Aby Warburg, un critico d’arte tedesco, definì la prima guerra mondiale come urkatastrophe, la catastrofe originaria; ed è in effetti quell’evento storico che si può identificare come il punto di svolta del declino europeo, la fine di una fase storica – ultrasecolare – che aveva visto il continente europeo dominare, nel bene e nel male, praticamente il globo intero.
A ben vedere, quella che era stata la civiltà europea (l’occidente originario) aveva perso da tempo la sua spinta propulsiva, aveva appunto cessato di essere portatrice di una visione del mondo, di un corpus di valori, ormai sostituiti da uno solo, il denaro. Ma indubbiamente è con il primo conflitto mondiale che il declino valoriale e culturale diventa declino geopolitico. Un processo che poi, non a caso, verrà sbrigativamente concluso solo pochi anni dopo, con il secondo conflitto mondiale. Per porre fine ad un dominio planetario era necessario un conflitto di eguale estensione.
Ma quella che si consuma nella prima metà del novecento è una catastrofe soltanto per l’Europa, che si vedrà sostituita – nel ruolo di egemone globale – dalla giovane potenza americana degli Stati Uniti, che in effetti ne rappresentano un distillato degli aspetti peggiori. Quella che si apre ufficialmente con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, quindi, è una fase storica in cui il posto della decadente civiltà europea viene preso da un solo impero, che fa della spada lo strumento per accaparrare l’oro, e non ha altro sistema valoriale da proporre al di fuori di questo; la famosa american way of life essendo null’altro che la strada verso il successo. Anche questa civilization è giunta alla fine, la sua fase storica è conclusa, e stiamo tornando verso un’era caratterizzata da una pluralità di soggetti geopolitici che – c’è da augurarsi – competeranno tra loro in modo pacifico. Perché il processo si concretizzi è sfortunatamente necessario un ulteriore passaggio.
Un impero quasi sempre collassa dall’interno, ma affinché ciò avvenga deve essere scosso dall’esterno. Ed è quanto sta accadendo agli USA. Pur con le ovvie differenze, la situazione degli Stati Uniti è assai simile a quella dell’URSS prima della caduta (1), e per ragioni non molto dissimili. Di fronte all’emergere – sempre più ampio – di potenze piccole e grandi disposte a sfidare l’impero, Washington non ha altra scelta che giocarsi (come sempre, del resto) la carta del potere militare; un potere che, peraltro, non ha più capacità deterrente, e che nei confronti di alcuni competitor si trova addirittura in condizioni di svantaggio. Deve quindi fronteggiare una situazione in cui il capitale necessario per mantenere e sviluppare capacità militari all’altezza delle sfide si assottiglia (nel 2023, il deficit statunitense ha raggiunto la cifra monstre di 34.001 trilioni di dollari), mentre al tempo stesso le capacità militari-industriali degli avversari crescono. Dunque si trova dinanzi ad una sfida contro il tempo.
In termini strategici, è questa la ragione primaria del conflitto aperto contro la Russia in Ucraina. Conflitto che, ad una osservazione men che superficiale, risulta evidente essere pensato e costruito affinché si addivenisse ad un confronto tra la NATO e la Russia, non tra questa e gli Stati Uniti. Per quanto, ed è quasi sicuro, i vertici strategici – politici e militari – americani abbiano decisamente mal valutato le capacità di reattività e resistenza della Federazione Russa, il vero obiettivo della guerra si colloca ad ovest della linea di combattimento.
Seppure mantenere il più a lungo possibile una pressione su Mosca rientri perfettamente nella strategia difensiva dell’impero, lo scopo del conflitto è essenzialmente un altro. E non si tratta semplicemente di ridimensionare il competitor commerciale europeo, come pure si è pensato e detto. Nel quadro dell’attuale confronto multipolare, ciò che Washington vuole è saccheggiare la colonia europea di ogni possibile risorsa industriale ed economica, e scagliare quel che ne resta contro la Russia.
Siamo una risorsa sacrificabile. La nostra funzione non è più quella di ricco mercato per l’impero, ma quella di avamposto militare. Siamo gli ascari destinati a fronteggiare il primo impatto con una delle potenze avverse.
Però il baricentro dello scontro globale è altrove, nell’Indo-Pacifico. È lì che Washington pensa che si giocherà la partita cruciale, il centro della scacchiera dove si deciderà se a cadere sarà il re bianco o il re giallo. Ma questo disegno strategico avrebbe bisogno di più tempo, di più sicurezza nelle retrovie. E soprattutto di non essere disturbato da fattori imprevisti.
Che si tratti di Trump o di Netanyahu, che introducono bastoni tra le ruote di un carro già non particolarmente possente.
Ma sopra ogni cosa, gli Stati Uniti hanno bisogno di una profonda riconversione del proprio apparato militare-industriale, che necessita ancor prima di una nuova visione strategica – cosa che, da ciò che si vede, sembra essere invece ancora assente. La dottrina strategica americana, infatti, continua a pensare ad un orizzonte irrealistico. Anche se, ovviamente, sia il conflitto ucraino che quello palestinese sono oggetto di osservazione e studio, le conclusioni che ne stanno traendo sembrano limitarsi alla dimensione tattica. L’idea in cui sembra si stia cullando l’impero americano è che sia sufficiente assicurarsi la non vittoria del nemico. Putin non deve vincere non è forse l’ossessivo ritornello dell’oggi?
Nel pensiero statunitense, posto che Taiwan sarà il cardine dello scontro, sarà sufficiente impedire alla Repubblica Popolare Cinese di riunirla alla madrepatria; e questo ritengono sia un obiettivo raggiungibile, in quanto l’esperienza dei conflitti attuali dimostrerebbe come sia molto più facile ed efficace la difesa che non l’attacco.
Ovviamente, questo è astrattamente sempre vero, lo è sempre stato. Ma un criterio generale va sempre contestualizzato. Parlando appunto di Taiwan e dei problemi che il Pentagono deve risolvere, Kelly Grieco (membro senior del Reimagining U.S. Grand Strategy Program presso lo Stimson Center), intervistata da Asia Nikkei (2) ha detto che “gli Stati Uniti e il Giappone non hanno bisogno di vincere contro la Cina. Devono essere in grado di negare alla Cina la possibilità di vincere. La Cina deve vincere per raggiungere i suoi obiettivi”. E secondo la Grieco proprio l’esperienza di guerra in Ucraina dimostra che, grazie alle tecnologie di osservazione satellitare ed ai droni, si è raggiunta “la trasparenza del campo di battaglia” (3), che pertanto rende impossibile la concentrazione di forze per l’attacco e la sorpresa.
Quel che manca – clamorosamente – in questa ipotesi, è il confronto con il contesto, e con il resto della realtà esperienziale a cui si fa riferimento.
Innanzi tutto, infatti, viene completamente omesso il fatto che, nonostante la suddetta trasparenza del campo di battaglia, le forze armate russe continuano ad avanzare ed a macinare quelle ucraine. Inoltre, come ricorda la stessa Grieco, quel conflitto ha segnato anche “il ritorno delle masse sul campo di battaglia”. E aggiunge “la guerra sta riportando il vantaggio alla massa, soprattutto alla massa a basso costo” (4). E nel contesto di un confronto con la Cina, non vale neanche la pena di sottolineare chi ne dispone in quantità enormi…
Ma è soprattutto un altro fattore che sembra obliterato, ovvero che Pechino – qualora si risolvesse ad una riunificazione manu militari – non ha bisogno di assaltare Taiwan, essendo più che sufficiente isolarla dal resto del mondo, impedendo qualsiasi entrata/uscita di merci, sia via mare che aerea. Il che costringerebbe gli Stati Uniti ad impegnare la/e propria/e flotta/e a migliaia di chilometri dalla madrepatria ed a ridosso della Cina continentale.
Questa, del resto, non è l’unica perniciosa omissione. Uno degli assunti su cui si è sempre basata la strategia statunitense è che qualsiasi guerra deve essere combattuta altrove, non deve cioè impegnare direttamente il territorio nordamericano, perché ciò potrebbe avere conseguenze disastrose. Ad esso fa da corollario l’idea che un conflitto che coinvolgesse le città e le infrastrutture degli Stati Uniti sarebbe un conflitto nucleare, e che pertanto vada evitato ad ogni costo, a meno che non vi sia una necessità vitale di difesa, o la possibilità di un first strike abbastanza sicuro.
Questa è del resto un’idea abbastanza diffusa: un conflitto diretto tra potenze nucleari sarebbe automaticamente caratterizzato dal ricorso ad armi atomiche. Solo che non è affatto necessariamente così.
Posto che un conflitto tra potenze dotate di armi nucleari (e di vettori), in quantità e qualità sostanzialmente equilibrate, porrebbe ad entrambe le parti la questione della Mutual Assured Destruction, ciò non esclude affatto che esse possano colpirsi pesantemente con armi convenzionali. Il che significa, tra l’altro, che sia la Russia che la Cina (e viceversa) potrebbero lanciare missili balistici e/o ipersonici con testate non nucleari, verso obiettivi in territorio statunitense. Anche se, ovviamente, questo avvicinerebbe pericolosamente il conflitto ad una soglia oltre la quale, appunto, non c’è che il ricorso all’arma nucleare, non è possibile escludere in modo assoluto che – a determinate condizioni – qualcuno possa fare questa scelta.
Non c’è, insomma, alcuna garanzia che gli USA siano sicuramente al riparo da una guerra convenzionale.
Cosa forse ancor più rilevante, dal punto di vista strategico, è che oggi l’occidente è sostanzialmente isolato dal resto del mondo. In caso di conflitto aperto, la maggior parte dei paesi terzi quasi sicuramente si rifiuterebbe di aiutarlo, in qualsiasi modo. Che si tratti di fornire materie prime o consentire il passaggio sul proprio spazio aereo, anche chi non è apertamente schierato con la Russia o la Cina si limiterebbe a stare a guardare, magari sperando di veder cadere il colosso imperiale.
Il fatto è che la situazione è radicalmente diversa da quella del secolo scorso, sotto ogni punto di vista. Per dirla con una frase, assai felice, di Putin, “il ballo dei vampiri sta per finire”.
1 – In proposito, cfr. Emmanuel Todd, “La défait de l’occidant”, Gallimard
2 – “U.S. and allies not ready for radically new era of war, analysts say”, Asia Nikkei
3 – Ibidem
4 – Ibidem
Vorrei aggiungere qualcosa alla bella analisi che condivido di Tomaselli. Gli Stati Uniti attuali sanno perfettamente di non essere in grado di combattere e vincere contro nemici come la Russia o la Cina – come non lo erano neppure subito dopo la II Guerra – e neppure perfino contro l’Iran sebbene non disponga di un’arma atomica. Peggio che mai con l’asse dei tre riuniti. I motivi sono diversi. Innanzi tutto, e da sempre, principalmente quello umano: il loro soldato, contrariamente alla filmografia di quel Paese, è uno dei peggiori della terra, una tigre di carta; per agire efficacemente necessita di mezzi preponderanti di forze dell’aria, di artiglieria, di veicoli meccanizzati e di stuoli di quelli navali. Un nemico composto da molti meno uomini e mezzi, ma coraggiosi, decisi e ben guidati li sbaraglia. La II Guerra mondiale, che per inciso fu vinta non da costoro ma dai soldati russi, la guerra di Corea, quella del Vietnam ne sono la dimostrazione. L’esercito USA di oggi e di allora, con i suoi costosissimi giocattoli e le enormi portaerei, è fatto non per combattere un nemico potente e virilmente maschio, ma solo stati lontani industrialmente deboli e militarmente inferiori: la lista dei vari Messico, Filippine, Panama, Irak, Libia, è storicamente quasi infinita. Per questo necessitavano allora di un’arma definitiva e minacciosa come l’atomica e soprattutto di una immensa possibilità economica e industriale per preponderare su tutti; mezzi questi ultimi fondamentali che oggi però non esistono più, basti l’esempio delle munizioni da 155 ora esaurite e che solo per rimpinguare le scorte abbisognano di almeno due anni: hanno segato il ramo sul quale si poggiava la loro potenza per soddisfare l’ottusa bramosia del loro capitalismo che prima ha portato le industrie all’estero e poi si è finanziarizzato creando l’enorme bolla nella quale stiamo tutti vivendo. Oggi le guerre degli Stati Uniti sono fatte da vassalli proxi che si immolano per loro e soprattutto vilmente con mezzi abbietti e nascosti tramite la CIA, virus costruiti appositamente nei vari laboratori sparsi per il mondo, la manipolazione atmosferica, HAARP il riscaldatore ionosferico, la manipolazione delle menti, con i Soros e i Bill Gates. Questa è l’America che rantolando moribonda si dibatte per il proprio perso dominio che non è solo coloniale, materiale ed economico, ma soprattutto morale. La materia non può vincere per sempre contro lo spirito.
Per cortesia:
non desidero che il nome e cognome che vi ho fornito nel commento qui sopra sia reso pubblico. E’ sufficiente oldhunter
Inoltre: non offrite la possibilità di correggere o anche cancellare il commento, sarebbe il caso di farlo.
Faccio parte della redazione di Comedonchisciotte dove sono uno dei 4 traduttori.
Dovrebbe andare bene adesso.
La Redazione.