Mentre sulla linea di combattimento emergono, in tutta la loro evidenza, i limiti tattici e strategici della NATO, preludio ad una sconfitta che è già nei fatti, ed a cui manca solo la sanzione formale e finale, all’interno della Federazione Russa si gioca un’altra partita, non meno importante, soprattutto per gli europei; ed a cui proprio gli europei dovrebbero prestare attenzione, giacché da lì dipende il futuro del vecchio continente nei decenni a venire.
Sulla linea di combattimento
Come era facilmente prevedibile – ed infatti previsto – il tentativo di passare ad una postura offensiva da parte delle forze armate ucraine, cercando di replicare i successi della scorsa estate, non solo non ha dato i risultati sperati, ma si è trasformato in un vertiginoso incremento delle perdite.
Se infatti l’offensiva dell’estate 2022 consentì a Kiev di riprendere Kharkiv (approfittando del fatto che i russi avessero lasciato quel settore quasi sguarnito) e la parte di Kherson sulla riva destra del Dniepr (da cui però i russi decisero di ritirarsi senza neanche combattere, per una scelta strategica del Generale Surovikin), stavolta per l’esercito ucraino si è trattato di andare all’attacco di forze considerevoli, ben fortificate e largamente superiori in alcuni ambiti fondamentali: artiglieria, aviazione d’attacco, guerra elettronica.
Il risultato di sei settimane di controffensiva è semplicemente devastante per Kiev, tanto che ormai in occidente si comincia (sia pur malvolentieri) ad archiviare questa storia e tutte le aspettative ad essa connesse. Dopo il sanguinoso tritacarne dell’ostinata resistenza a Bakhmut, contro ogni logica militare, il salasso di sangue pagato in queste ultime settimane rende le cose davvero complicate per il governo di Kiev. Ormai le perdite viaggiano nell’ordine dei 400.000 KIA, una cifra enorme rispetto ai numeri delle forze impiegate.
Tra l’altro, la capacità di mobilitazione diventa sempre più difficoltosa; benché vi sia potenzialmente un bacino ancora ampio cui attingere (1), non si può certo dire che l’Ucraina sia percorsa da un fremito patriottico, che spinge ad arruolarsi volontariamente. Ovviamente, la consapevolezza che le probabilità di rimanere uccisi è elevatissima è la prima ragione che raffredda l’afflato nazionalistico; ma anche la dilagante corruzione degli ufficiali, spesso più preoccupati di lucrare in ogni modo possibile che di combattere, fa la sua parte.
Del resto, ormai sono centinaia, se non migliaia, le testimonianze video dei reclutamenti forzati, veri e propri rastrellamenti. Da ultimo, il governo di Kiev ha stretto accordi con vari paesi europei affinché questi si incarichino a loro volta di rimandare in Ucraina gli uomini delle classi richiamate e precedentemente rifugiatisi all’estero allo scoppio dell’Operazione Speciale Militare. Tutti segnali, appunto, di una difficoltà di reclutamento. Ciò nonostante, secondo l’attuale Ministro degli affari dei veterani ucraino, alla fine della guerra “la nostra previsione è che ce ne saranno almeno 4 milioni” (2). Secondo i media ucraini, “la cifra è abbastanza spaventosa, perché è più di quattro volte l’attuale forza delle forze armate ucraine”.
Ovviamente questa stima ha un suo senso nella previsione che il conflitto si protragga ancora a lungo, non meno di altri due anni. Per arrivare a quei livelli di mobilitazione, stante la situazione precedentemente descritta, e che tende ad aggravarsi, è infatti necessario un tempo abbastanza lungo; peraltro, ammesso che non venga meno il fattore tempo, benché il regime zelenskyano si sia dimostrato disponibilissimo a fornire carne da cannone alla proxy war della NATO, resta comunque l’esigenza di addestrare ed armare questa eventuale massa di mobilitati. Cosa che, allo stato, appare sempre più complicata, viste le crescenti difficoltà della NATO stessa.
Uno degli esiti della fallimentare strategia ukro-NATO, infatti, è il consumo quasi completo delle disponibilità di armamenti da parte dei 33 paesi membri dell’Alleanza. Il che ha mostrato, tra l’altro, non solo l’impreparazione strategica nell’affrontare un conflitto ostinatamente voluto e provocato, ma anche gli enormi limiti del potenziale militare della NATO stessa. Tutte le potenti tecnologie belliche fornite a Kiev, spesso spacciate per decisivi game changer, si sono alla fine dimostrate estremamente sopravvalutate. E non si tratta semplicemente di un cattivo uso da parte degli ucraini, come pure qualcuno vorrebbe far credere, a cui se mai si deve rimproverare di aver seguito le direttive tattiche impartite dagli addestratori e dai comandi NATO; né tanto meno di una mera questione d’insufficienza quantitativa.
