livello, ma al suo sfumare è indubbio che tutta la conoscenza ha iniziato a sganciarsi sempre di più dal piano metafisico che può essere raggiunto non con la semplice ragione ma tramite l’intuizione intellettuale. E anche le arti che fino a quell’epoca conservavano il loro carattere eminentemente misterico ed iniziatico – la terminologia è assolutamente corretta – hanno assunto una fisionomia sempre più profana. Ricordiamo tra l’altro che nel Medioevo non si faceva distinzione fra artista e artigiano, il quale restava il più delle volte anonimo, ma si parlava essenzialmente di artifex.

Era chiaro, in quegli uomini, che il Cosmo e l’uomo trovavano il loro senso di unità e di integrità in Dio e di conseguenza non solo la conoscenza, ma anche l’ordinamento civile e le arti dovevano essere espressione di questa unità. Nulla era considerato profano.

Scrive a tal proposito Ugo di San Vittore: «Opera di Dio è creare ciò che non era, secondo quanto sta scritto: In principio Dio creò il cielo e la terra. Opera della natura è produrre all’atto ciò che prima era solo germe, secondo quanto è detto: Produca la terra erbe verdeggianti. Opera dell’artefice è congiungere le cose (tra loro) separate o separare le già congiunte; di ciò è detto: Unirono foglie di fico e si fecero indumenti». Congiungere e separare è quindi sempre opera di unità.

Da quell’epoca è iniziato un processo che ha mano a mano reso tutte le azioni dell’uomo totalmente profane, senza che lui se ne avvedesse compiutamente. Sempre più vano, perché puerile, è il tentativo di vivere oggi la dimensione spirituale senza tradurla nella materia: senza incarnarla.

Il materialismo, in quanto allontanamento dal Principio e quindi dall’unità, è scivolamento nel molteplice, che porta già in sé il veleno dell’individualismo, poiché appunto nega che vi debba essere un che di sopra-individuale a cui tutto e tutti si debbono uniformare. Questo individualismo tocca oggi il suo punto massimo nel fatto che quasi nessuno si sente parte di una comunità, membro vivo di un “corpo sociale”. Nessuno non solo avverte, ma nemmeno sospetta che si debba percepire il senso della responsabilità collettiva e quindi dell’espiazione collettiva, per cui «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme». Questa visione che si fa esperienza concreta e intima noi la abbiamo tragicamente perduta.

Tale corsa discendente oggi vede i suoi ultimi, accelerati, sussulti. E non vi è aspetto della vita, tanto individuale che collettiva, non vi è gruppo o conventicola per quanto si ritenga “antagonista” che non partecipi di questa malattia. L’arte non solo non fa eccezione, ma è forse una delle attività dell’uomo che per prima ha risentito di questo imbarbarimento. L’artista non è una monade poiché nessuno di noi “naturalmente” lo è. Ma venendo a mancare anche l’ultimo rimasuglio del senso di comunità e di tensione spirituale sincera, una tensione che deve fecondare la materialità delle nostre esistenze quotidiane, ecco che allora il fermento artistico a cui dovremmo assistere, stenta a mostrarsi. Perché vi possono essere veri artisti solo laddove vi è ancora un piccolo resto di vera comunità umana.

Ma nulla è affatto perduto, anzi! Il comprendere a fondo le radici della crisi di quest’era moderna ci chiama alla responsabilità e ci fa uscire dal nostro isolamento, dalla nostra sterile lamentela. Sebbene in superficie questo decadimento che è iniziato molti secoli addietro non pare avere argini, vi è infatti un piano nascosto e sottile che va invece inteso come evolutivo. Tutto quello che tragicamente appartiene al senso “letterale” della storia ha anche un valore simbolico e “teleologico”, per cui provvidenziale.

Oggi l’arte può e deve tornare ad essere protagonista, perché senza vera arte non c’è visione del mondo, del futuro. Ma per farlo ha bisogno dell’impegno di tutti gli uomini di buona volontà, i quali debbono prima di ogni altra cosa comprendere come anch’essi sono pienamente inseriti in questa decadenza, la quale ha origini così lontane. Ha bisogno di uomini che accettino quindi di entrare in crisi, di lasciarsi destrutturare per poi farsi ricostruire ed infine collaborare alla costruzione condivisa. Di uomini che riacquistino il valore preminente dell’immateriale sul materiale. Per far rinascere l’arte serve liberarsi del veleno del materialismo che come abbiamo descritto scorre in tutti noi, anche se non ne siamo consapevoli. Non sono i talenti a mancare, ma prima di tutto questo percepirsi inseriti in una traiettoria condivisa di vita. Tutti, artisti e pubblico, il quale deve tornare a farsi promotore attivo e finanziatore dell’arte. L’arte non può parlare il linguaggio dell’io, perché l’arte è come la vita. Essa esige di passare al linguaggio del Noi.

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2 pensiero su “I PERCHÉ DELLA CRISI DELL’ARTE. PARTE 1: IL MATERIALISMO”
  1. Molto molto interesssante, grazie! Questa “mancanza” di arte nel nostro mondo attuale è un pensiero che ogni tanto mi sfiora e sono felice di trovarlo esplicitato così bene qui.
    E quando ci sarà la parte 2 e magari altre?

    1. Grazie per aver apprezzato l’articolo visto anche l’argomento. Di arte, infatti, si parla davvero poco e male a nostro avviso. E già questo è un segno abbastanza eloquente.
      La seconda parte della nostra riflessione è stata già pubblicata. La può leggere qui
      https://giubberossenews.it/2024/03/24/i-perche-della-crisi-dellarte-parte-2-il-liberismo-dentro-di-noi/
      Le restanti parti (in totale dovrebbero essere quattro) saranno pubblicate nelle prossime settimane.
      In ogni caso può cliccare sul nome dell’autore degli articoli così da visualizzare lo storico delle pubblicazioni e vedere anche gli articoli pregressi. Prevalentemente sul cinema, ma sempre come pretesto letterario per parlare di questo tempo, di questa società, di questa umanità. Partendo da una visione tradizionale.

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