LA ZANZARA COLONIALISTA (I) [DIARIO DI UN MZUNGU #02]

DiDomenico Fiormonte

10 Gennaio 2025
Per l’immaginario occidentale l’Africa è sinonimo di flagello: malaria, AIDS, Ebola, vaiolo delle scimmie… Gran parte dei disagi del mzungu, in fondo, hanno a che vedere con il modo in cui l’occidente ha costruito il rapporto fra salute e malattia ovvero fra un ambiente “ospitale” e uno “ostile”.

Seconda puntata del diario africano del prof. Domenico Fiormonte, per Giubbe Rosse News.

Ma l’odore dei tropici ha qualcosa di diverso e di cui subito cogliamo la graveolenza, la corposità vischiosa. Un odore che ci avverte che ci troviamo nel punto della terra dove una biologia esuberante e instancabile lavora, produce, prolifera e fiorisce senza sosta e senza sosta si ammala, si decompone, si tarla, marcisce. È un odore di corpi surriscaldati e di pesce essiccato, di carne andata a male e di cassava tostata, di fiori freschi e alghe fermentate: di cose al tempo stesso gradevoli e ripugnanti, attraenti e disgustose.”

(Ryszard Kapuscinski, Ebano)

Le prime pagine di uno dei libri sull’Africa più celebri in Europa iniziano con una constatazione banale, ma fondamentale per comprendere il nostro rapporto con l’Africa subsahariana e in generale con i tropici: la forza devastante della natura. Il caldo e il sole sono la base di ogni possibile (o impossibile) rapporto con la realtà. Un passo di Giorgio Manganelli in cui descrive il suo arrivo in India ricorda qualcosa di simile: la scoperta dell’attitudine al disfacimento e alla decomposizione di tutto ciò che esiste. Scaraventato dentro un inferno umido, improvvisamente, l’uomo bianco intuisce che esiste qualcosa che sfugge al suo controllo. Per sottrarsi alla persecuzione di una natura feroce, egli ha creato ovunque isole artificiali di vario tipo e livello: hotel, resort, edifici, quartieri o anche intere città dove ci si difende come si può dall’ambiente circostante. A Dar es Salaam, per esempio, l’ambasciata USA è separata da tutto il resto da anelli concentrici di terreno: un perimetro di sicurezza che in realtà esprime soprattutto il terrore per la contaminazione con tutto ciò che la circonda: persone, animali e ovviamente insidiosi patogeni. Chiusi nelle loro bolle, i bianchi ogni giorno considerano il da farsi, come un generale che scruta all’alba le truppe schierate sul campo di battaglia. E la guerra, come vedremo nella prossima puntata, non è solo una metafora.

Quando il sonno non viene interrotto da galli troppo mattinieri (qualcuno inizia a esercitarsi già a partire dall’una di notte) la giornata comincia presto. Sono strani ronzii, ticchettii, cinguettii, pianti di bambini, odori di cucina o rifiuti bruciati, suoni di clacson, grida e risate fragorose che ci prendono a tradimento, come il caldo e la luce che iniziano, inesorabili, a penetrare nella casa, come se nulla potesse fermarli. I frequenti cali di tensione e le giornaliere interruzioni di corrente (anche per cinque o sei ore di seguito), in gran parte dei quartieri di una città enorme come Dar es Salaam, rendono problematico uso e manutenzione di qualsiasi apparato elettrico, ivi compresi i condizionatori. A meno che, ovviamente, non si possieda un generatore. In tale caso vorrebbe dire che vivete a Masaki, Mikocheni, Mbezi Beach o altre enclaves dei bwana, i signori ricchi e gli occidentali (o entrambe le cose). Ma se, per esempio, abitate a Goba, una distesa di case, casone e casupole, quasi tutte a un piano o due (per fortuna non ci sono grattacieli), dove vive anche una sorta di classe media tanzaniana, l’aria condizionata, come anche l’acqua calda, sono un lusso quasi inutile. Per quartiere di “classe media” ovviamente non intendo Monteverde nuovo a Roma o Gambara a Milano… La classe media, in gran parte dell’Africa subsahariana, è un ceto lavoratore che gode dell’essenziale: un tetto dignitoso, acqua (spesso da cassoni e che i locali bevono, ma letale per il mzungu), elettricità e spesso un’automobile o moto per andare a lavorare. In questi quartieri periferici non esistono strade asfaltate: anche se avete una villa faraonica, la strada per arrivarci è una pista dissestata che diventa un torrente di fango rosso durante le piogge. La connessione internet è quasi sempre via smartphone o scheda, quindi a pagamento. Il modello di business è ancora il consumo e non i dati: anche il corpus digitale degli africani ha meno valore del nostro. Per quanto riguarda i trasporti, in genere queste zone sono ben collegate sia da bajaji (tuk tuk) collettivi (un car sharing locale) sia da frequenti bus: perlopiù piccoli pullman giapponesi riadattati, con i semiassi distrutti, che nonostante la guida spericolata di autisti killer vengono presi d’assalto dai pendolari.