Il problema, e qui sarebbe necessario aprire ben altro capitolo, è strutturale, quasi ideologico. L’occidente collettivo si è talmente a lungo crogiolato nella presunzione della propria superiorità (morale, politica e tecnologica, mettendo quest’ultima alla prova prevalentemente contro forze infinitamente inferiori sotto ogni profilo), da aver messo a punto un modello – strategico, tattico, e quindi anche iper-tecnologico – che discende direttamente da questa idea di superiorità. Il giardino borrelliano non può che vincere, contro la giungla.
La realtà della guerra guerreggiata si è incaricata di spazzare via questa illusione. Disporre di strumenti altamente tecnologici, costosissimi e, quindi, disponibili in quantità limitate, non serve quando si deve fronteggiare un esercito di pari livello, che dispone di strumenti un po’ meno sofisticati, ma in grandissima quantità.
Inoltre, c’è una questione rilevantissima, che incredibilmente i comandi NATO sembrano aver sottovalutato. Il modello strategico occidentale è basato interamente sulla coordinazione terra-aria, e richiede quindi l’impiego massiccio di una forza aerea predominante. Senza di essa, il modello semplicemente non funziona e si traduce in un tritacarne (ed un tritacarri).
Non è a caso che la NATO, se ancora può disporre – almeno teoricamente – di un vantaggio strategico (nei confronti di Russia-Cina-Iran), questo risiede proprio nel campo dell’aviazione, sulla quale ha investito moltissimo. E si tratta appunto, anche qui, di un vantaggio teorico, in quanto mai verificato sul campo.
E comunque il dato quantitativo non è privo d’importanza. È infatti ben chiaro che fornire i caccia-bombardieri F-16 a Kiev resta strategicamente insignificante, non solo perché la Russia dispone di migliaia di velivoli equivalenti o migliori, ma perché i sistemi di difesa aerea russi ne farebbero strame.
Sul fronte interno
Ha di recente fatto un po’ scalpore la notizia dell’arresto, da parte delle forze di sicurezza russe, di Igor Girkin ‘Strelkov’. Famoso combattente del Donbass durante la guerra civile, Strelkov è poi diventato un esponente di punta di quel mondo iper-nazionalista russo, estremamente critico nei confronti delle scelte strategiche del Cremlino, verso cui non ha risparmiato critiche ferocissime.
Questo arresto va a mio avviso inquadrato in un contesto più ampio, che serve a meglio comprendere cosa sta accadendo dietro la prima linea.
In questo quadro, vanno collocati sia il fallito putsch di Prigozhin, sia il ridislocamento della Wagner in Bielorussia, sia l’incontro di Putin con i blogger di guerra lo scorso giugno. Per restare ovviamente ai fatti più noti.
Anche se lo storytelling occidentale ama dipingere la Russia come un’autocrazia orientale ed un po’ barbara, la realtà è alquanto diversa. Fondamentalmente, la Federazione Russa è una democrazia rappresentativa presidenziale, come può esserlo la Francia e gli stessi Stati Uniti, anche se ovviamente – per ragioni storiche e culturali – vi sono delle differenze, formali e sostanziali. Ma soprattutto, la Russia (la sua parte più popolosa ed importante) è e si sente europea.
Ne consegue che la società russa contemporanea non è poi molto dissimile da quella di qualunque altro paese europeo, ed al suo interno – fermo restando il larghissimo consenso di cui dispone Putin, anche da prima del conflitto (3) – si muovono diverse correnti di pensiero politico, le cui diversità si riflettono poi anche sulle questioni di merito relative al conflitto in Ucraina.
C’è una componente liberal, cosmopolita, che guarda all’occidente, composta prevalentemente – ma non solo – dall’oligarchia economica, che nei rapporti con l’ovest ha ulteriormente sviluppato il proprio successo economico, così come c’è una variegata componente nazionalista, che rivendica con forza la rottura, culturale e politica, con questo occidente.
La posizione di Putin, e del suo gruppo dirigente, che deve comunque fare i conti con queste realtà presenti all’interno della nazione, è in un certo qual senso mediana. C’è ovviamente piena consapevolezza che – quella che stiamo attraversando – è una fase di rottura nei rapporti est-ovest, e che non si tratta di una questione di breve durata. Con un orizzonte, a voler essere ottimisti, di nuova guerra fredda, è chiaro che la Federazione deve essere in qualche modo ridislocata strategicamente, non solo sotto il profilo economico e militare, ma in senso più ampio anche geopoliticamente; il che comporta un lavoro anche culturale. Ma, al tempo stesso, c’è consapevolezza che il ruolo storico della Russia è quello di fare da ponte tra Europa ed Asia, di essere lo snodo centrale di una prospettiva euroasiatica. Senza questo ruolo, se l’asse geopolitico venisse spostato completamente verso l’Asia, la Russia sarebbe destinata ad essere fagocitata politicamente dalla Cina. Si tratta quindi di giocare una partita di grande equilibrio, che per un verso deve fare i conti con l’esigenza di pendere tatticamente ad est, ma senza mai perdere di vista l’esigenza – altrettanto importante – di non disperdere il sentiment di appartenenza europea.
Per questo diventa necessario segare sul nascere quelle forme di opposizione troppo radicali, che si spingono troppo oltre nella critica; del resto, si tratta pur sempre di un paese in guerra. In quel presunto tempio della democrazia che sta dall’altra parte del fronte, accade quotidianamente molto, ma molto di peggio.
Analogamente, diventa necessario spiegare ai corrispondenti dal fronte indipendenti che la questione non è meramente tattico-strategica, ma che ha una dimensione (ed una prospettiva) assai più ampia, e che pertanto è necessario tenerla presente anche quando – legittimamente – si muovono critiche al modus operandi delle forze armate.
C’è infine da tener presente, anche a fronte di un (sia pur maldestro) sollevamento come quello della Wagner, non solo della popolarità acquisita dalla PMC, ma anche del ruolo che questa svolge e può svolgere, sullo scacchiere internazionale.
La soluzione di compromesso adottata per risolvere la crisi innescata da Prigozhin, quindi, al di là di come possa apparire, va letta ed inquadrata ancora una volta in un contesto strategico più ampio. Il fatto che Prigozhin stesso sia stato graziato per la sollevazione, non toglie che sia sempre sotto scopa in Russia, dove si trovano le sue altre imprese ed i suoi beni. È chiaro che il suo ruolo sarà sempre più ridimensionato, anche mediaticamente, mentre tornerà ad essere centrale la figura di Urkin, il capo militare e fondatore della PMC. In fondo, la compagnia è nata da e per conto dei servizi di sicurezza militari. Il suo ruolo in Africa è strategicamente importante, e non può essere facilmente sostituito.
Ma soprattutto è chiaro che il trasferimento in Bielorussia risponde ad un preciso disegno strategico. Che non è certamente quello di farne una base offensiva verso ovest, come pure racconta la narrazione NATO style.
Dal punto di vista russo, la Bielorussia è assai più che un paese amico; sostanzialmente, è quasi una marca ad ovest, ma al tempo stesso è anche un po’ un ventre molle. Mosca, più che altro, teme che possa essere oggetto di una manovra aggirante della NATO, combinando tentativi insurrezionali interni ed attacchi esterni. Tenendo presente questo punto di vista, si spiegano meglio una serie di mosse. Che sono anche concatenate tra loro.
Dispiegare lì i missili nucleari tattici non ha solo un valore dissuasivo verso la NATO, e di riequilibrio dopo l’adesione della Finlandia, ma significa indicare in modo forte e chiaro come Mosca guarda a Minsk. Cosa poi ribadita ancor più esplicitamente da Putin, quando ha affermato che un attacco contro la Bielorussia sarebbe considerato equivalente ad un attacco contro la Russia stessa.
A sua volta, dispiegare lì anche la Wagner significa aggiungere un dissuasore importante, rispetto ai temuti piani NATO, nonché una protezione per le armi nucleari che vi sono state portate. Last but not least, può rappresentare sia un modo per riportare in Russia parte delle truppe che si trovano attualmente in territorio bielorusso, sia per togliere dal territorio russo un possibile interlocutore per quelle forze iper-nazionaliste di cui si è detto.
Insomma, quella che stanno giocando Putin e i suoi è una partita a scacchi, che vede per scacchiera il mondo intero. Già solo per questo, per la portata delle questioni in ballo, sarebbe bene che gli europei tifassero Putin a più non posso; la sua posizione equilibrata, infatti, è la miglior garanzia non solo per prevenire tremende escalation, ma soprattutto per assicurare una possibilità ad un dopo più ragionevole. E ciò a prescindere dal fatto che si possa essere o meno d’accordo con la sua politica.
Il 24 marzo 2024, mesi prima che in USA, in Russia si voterà per le presidenziali. L’ultima dichiarazione in merito di Putin era che non intendesse ricandidarsi, ma è ragionevole credere che non si sottrarrà a questa responsabilità proprio mentre il paese, sotto la sua guida, si trova a metà del guado. Di certo, diversamente da quel che accade in Ucraina, non cancellerà il voto col pretesto della guerra. Un prevedibile successo plebiscitario darebbe alla Russia la forza per superare di slancio la crisi, e portare a compimento un disegno che la vede – ora e sempre – parte della famiglia europea.
1 – Cfr. “Una lunga estate calda”, Giubbe Rosse News
2 – Interessante notare che questa cifra corrisponde esattamente a quella che stimavo raggiungibile con una mobilitazione totale. Cfr. “Una lunga estate calda”, ibidem
3 – Fondamentalmente, il sostegno a Putin va attribuito alla sua capacità di risollevare la Russia dal disastro post-sovietico in cui l’avevano precipitata Gorbaciov prima, e Eltsin poi. Ma vi hanno contribuito sia la capacità di stroncare il terrorismo islamista (le due guerre cecene), sia la scelta di intensificare i rapporti con l’Europa.
Interessante ed articolata riflessione sul mondo russo: plausibile e condivisibile…. certo c’è più chiarezza da quelle parti, e non manca la moralità, caratteristiche che nel decadente occidente si vanno perdendo giorno dopo giorno, accettando ciò che fino ad ieri era considerato inaccettabile