Ora, il nostro tempo non è affatto “ordinario” e chiama a scelte radicali, profonde. Ma per fare queste scelte, per poter dire di aver vissuto e lottato per la Verità, per la Giustizia, per la Bellezza, chiediamoci prima se siamo ancora capaci di leggerla la Realtà, di leggerla “in trasparenza”.

Il nero non è solo oscurità. La luce può anche dimostrarsi illusorio abbaglio. La Realtà non ha un solo strato, un solo piano di azione. Siamo purtroppo noi moderni ad aver perduto la profondità per comprenderla, mentre ci siamo avventurati alla conquista di spazi solo “orizzontali”.

Wim Wenders torna al cinema con un film che è senza dubbio una fra le opere più riuscite, poetiche, e toccanti della sua carriera: Perfect days. Un film che ha tuttavia anche i suoi limiti, che può essere esposto a critiche – se ne sono lette alcune però fin troppo sbrigative ed ideologiche – ma che conserva dall’inizio alla fine una sua coerenza e una lucidità che sono davvero rare oggigiorno.

Noi qui proveremo ad andare anche oltre, come spesso facciamo, prendendo spunto da alcuni aspetti del film, sia di contenuto che di poetica, per portare la riflessione oltre la cornice del cinema, là dove sempre dovrebbe essere portata: nella vita vera.

Siamo a Tokyo. Hirayama è un uomo che lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Di lui non sappiamo nulla e parla assai poco. Lo seguiamo nella sua metodica routine, un giorno dopo l’altro, mentre pulisce i bagni della metropoli giapponese, ognuno con una sua architettura particolare. Ama la musica degli anni ‘60 e ’70 che ascolta sul suo furgone mentre va al lavoro, da vecchie audiocassette. La sera, prima di addormentarsi, legge sempre un libro – la sua libreria ne è piena: Faulkner, Patricia Highsmith e autrici giapponesi di nicchia. Compie una serie di azioni che paiono scandite da un ritmo che si fa metodo, non semplice abitudine. Ma in questo tempo quasi ciclico intervengono alcuni episodi che faranno deviare leggermente la strada, che porteranno lo spettatore a fare delle scoperte, sempre attraverso gli occhi e le emozioni del protagonista. Della trama, però, non ci interessa qui dire molto altro.

Hirayama è un uomo umile, che ci insegna a ritrovare la giusta misura delle cose, la bellezza che si cela nei dettagli. Ma la sua non è la vita di chi semplicemente si accontenta di una “vita da poco”, di un mestiere che per molti sarebbe privo di dignità. Il suo apparire quasi anonimo, il suo nascondimento è una scelta. Lo si intuirà ad un certo punto del film. Scrivo che si intuirà, perché la maestria di Wenders è quella di raccontare senza accondiscendere alla futile curiosità dello spettatore – e quanto siamo diventati futili! – è quella di evocare lasciando a noi la possibilità di immaginazione.

Hirayama è un uomo silenzioso, ma che ascolta molto, che ha la rara capacità di osservare. E proprio per questo, quando parla riesce ad entrare in relazione con gli altri, talvolta non ha bisogno nemmeno delle parole per farlo. Sorprende, anche senza far nulla di particolare, in apparenza. E osservare, il fare presenza a se stessi, costruisce memoria. Perché la vita non si perda e non si disperda, ma anzi continui, trasfigurata nei sogni. E lui sogna. Quanto sono poetici gli intermezzi onirici in bianco e nero curati dalla moglie del regista! Capaci di dare ancora più volume alla storia, al personaggio, all’estetica del film. Perché quei sogni sono Hirayama anch’essi, sono il resoconto animico della sua quotidianità.

Ora, il nostro tempo non è affatto “ordinario” e chiama a scelte radicali, profonde. Ma per fare queste scelte, per poter dire di aver vissuto e lottato per la Verità, per la Giustizia, per la Bellezza, chiediamoci prima se siamo ancora capaci di leggerla la Realtà, di leggerla “in trasparenza”. A noi pare invece che abbiamo smarrito, e da molto tempo, la capacità e la sensibilità per osservare le cose e ancora più le persone. Che abbiamo smarrito l’umiltà che è quella di chi sa di essere “servo inutile” chiamato a cooperare alla costruzione del Regno, ma che non è il proprietario del Regno. Che abbiamo smarrito lo sguardo attento ai dettagli e la mente che sa che proprio i dettagli svelano l’essenza di ciò che ci sta attorno, ad iniziare dagli altri. Che abbiamo smarrito la familiarità con la poesia, che non è una particolare disciplina artistica, quanto il modo di guardare il mondo per quello che realmente è; uno sguardo metafisico, simbolico e che si tuffa necessariamente nel Mistero.

Le nostre battaglie finiscono quasi sempre per essere semplicemente ideologiche, retoriche. Tali da metterci sempre al riparo da qualsivoglia coinvolgimento intimo, personale. Non toccano la nostra vita di ogni giorno, e anche se andiamo in piazza, o partecipiamo ad eventi pubblici, di noi mostriamo solo il lato ideologico, pubblico, ma le nostre miserie personali le teniamo ben nascoste e le conserviamo volentieri. Non ci mettiamo mai in gioco con tutto noi stessi, perché non comprendiamo più che la Realtà ci parla, che la Storia ci parla, anzi ci chiama in modo del tutto personale. Perché il cambiamento del mondo deve iniziare dentro di noi. In fondo, e lo abbiamo espresso più e più volte, noi dimostriamo di essere materialisti tanto quanto il mondo che pretendiamo di contrastare. Non usciamo mai dai suoi schemi, dalla sua cornice di pensiero. Anche un Guénon lo insegnava già un secolo fa, ma pare, ahimè, che non abbiamo per nulla imparato la lezione. Predomina ovunque il conservatorismo, ma quasi nessuno sa essere testimone credibile della Tradizione, che è tutt’altra cosa.

E su questo, Perfect days ci mostra un ulteriore porta verso la Vita. Hirayama ama osservare gli alberi e la luce che filtra tra le foglie mosse dal vento. Ogni giorno cerca di catturare questa luce nel giardino dove si reca per la pausa pranzo, con la sua vecchia macchina fotografica analogica. Solo scatti in bianco e nero che meglio evidenziano il contrasto fra la luce e le ombre. Ombre che più volte e in altri modi ritornano nel film.

Ed è significativo che in giapponese esista una parola per definire la luce che filtra tra le foglie degli alberi: Komorebi. Un termine composto da tre parole: ki (albero), more, da moreru (gocciolare, perdere) ed infine hi (sole, giorno, luce). Riprendendo quanto scritto all’inizio del presente articolo, diciamo che la Storia si sviluppa su più piani. Vi è, in superficie, la Storia come successione di eventi che, in particolare in quest’ultima fase del presente Ciclo, manifestano un carattere oscuro, nefasto. Ma al di sotto di questa corteccia di turbolenze, stanno un piano e una direzione provvidenziali e quindi evolutivi. Perché la Storia non ha solo una fine, ma anche un Fine.

Ecco che allora molte situazioni drammatiche, se non addirittura tragiche, andrebbero “lette” trovando il Segno luminoso nascosto sotto all’oscurità superficiale. E questi Segni sono altrettante chiamate inviate all’umanità. Ma noi non crediamo più a tutto questo. Dovremmo dircelo con onestà. Restano discorsi per noi quasi “leggendari” di civiltà tradizionali a noi lontanissime. Per noi la luce è luce e l’ombra è ombra. Il nostro sguardo come la nostra mente è statico. È schiacciato sul dato concreto, quantificabile: sulla materia appunto.

Il vento però ci ricorda che la realtà è in movimento, è dinamica; e se le foglie ci sembrano aver inghiottito il sole, una folata improvvisa può far gocciolare barbagli di luce tutto intorno. Biblicamente potremmo dire che se sul palcoscenico visibile della Storia vediamo alternarsi i cattivi Saul, in realtà noi dovremmo sempre ricordarci che sottotraccia è sempre e solo Davide (il Cristo) a guidarla verso il suo compimento. Perfect days è un film solo all’apparenza semplice. Esso è un’epifania della bellezza che sa erompere anche dal nostro quotidiano. Perché, a che serve credersi eroi se non sappiamo nemmeno vedere la luce dietro l’oscurità? Se non sappiamo nemmeno fidare nel vento, nella Vita?

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2 pensiero su “PERFECT DAYS: C’È LUCE ANCHE NEL BUIO”

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