A proposito di incidenti, il caldo umido sottopone a stress e guasti frequenti qualsiasi cosa, sia organica sia inorganica. Guasti insidiosi, inopinati e spesso incomprensibili. Anche il guasto non è razionale: una porta non chiude più, un’altra si chiude, ma poi non si riesce più ad aprire. Un rubinetto perde, mentre dall’altro non è mai uscita l’acqua. Come nella casa dei Buendía in Cent’anni di solitudine, tutto prima o poi cede, si sfalda e finalmente abbandona la pretesa di un’esistenza funzionale. Chi ha un’aspirapolvere non è ricco perché può spendere 100 euro, ma è ricco perché può buttarlo quando si rompe (cioè in media dopo un anno). E non vi venga in mente di ripararlo. Le strade di Dar es Salaam sono costellate di cartelli con la scritta fundi che in Swahili vuol dire “tecnico”, “artigiano” o più genericamente “riparatore”. Fundi può essere l’idraulico, l’elettricista, il muratore, il meccanico o il sarto. Vi diranno che sono in grado di riparare qualsiasi cosa. Diffidate. Le officine dei fundi sono perlopiù di luoghi di perdizione dove si aggirano sinistri figuri fra carcasse di oggetti e macchine di ogni tipo, da biciclette a tastiere di computer, da ferri da stiro a cadaveri di cucine a gas o lavatrici smontate e mai più rimontabili. L’artefatto è disfatto: come tutto il resto. Si direbbe che a certe latitudini maggiore sia la forza della natura, minore sia la resistenza posta da oggetti, abitudini, persone. I fundi sono i sacerdoti segreti che officiano il rito zen del disfacimento dell’inorganico. A tutto il resto, ci pensa la natura.

Inizia tutto con le prime piogge, fra novembre e dicembre. Gli scrosci d’acqua si fanno più frequenti e durano di più, con giornate nuvolose, abbastanza ventilate, e giorni di calura assassina. Fra un eccesso climatico e l’altro, inizia il processo di moltiplicazione degli insetti: striscianti, volanti o entrambe le cose. A nulla valgono le zanzariere alle finestre e porte chiuse anche durante le ore più calde: loro riescono a entrare. Pulire, lavare, spargere liquidi repellenti su ogni superficie, anche ogni ora, è vano. I padroni sono loro, non voi. Pensate di aver sigillato e chiuso ogni cibaria nella credenza, ma le formiche sono comunque lì, arroganti, sicure di sé, di varia forma e stazza, che fanno la ronda: sanno benissimo che prima o poi qualcosa vi sfuggirà. Si va da quelle enormi rosse, che incutono un certo rispetto (possiedono temibili pinze che agganciano qualsiasi cosa), a quelle nere, giganti, medie e piccole, fino a quelle piccolissime, praticamente invisibili, che si insinuano ovunque, anche nella vaschetta del sapone della lavatrice, intorno ai tappi delle creme solari: qualsiasi cosa vale la pena di essere esplorata. Attenzione dunque a non schiacciare dentro casa nulla più grande di una zanzara: in meno di un minuto qualsiasi cadavere o rifiuto viene assalito e la casa è perduta. Inizia così una lenta guerra di logoramento. Di giorno sono le mosche: ne uccidete dieci e ne arrivano duecento. Le blatte, volanti o striscianti (con un comportamento che sembra cambiare con l’umore), sono invece le padrone della notte. Infide e velocissime si danno il cambio con le formiche (che a lora volta hanno dato il cambio alle mosche) o forse vengono da loro mantenute, come i guardiani Masai fuori delle ville dei ricchi. Se ha piovuto da poco e siete vicino a luoghi verdeggianti (cioè quasi ovunque a Dar es Salaam), di notte si viene visitati da pipistrelli grandi come polli e invasi da certe strane libellule le cui uova si schiudono tutte insieme e festosamente, a milioni, vi aspettano per salutarvi fuori dalla porta. Ma il vero protagonista della notte del mzungu, al di là di ogni dubbio, è la zanzara. Per via della malaria, endemica a queste latitudini, la zanzara è il nemico numero uno, ovvero l’ossessione principale dell’uomo bianco dopo le sei di sera. Un mio amico infettivologo ed esperto di malattie tropicali sostiene che a Dar es Salaam solo una zanzara su cento è una zanzara anofele (cioè in grado di trasmettere la malaria). La cosa non mi ha mai tranquillizzato. La preparazione per difendersi dal nemico avviene seguendo un rigido protocollo. Non si va a letto senza prima: 1) aver controllato che la (imprescindibile!) zanzariera sia integra; 2) aver avviato il ventilatore sopra il soffitto; 4) aver acceso il diffusore elettrico di repellente; 5) essersi cosparsi di DEET. Prima di addormentarsi è buona abitudine riperlustrare con una torcia il perimetro interno della zanzariera, pregando che l’unica zanzara non sia rimasta intrappolata o abbia trovato comunque una via di accesso al vostro talamo. I più paranoici si addormentano con la racchetta elettrica ammazza-insetti in mano, come Orlando con la Durlindana.

A questo punto sorge spontanea una domanda: come viene vissuto tutto questo dal lato africano? La differenza fra bianchi e africani è una questione di abitudine al disagio? Si tratta solo di differenze culturali? La tentazione di rispondere semplificando o facendo ricorso a una collezione di clichés (più o meno progressisti, più o meno reazionari) è forte. A mio parere però solo attraverso una profonda riflessione storica, antropologica e geopolitica è possibile non tanto mettersi nei panni degli africani – cosa impossibile – ma comprendere come l’Africa sia stata “patologizzata”, ovvero trattata di volta in volta come “grande malato” e scaturigine di malattie. Per l’immaginario occidentale l’Africa è sinonimo di flagello: malaria, AIDS, Ebola, vaiolo delle scimmie, variante omicron… Gran parte dei disagi del mzungu descritti sopra, in fondo, hanno a che vedere con il modo in cui l’occidente ha costruito il rapporto fra salute e malattia ovvero fra un ambiente “ospitale” e uno “ostile”. E come ha imposto i propri modelli, interessi e idiosincrasie al resto del mondo. La questione della malaria, come vedremo nella prossima puntata, è un punto centrale per comprendere come alcune malattie, nel corso di mezzo secolo, abbiano finito con il diventare, oltre che un lucroso affare, l’ennesimo strumento del dominio neo-coloniale.

[Immagini di Domenico Fiormonte]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *