
Per la Repubblica Islamica questo non è un periodo facile; anche se ormai da anni la Siria rappresentava più un peso che un vantaggio (dipendendo moltissimo dagli aiuti iraniani), la caduta del regime di Assad ha creato sicuramente dei problemi, e l’invasione israeliana del sud siriano costituisce una minaccia per Hezbollah (il più stretto alleato della regione), così come – paradossalmente – la (temporanea) fine dei conflitti in Libano e Gaza, con la conseguente sospensione degli attacchi ad Israele da parte irachena e yemenita, rilancia la pulsione di Tel Aviv a colpire Teheran.
Ma i veri elementi problematici di questa fase, si trovano in effetti proprio a Teheran, oltre che a Washington.
La rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, infatti, apre un periodo di incertezza, poiché – come sempre, verrebbe da dire – la posizione del neo-presidente è alquanto ambigua. Stando a quanto dichiara, Trump ribadisce la contrarietà assoluta degli USA a che l’Iran si doti di armi nucleari (pretesa che non ha alcun fondamento nel diritto internazionale), anche se sostiene di preferire la via negoziale a quella militare, per ottenere questo risultato. Il problema è che proprio Trump, durante il suo primo mandato, ritirò gli Stati Uniti dal JCPOA, il trattato con cui Teheran si impegnava a non sviluppare il nucleare militare. Ne consegue che l’intenzione della nuova amministrazione americana è quella di agitare la minaccia di un attacco preventivo, per ottenere un nuovo trattato, ancora più stringente. L’intento è quello di arrivare ad un accordo più ampio, che integri limitazioni non solo allo sviluppo di armi nucleari, ma anche allo sviluppo ed al possesso di sistemi missilistici ipersonici [1]. Cosa che però è chiaramente inaccettabile per Teheran.
Ovviamente Washington sa perfettamente che, al momento, l’Iran non ha armi nucleari, e non intende costruirne; così come lo sanno perfettamente anche a Tel Aviv. Ma se per Israele evitare che le realizzi è importante, poiché ciò significherebbe perdere la propria deterrenza nuke, ancora più importante è distruggere la capacità militare iraniana tout court, perché questa costituisce la maggior minaccia per lo stato ebraico.
A loro volta, gli states non hanno alcun interesse a scatenare un conflitto di vaste proporzioni in Medio Oriente, che oltre a mettere a rischio le proprie basi nella regione potrebbe infiammare il mercato mondiale del petrolio [2], ma devono ricercare una soluzione che consenta di evitare la guerra mettendo al contempo al sicuro Israele, la cui difesa e sopravvivenza è ormai totalmente legata all’aiuto statunitense. È probabile quindi che Washington cercherà di agire attraverso un inasprimento delle sanzioni (leva economica), piuttosto che avallando un attacco (leva militare) [3]. In questo, non solo dovranno tenere a freno gli israeliani, ma anche ottenere un qualche risultato: o un nuovo trattato, quindi, o un indebolimento economico dell’Iran che apra alla possibilità di tentare nuove ‘rivoluzioni colorate‘.
I problemi, però, come si diceva, stanno anche a Teheran. Sulla questione delle armi nucleari, infatti, si sta sviluppando un dibattito molto forte nella Repubblica Islamica, che fa anche da perno ad una disputa politica più ampia e più profonda. Da un lato c’è l’autorità di Khamenei, che a suo tempo aveva emesso una fatwa in virtù della quale l’Iran non deve sviluppare armi nucleari, e che però, più di recente, ha recisamente negato qualsiasi senso nell’aprire un negoziato con gli USA, mentre dall’altro c’è il gruppo legato al presidente Pezeshkian, che invece è assai possibilista sull’apertura di trattative con l’occidente. Quasi subito dopo la dichiarazione di Khamenei, infatti, il ministro degli esteri Araqchi ha invece rilanciato l’ipotesi negoziale, subordinandola però ad una preventiva revoca delle sanzioni.

Si tratta ovviamente di un gioco delle parti, in cui, soprattutto Pezeshkian e i suoi, cercano di aggirare i veti di Khamenei; dal punto di vista dei moderati che governano a Teheran, proprio la fatwa che vieta le armi nucleari è la carta da giocarsi in trattative con l’occidente, al fine di ottenere la fine delle sanzioni. La posizione di Khamenei, invece, che è di fatto la massima autorità del paese, è che proprio l’esperienza delle precedenti trattative (JCPOA) dimostra l’inutilità di negoziare con Washington. Tanto più che alla Casa Bianca c’è nuovamente Trump, che vanificò unilateralmente il precedente trattato.
Dagli ambienti governativi si obietta che “il leader ha vietato i negoziati con gli americani e lo sviluppo di armi nucleari, sebbene questi siano gli unici modi in cui il regime può sopravvivere. Sta portando il Paese al collasso”. Anche qui, ovviamente, c’è una notevole forzatura, funzionale allo scontro politico in atto (che, ovviamente, non è soltanto sulla questione nucleare, ma ha una portata ben più ampia: i moderati puntano chiaramente a ridimensionare il potere della Guida Suprema, soprattutto in vista della nomina del suo successore). La questione di fondo è che Pezeshkian ritiene possibile una forma di appeasement con l’occidente, che consenta la ripresa degli scambi commerciali senza mettere in discussione l’esistenza della Repubblica Islamica, mentre Khamenei ha invece ben chiaro che per l’occidente è proprio abbatterla l’obiettivo.
Inutile dire che questo confronto politico ai massimi vertici dello stato iraniano non fa che indebolirlo. Purtroppo (parere strettamente personale), Pezeshkian è un personaggio politicamente debole e mediocre, assolutamente inadeguato alla fase storica in cui si trova l’Iran (e, ovviamente, l’intero Medio Oriente); e ciò a prescindere dal suo essere un moderato. A differenza del suo predecessore Raisi, non ha proprio la stoffa del leader, necessaria per guidare una nazione sotto assedio da 40 anni, e costantemente minacciata di attacco militare.
La questione dello sviluppo di armi nucleari, comunque, resta in primo piano. Il potente gruppo che fa capo ai Guardiani della Rivoluzione (IRGC) continua a chiedere a Khamenei di revocare la fatwa, e dare il via allo sviluppo ad uso militare. Il consigliere di Khamenei, Kamal Kharrazi, mesi fa ha detto che “se la Repubblica islamica si trova ad affrontare una minaccia esistenziale, dovremo rivedere la dottrina militare”.
È chiaro però che tutto si gioca sul filo del rasoio. Se venisse revocata la fatwa, ciò rafforzerebbe enormemente la capacità israeliana di convincere Trump sulla necessità di un attacco preventivo; si tratterebbe quindi di calibrare molto attentamente la timeline, ad esempio sviluppando l’arma e solo poi annunciando la revoca della fatwa ed il primo test nucleare, in modo tale da rendere chiaro che un attacco israelo-americano avrebbe immediata ed adeguata risposta. Come ha detto Khamenei, “se ci minacciano, risponderemo per le rime. Se compromettono la nostra sicurezza, noi comprometteremo la loro sicurezza.”
1 – Secondo il presidente del parlamento iraniano, Mohammad Baqer Qalibaf, il presidente Trump ha inviato un messaggio diretto all’Iran nei giorni scorsi. Nel messaggio, il presidente Trump si è offerto di firmare un nuovo accordo con l’Iran, in cambio dello smantellamento completo del programma nucleare e di quello missilistico balistico. In conformità con le direttive della Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, il messaggio è stato ignorato e non gli è stata data nemmeno la dignità di una risposta.
2 – Teheran ha la capacità militare per chiudere una delle rotte di transito del petrolio più trafficate al mondo, ha affermato il comandante della Marina dell’IRGC, il contrammiraglio Alireza Tangsiri. Ha inoltre respinto le minacce degli Stati Uniti di azzerare le esportazioni di petrolio dell’Iran, affermando che il Paese ha già reagito ad azioni ostili, tra cui il sequestro di petroliere collegate agli Stati Uniti in risposta ai sequestri di navi iraniane.
3 – Ovviamente, c’è chi – anche negli states – preferirebbe un’azione militare contro Teheran. Nonostante le decise smentite da parte iraniana, torna periodicamente ad affacciarsi la teoria dell’assassinio. Trump è stato informato che le intenzioni dell’Iran di assassinarlo sono “molto più serie” di quanto si pensasse in precedenza. Secondo Axios, l’Iran avrebbe addirittura equipaggiato le cellule dormienti negli Stati Uniti con missili terra-aria, per abbattere l’aereo del presidente. Inutile dire che se l’Iran avesse voluto ucciderlo, per vendicare Soleimani, avrebbe avuto tutto l’agio di farlo quando non era presidente, e di certo non avrebbe alcun interesse a farlo adesso, cosa che equivarrebbe a farsi attaccare pesantemente senza alcun dubbio.