IL PROGETTO DI TOM BARRACK PER DESTABILIZZARE IL LIBANO

DiOld Hunter

8 Luglio 2025

Il corrispondente dal Libano, The Cradle, 7 luglio 2025   —   Traduzione a cura di Old Hunter

“Un secolo fa, l’Occidente impose mappe, mandati, confini tracciati a matita e dominio straniero. Il trattato Sykes-Picot divise la Siria e la regione più ampia per un vantaggio imperiale, non per la pace. Quell’errore costò generazioni. Non lo ripeteremo”.  

Tom Barrack, ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia e inviato speciale in Siria

Quando l’inviato statunitense in Turchia e Siria, Tom Barrack, ha rilasciato questa dichiarazione il mese scorso ad Ankara, ha fatto intendere che Washington stesse ripudiando i confini dell’era coloniale imposti al Levante da Gran Bretagna e Francia. Ma il vero significato di Barrack era ben più insidioso: l’accordo Sykes-Picot potrebbe essere morto, ma ora gli Stati Uniti intendono ridisegnare i confini della regione per soddisfare un solo scopo: l’espansionismo israeliano.

Il programma dell’inviato statunitense: ridisegnare la regione smantellando la resistenza

Il destino del Libano rimane strettamente intrecciato con quello della Siria e della Palestina occupata. Qualsiasi risoluzione imposta al cosiddetto conflitto israelo-palestinese avrà inevitabilmente ripercussioni sia su Damasco che su Beirut, costringendo i rispettivi governi a compiere scelte esistenziali. La principale tra queste è la cessione di armi e capacità, una richiesta che è parte integrante dello sforzo guidato dagli Stati Uniti per trasformare l’equilibrio di potere della regione.

Entra in scena Barrack, il miliardario libanese-americano e stretto confidente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ora convertito in inviato itinerante in Libano e Siria. Da allora si è affermato come uno dei principali sostenitori dell’adesione di Siria e Libano agli Accordi di Abramo, un eufemismo per normalizzare i rapporti con lo stato di occupazione.

Barrack ha incontrato oggi i massimi funzionari a Beirut, dove avrebbe dovuto promuovere questa riorganizzazione politica con il pretesto di una pace regionale.

Pressione massima e minaccia della forza

Il Libano è al centro di una campagna israelo-americana per disarmare Hezbollah a qualsiasi costo e nel giro di pochi mesi. L’escalation non è una reazione alle dinamiche locali, ma piuttosto una conseguenza dei fallimenti regionali di Washington: dal pantano in Ucraina alla sua incapacità di intimorire l’Iran o di arginare i crimini di guerra israeliani a Gaza.

Senza nulla di sostanziale da offrire, gli Stati Uniti si affidano alla coercizione per imporre pressioni ai vertici. Le minacce militari israeliane servono come arma contundente per indurre i dirigenti libanesi a firmare il disarmo della resistenza – una fantasia che gli Stati Uniti stanno ora inseguendo con aggressività.

Trump, in cerca di un eredità da lasciare ai posteri, sta scommettendo su una mossa di politica estera ad alto rischio: costringere il Libano, ultimo stato arabo del levante ancora legato all’Asse della Resistenza, alla resa e a smantellare la sua ultima roccaforte difensiva contro l’espansione israeliana.

Un nuovo tipo di inviato, un nuovo tipo di minaccia

La missione di Barrack si discosta dal copione dei precedenti inviati statunitensi che, nonostante tutte le loro intromissioni, prendevano sul serio la fragilità del Libano. Oggi non è più così. Barrack, che è anche ambasciatore statunitense in Turchia e inviato speciale in Siria, rappresenta una nuova generazione di delegati imperiali, indifferenti alle faglie settarie o ai conflitti civili.

Washington è ora convinta che Hezbollah sia vulnerabile. Il piano è di annientarlo politicamente e, se necessario, militarmente, anche se ciò implica armare l’esercito libanese contro i propri cittadini. L’amministrazione Trump ha chiarito che baratterà la stabilità del Libano in cambio dell’egemonia statunitense e israeliana.

Secondo un funzionario libanese citato dall’agenzia Anadolu, a giugno Barrack ha consegnato a Beirut una proposta di cinque pagine incentrata su tre obiettivi principali. Il primo è il monopolio di tutte le armi sotto il controllo dello Stato libanese. Il secondo prevede l’attuazione di riforme fiscali ed economiche, tra cui controlli di frontiera più rigorosi, misure anticontrabbando e un aumento delle entrate doganali. Il terzo chiede una riorganizzazione dei rapporti con la Siria attraverso la demarcazione dei confini e l’espansione degli scambi commerciali. 

Il documento non specifica alcuna tempistica, ma le pressioni degli Stati Uniti lasciano supporre una piena attuazione entro la fine dell’anno. Il Libano, afferma il funzionario, sta elaborando una risposta unitaria basata su una dichiarazione ministeriale e sul discorso inaugurale del presidente Joseph Aoun.

Ma Beirut ha le sue richieste, tra cui la fine delle violazioni israeliane, il ritiro completo dai territori occupati e l’avvio degli sforzi per la ricostruzione nel sud.

Per ora, la posizione ufficiale di Hezbollah rimane riservata. Si prevede che la risposta emergerà nei prossimi giorni, con il ritorno di Barrack a Beirut.

Dopo l’incontro di oggi a Beirut con il Presidente Aoun, il Primo Ministro Nawaf Salam e il Presidente del Parlamento Nabih Berri, Barrack ha dichiarato di essere “soddisfatto” della risposta delle autorità libanesi alla richiesta di Washington in merito al disarmo di Hezbollah. Allo stesso tempo, ha avvertito che il Libano “rimarrà indietro” se non si muoverà in linea con i cambiamenti regionali in corso. Barrack ha inoltre affermato che “Hezbollah è un partito politico e ha anche un’ala armata. Hezbollah deve capire che c’è un futuro per loro, che questa strada non è pensata solo contro di loro, e che esiste un’intersezione tra pace e prosperità anche per loro”.

Promesse vuote, nessuna moderazione da parte di Israele

Durante la sua ultima visita, Barrack ha incontrato i tre massimi funzionari libanesi per presentare un piano di disarmo graduale, suddiviso per tempi e area geografica. Ha accennato a possibili pressioni statunitensi su Tel Aviv affinché abbandoni i punti recentemente occupati. Ma, messo alle strette, ha ammesso che non vi sono garanzie che Israele avrebbe cessato la sua aggressione.

Questo non è un accordo di pace. È un ultimatum.

L’azione di Barrack segna il culmine di una campagna decennale per smantellare il fronte antimperialista della regione. Con Egitto e Giordania da tempo cooptati, l’era baathista siriana sventrata e le fazioni irachene frammentate, fatta eccezione per l’esercito yemenita allineato ad Ansarallah, Hezbollah rimane l’ultimo importante deterrente armato all’espansione israeliana.

Washington e Tel Aviv lo hanno capito. Disarmare Hezbollah spiana la strada alla normalizzazione diplomatica non solo con Beirut, ma anche con il cosiddetto governo ad interim siriano, guidato di fatto dal presidente Ahmad al-Sharaa, ex capo dell’ISIS con il nome di battaglia Abu Mohammad al-Julani, ora più vicino alla normalizzazione con Tel Aviv.

Capitolazione senza compensazioni

Gli Stati Uniti chiedono tutto e non offrono nulla. Non ci sono garanzie di ritiro israeliano. Nessun rilascio di prigionieri. Nessuna fine di attacchi aerei o omicidi. Nemmeno armi per l’esercito libanese o fondi per la ricostruzione.

Al contrario, Washington continua a soffocare l’esercito bloccando i trasferimenti di armi e prendendo di mira le scorte sequestrate, consolidando così la sua sudditanza.

La cosiddetta soluzione di Barrack è una trappola. Priva ulteriormente il Libano della sua sovranità, incoraggia ulteriori attacchi israeliani nel sud, nella Bekaa e persino a Beirut, e apre la strada alla frammentazione settaria sotto l’egida di una riforma nazionale.

Con alcune fazioni interne che ripetono a pappagallo i discorsi di Stati Uniti e Israele, la minaccia non è più solo esterna. Elementi libanesi di destra, sostenuti dall’Occidente, stanno guadagnando terreno narrativo, adottando apertamente il discorso di Tel Aviv sulle armi della resistenza. Queste forze potrebbero presto coordinarsi direttamente con lo stato di occupazione, diventando agenti interni di destabilizzazione.

Nel frattempo, la proposta ignora la questione dei rifugiati palestinesi, omette i meccanismi di sicurezza delle frontiere e non offre alcuna via per scoraggiare le incursioni israeliane. Di fatto, prepara il terreno per una spartizione settaria del Libano motivata da ragioni di sicurezza.

Dividi et impera: disarmo graduale

La strategia di Washington è chiara. Mira a isolare e disarmare le fazioni della resistenza una a una. Il mese scorso, l’obiettivo erano i gruppi palestinesi. Ora, Hezbollah. L’obiettivo è impedire la formazione di un fronte unito, stroncando la solidarietà interconfessionale e colpendo singolarmente i bersagli.

Se queste pressioni non vengono assorbite e neutralizzate, i rischi sono esistenziali. È probabile un massiccio attacco israeliano al Libano o un conflitto civile creato ad arte. Allo stesso tempo, gruppi estremisti stanno risorgendo in Siria sotto l’occhio vigile di Sharaa, un uomo desideroso di compiacere in tutti i modi Washington e Tel Aviv.

Hezbollah e i suoi sostenitori si trovano di fronte a una scelta ardua. Devono arrendersi ai diktat stranieri o consolidare le proprie difese e rifiutarsi persino di prendere in considerazione un dibattito sulle armi finché le minacce persistono.

Questa potrebbe essere la minaccia più grave all’esistenza del Libano nel dopoguerra. Con gli Stati Uniti che abbandonano ogni pretesa di neutralità e propugnano apertamente una nuova mappa regionale, il Paese si trova ad affrontare un futuro binario: resistere o essere smembrato.

La salvezza del Libano si basa su una sola verità. Solo un fronte unito a sostegno della resistenza può preservarne la sovranità e proteggerlo dagli avvoltoi che volteggiano in quenel cielo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *