Sono svanito come i petali d’un fiore a fine estate
Come pennuto fuoriuscito da spazi caldi e infuocati
Sostenuto dal vento: soffio solare e vento e dalle mie fragili ali.
E la valanga continua il suo cammino verso la tenera valle
E nessuno può scampare: tenera soffice molle neve. 
E mentre nello stesso baleno o lampo, il mio amore si spegne,
come piante e fiori a maggio o a giugno al solstizio sfiorito
Ecco! il tuo bacio definito a tergo di un oceano di sale.
Riposati mentre osservi giunco ripiegarsi nell’umido recinto di bosco
Al vento e al sole e quando Lui coprirà lei, non dimenticare.

Non dimenticare! le nuvole in queste intense giornate di sole.

Lei Afrodite dal mare nacque quando spuma di Falli giganteschi e divini fuoriuscirono
e partorirono. E i miei occhi ormai secchi di sale e alle tue poche lacrime di mare.
Rabbia di mare salato di vento fradicio e zuppo di orgiastici oblii ellenici, mentre Tu
Miravi al mare come io puntavo i grovigli interni e tediosi di giornate apatiche e salvie
E Cianuro di potassio tenevo nella mano sinistra quando il liquido ancestrale ribolliva
nelle sue ovaie di uovo fuoriuscito dalla capocchia di un Dio poligamo politeista monoteista

feroce nell’uso delle sue folgori

***

Sardegna. Metà luglio. Nessun anno particolare dato che sarebbe alquanto superfluo. Sovrabbondante. L’importante è una condizione mentale/geografica/ambientale insolita. Tutto: la Terra-scura-secca. Le foglie di leccio-lentischio-olivastri e il maestrale e i colori cangianti e la mia anima: una vita solitaria.
La Sardegna è una Terra solitaria per natura. La Sardegna è femmina. È donna. Comanda. L’uomo invece è succube. L’uomo ciuccia dalle sue mammelle rigonfie di fiele, miele, livore, invidia, dolcezza, durezza e umori. La Sardegna è aspra, pungente; e le sue rocche appuntite tagliano la carne, feriscono, lacerano. Lacerano le persone abituate ad altri luoghi più cortesi. Precisi. Il Sole asciutto secco, la luce accecante, il riflesso dei mari, il granito e di nuovo la macchia mediterranea implode nel mio cuore melanconico di verde di passioni, di radici strappate.
Di ziricheltuli – di lucertole assetate di luce – assetate d’acqua nelle pozze vitree e fisse riversate mentre si riempiono dame d’acqua cun babbu – con babbo. E poi il silenzio. Il silenzio meccanico umano è rimpiazzato dalla meccanica: natura/Dio.

Un’ape beve nella pozza insieme alla lucertola ed io osservo la condizione. Sono solo.

Oltrepassa questa umile strada bianca la lucertola: via senza traccia di asfalti neri che asfissiano la terra, che inibiscono il suo ordinario compito: respirare. Il suo cuore batte e l’acqua nella pozza evapora piano piano durante le ore più calde. Beve ed io riempio le brocche. Il fiume è un fiume secco, ma non gentile.
È insolente e si prende gioco di noi. I suoi ciottoli grossi – li monti manni – insegnano che le sue acque sono taglienti e possono far male all’uomo banale e arrogante.
Soffia il vento di maestrale da nord-ovest: un vento che ha origini lontane: origini polari. Il vento è nella mia pelle secca e arida. E nella mia pelle secca e arida rivedo la mia terra. Io sono la mia terra. È una questione di umiltà. Io sono i muretti a secco che dividono le proprietà. Io sono le nuvole che ombreggiano i campi aridi sardi. Io sono albero. Io sono i vermi nella terra. Io sarò humus. Terra fertile per altri lecci, corbezzoli – Lu Lioni – e olivastri. Io sono l’odore di lu mucchjiu – del cisto fiorito –

Nella terra spoglia le formiche, li carriamelda – gli scarabei stercorari – e i grilli. Cri cri cri.

Mentre dormo sento la linfa delle mie arterie respirare il vento, il sole e gli incendi estivi: violenti e secchi. Inebriante situazione. La sabbia bianca argentea dorata e il mare con le sue onde verso levante rinsecchisce la mia pelle divenendo salata, ricoperta di sale. E il corpo e il mio spirito ringraziano. 

Io sono le nuvole che compaiono e scompaiono all’improvviso. Io sono l’insetto che fatica nella sabbia de La Cinta.

La lucertola è ancora là! vicino alla pozza d’acqua: beve e mi osserva. Vorrei essere lei per un momento, per un attimo. Poi sparisco tra le curve di Lu monti. Assetato.
La luce artificiale è imponente nei paesi sardi e dalla luce delle stelle, nelle valli sperdute e deserte, si vedono nitidamente gli astri e i destini delle persone. Il blu profondo notturno rimpicciolisce il mio Io senza che me ne renda conto. Improvvisamente e violentemente. E il ricordo di lu puzzu di minnannu – del pozzo di nonno – ritorna alla mente come le ranocchie immerse nell’acqua e quella strada stretta e i cipressi come frangivento e due piccoli alberi di limoni gialloverdi. Oggi rimpiango i momenti di quell’estate con i miei cugini continentali. Siamo stati bene insieme. Cose perdute per sempre ma vive nella mia testa marcia sarda e testarda.

Ho ucciso.

L’uomo dovrebbe essere processato per violenza verso la natura. Anche un’erba fresca ha gli stessi diritti dell’uomo pensante-pesante. Un cancello verde levato per sempre. E vecchie case perdute nell’avidità dell’uomo minchione. Anch’io come essere pensante sono un minchione. Minchjioni socu!
E l’acqua nel pozzo c’era veramente come diceva Massimiliano, mio cugino, figlio di ziu Ciccheddhu – zio Francesco –
Prima acqua dalle sembianze fossili come radici pietrificate. Poi dopo aver strizzato gli occhi ho trovato la vita. Anche se le ferite rimangono nella terra vecchia di milioni di anni.
Lu stincu a fulchetta – il lentischio a forchetta – trova l’acqua anche metri, metri, metri sotto i miei e i tuoi piedi. Particolare sensazione. Parlavo alle nuvole da piccolo. Avrei voluto distendermi sopra e osservare la terra dall’alto. Le nuvole e il maestrale. Le chiamavo per venirmi a prendere, per portarmi via con loro. Nessuna risposta. Solo il rumore del vento, del maestrale. E il vento sfrondava gli alberi più grandi e li piegava. E tutti erano rivolti verso est-sud-est ed io toccavo le loro cortecce per ricevere protezione contro Li mali di lu mundu – i mali del mondo –

I fiori del male.

Toccavo le sue radici mentre osservavo-osservo i passaggi delle formiche. I loro segni, segni seminati come impronte. Ovunque. Intanto Io – come essere pensante – non sono altro che acqua e carbonio. E il mio soffio rilascia anidride carbonica indispensabile alle piante mentre Io mi disseto d’ossigeno.
Vorrei essere una foglia verde e già questo è sintomo di poca umiltà. In realtà vorrei essere al di sotto del niente: un nulla eterno. Troppa vigliaccheria, forse. Io non sono Io, Io non esisto. Avere un Io è una situazione imbarazzante per il mio Io pensante. Forse il marciume di questo mondo non mi consente di respirare come dovrei e ciò mi pone in contrasto con me stesso: Io pensante-pesante: respiro.

Umiltà.

Essere il muschio delle rocche di granito, può darsi. Essere la linfa degli alberi o le gocce delle nuvole una volta divenute acqua? Perché tutto questo? Se un Io pensante-pesante dovesse chiedersi il perché di certe masserizie filosofiche/sociali/politiche dovrebbe rinchiudersi e riflettere. Troppi frangenti che non capisco. Troppi dubbi. Dubbi filosofici antesignani. Se fossi stato lucertola avrei avuto il tempo per dissetarmi al sole? O sarei stato cibo per prede più feroci?
In questo Stato, in questo momento-vivente non posso dare giudizi fenomenologici di carattere fisico-chimico-naturale, potrei non capire la Meccanica e tutti i naturali processi dell’ippocampo.

Una foglia si muove percossa dal vento – durante un giornata piovosa –

Due foglie si muovono percosse dal vento – durante un giornata piovosa –

Tre foglie si muovono percosse dal vento – durante un giornata piovosa –

[…]

Un albero imponente si muove percosso dal vento – durante un giornata piovosa – mentre io seduto e asciutto osservo la mia anima frullata e bagnata attraverso la superficie di vetri di silice e di mare. E così la mia mente-pensiero ritorna lungo le sponde del canale di stagno-mare. Lì il sole risplendeva-risplende davanti ai miei occhi color foglia autunnale e il mio cuore perennemente melanconico perennemente baudelairiano – di un qualcosa informe – è quasi solo spleen. Il sole era importante in quei frangenti e la sabbia era dorata al punto giusto e l’alta marea era scomparsa forse per sempre come la Luna dietro la luce del Sole e forse anche delle montagne e della macchia e dei cisti e dei corbezzoli e delle api ricolme di miele e di polline. Io invece osservavo-osservo la Natura come se non ne facessi parte, anzi con la sensazione di essere superfluo – addirittura inutile – per la sua meccanica assoluta. Oh! Forse è solo questo lo scopo dell’uomo: guardare e raccogliere i frutti dei fiori.

Come quella sera quando la luna rossa si faceva spazio tra i rami del ginepro piegati dal vento e l’odore del cisto fiorito a maggio, quando ancora la luce è bambina e deve ancora maturare e il polline deve ancora attrarre a sé i suoi amanti.

Era un giorno di piena estate quando rimasi accecato dalla luce del mezzogiorno e dall’azzurro rilucente che si espandeva sopra la mia testa. E mentre cercavo di osservare i granchi e i vari molluschi e i pesci nuotare tra le rocche del canale, il mio pensiero e il mio corpo sarebbero voluti restare in quella situazione e in quella condizione di perfetta estasi all’infinito. Per il resto della mia vita. Per il resto dei miei giorni.
La luce accecante che inscuriva la mia pelle e abbagliava i miei occhi m’inebriava il corpo e la mente e le ansie della vita si dileguavano alla ricerca di qualche altro individuo da poter soggiogare e annientare. L’acqua era limpida e la sabbia del fondale creava particolari bagliori rendendo quel posto un luogo benedetto da Dio ed io ero al sole, solo con il mio corpo e il mio spirito.

Il tempo trascorreva lento. Rilassato.

I granchi risalivano le aspre efelidi acropoli cercando insetti con cui cibarsi o soltanto per osservare questo curioso corpo estraneo – quasi infestante – da ricacciare via oppure no. Semplicemente.
Dalla sua bocca fuoriuscivano bollicine d’acqua o aria come un linguaggio forestiero ed io restavo lì quasi commosso dalla sua semplice e interessante delicatezza. Io che non capivo, restavo seduto ad ammirarlo. Il pensiero fugace immaginava i posti inquinati dall’avidità dell’uomo e le ansie ritornarono come corvi sopra le tombe dei cadaveri freschi, appena ricoperti di terra umida e scura. Scura e umida. Corvi.
Sono posti dimenticati dalla maggioranza degli uomini, sono posti nei quali la minoranza/maggioranza deve conviverci/viverci ogni giorno. E in un attimo divenne tutto cupo, il cielo interno venne sovrastato da dense nuvole nere e minacciose. Mentre tutto intorno luccicava come prima il rosmarino continuava a emanare il suo profumo/la sua fragranza in modo costante – continuando ad essere soltanto rosmarino

Tutto era inquinato: la terra, le foglie, gli alberi, le acque, l’aria, il cielo e là le nuvole erano diventate di un colore esanime. Imputridito. E la pioggia pareva metallo fuso e radioattivo nella mia anima, all’interno della mia psiche fragile e sensibile. Amavo tutto ciò che fosse in simbiosi con la mia natura – natura creata, plasmata – il resto per me era ed è solo una fonte battesimale di peccati. Colpe.

***

Nuwanda

Cala la luna dall’alto seguendo il ritmo
E la foglia di rosmarino pulsa tra il sangue
E l’ossigeno come un moto perenne ed eterno.
E il mio orecchio sinistro ode il tuo respiro
E i miei sensi tra i petali di un fiore.
E le stelle mi indicheranno la strada
E i tuoi occhi e l’iride saranno arcobaleni notturni
E mentre canto, i dèi apprezzeranno
E gli umori cambieranno
E la visione esisterà ininterrottamente e completa
E la tua anima
E la mia anima
E il fiore
E gli occhi soli/dinanzi ai nostri/spiriti – anime.
F

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