Una delle conseguenze dellāoperazioneĀ Al-Aqsa Flood, ĆØ stata quella di dare una scossa ad una situazione geopolitica cristallizzata su uno status-quoĀ fittizio, non piĆ¹ corrispondente alla realtĆ . Lāazione della Resistenza palestinese, infatti, non ha semplicemente cambiato i rapporti di forza nei Territori Occupati della Palestina storica, ma ha terremotato gli equilibri dellāintera regione mediorientale, attivando un processo di trasformazione che investe innanzi tutto i paesi arabi. Questo puĆ² essere tra lāaltro riscontrato, controintuitivamente, osservandone le reazioni. Innanzitutto, va tenuto conto che la vecchia distinzione tra paesiĀ moderatiĀ eĀ radicaliĀ ĆØ, appunto, assolutamente datata, e non rispecchia piĆ¹ la condizione attuale del mondo arabo. Se, infatti, in altre fasi storiche questo si ĆØ mobilitato ā almeno formalmente ā per la causa palestinese, nonostante la dimensione assolutamente tragica assunta in questi ultimi cento giorni, stavolta sembra piĆ¹ che altro caratterizzarsi per una generale prudenza. Al di lĆ dei paesi che, sottobanco, continuano ad aiutare Israele (ad esempio Arabia Saudita e Giordania, per aggirare il blocco navale imposto nel mar Rosso dagli Houti), lāazione dei governi arabi ĆØ sostanzialmente assaiĀ tiepida. Non solo quello egiziano, ma anche quello iracheno e quello siriano (entrambe, sia pure parzialmente, sotto tutela iraniana) si stanno sinora muovendo con cautela.
In un certo senso, lāatteggiamento dei vari governi arabi della regione si potrebbe definire come conservativo; fondamentalmente, tutti avevano piĆ¹ o meno trovato una condizione di stabilitĆ che includeva lo stato ebraico e, tradizionalmente, erano usi barcamenarsi in equilibrio tra le superpotenze. Ma, giĆ a partire almeno dalla seconda guerra del Golfo, questi equilibrismi sono diventati sempre piĆ¹ difficili, sia per la crescente espansione della presenza militare americana, sia per il successivo arrivo della presenza militare russa, sia soprattutto per il riemergere di potenze regionali non arabe, quali la Turchia e lāIran, ben intenzionate a giocare un ruolo importante in Medio Oriente. In questo quadro, per molti governi arabi la presenza di Israele ha finito col diventare un fattore di stabilitĆ e di riequilibrio.
La mossa della Resistenza palestinese, quindi, ha scosso questi equilibri, in un duplice senso.
Innanzi tutto, mettendo a nudo la debolezza israeliana. Una debolezza a tutto tondo, politica, strategica e militare, che la reazione genocida a Gaza non fa altro che confermare, e la sua eterna dipendenza dagli Stati Uniti, da cui non riesce ad emanciparsi ancora dopo settantāanni.
Ed inoltre, portando alla luce unĀ terzo attoreĀ nel mondo arabo, tradizionalmente caratterizzato dal dualismo tra masseĀ emotiveĀ e governi autoritari, rappresentato da movimenti radicali social-islamici, fortemente organizzati ed armati, e strettamente connessi tra di loro.
Ovviamente questi fattori erano preesistenti al 7 ottobre, ma lāattacco palestinese ha fatto da catalizzatore, portando violentemente alla ribalta quellāAsse della Resistenza, assolutamente trasversale alle vecchie divisioni tra sciiti e sunniti, che ĆØ oggi ā ben al di lĆ della leadership iraniana ā il soggetto chiave della trasformazione.
Basti pensare a quanto sta accadendo parallelamente al conflitto in Palestina. Dagli attacchi contro le basi americane in Siria ed Iraq (oggi anche in Giordania!), al blocco navale Houti a Bab el-Mandeb. Senza ovviamente dimenticare alcune importanti premesse, a partire dalla mediazione cinese che ha portato alla ripresa delle relazioni tra Teheran e Ryad, ed a cascata alla riammissione della Siria nella Lega Araba ed alla fine della guerra in Yemen. Tutti avvenimenti, questi, certamente condizionati dallāinteresse cinese nella stabilizzazione dellāarea, in funzione dellaĀ Nuova Via della Seta, ma che ovviamente trovano spiegazione anche nella presa dāatto ā da parte dei paesi arabiĀ moderatiĀ e filo-occidentali ā del ruolo iraniano non solo nella regione, ma come attore importante nello sviluppo del mondo multipolare (anche grazie, ovviamente, alla relazione forte con Russia e Cina).
Anche se, sotto il profilo ideologico, questi movimenti sono assimilabili ad una correnteĀ conservatriceĀ (per quanto fortemente caratterizzata socialmente), ĆØ evidente che sotto il profilo politico assumono una forte valenza rivoluzionaria, sia per la radicale opposizione alla presenzaĀ imperialisticaĀ statunitense (ed a quellaĀ colonialeĀ israeliana), sia per lāalternativa che rappresentano nei confronti dei regimi arabi.
Ma in ogni caso ĆØ la loro azione politico-militare a determinare il ridisegno del Medio Oriente. E benchĆ© lāattuale amministrazione USA non abbia praticamente alcuna vera strategia di medio-lungo periodo, essa ĆØ comunque costretta a fare i conti con questa realtĆ in mutamento. I primi segnali forti sono rappresentati, per un verso dallāavvio di discussioni con il governo di Bagdad, finalizzate al ritiro completo e definitivo delle forze americane in Iraq, ed alla parallela decisione annunciata di ritirare quelle presenti (illegalmente) in Siria; parliamo di circa 6.000 militari in Iraq e 2.000 in Siria. Per lāaltro, dallāevidente fallimento della missioneĀ Prosperity Guardian, il cui esito era peraltro chiaro sin da prima che fosse avviata.
Anche non tenendo conto dellaĀ variabile impazzitaĀ rappresentata dallāattuale leadership israeliana, che potrebbe non solo incendiare il confine con il Libano ma lāintera regione, ĆØ evidente che in Medio Oriente ĆØ in atto uno smottamento strategico, destinato a modificarne profondamente il quadro geopolitico. La riduzione della presenza militare statunitense, in conseguenza, potrebbe diventare ben piĆ¹ massiccia di quella che si sta attualmente profilando. Se il mondo sunnita che faĀ de factoĀ capo allāArabia raggiungerĆ una posizione di stabilitĆ , definitivamente sganciata dal rapporto con Washington, a seguire si potrebbe registrare il ritiro americano da questo paese, dal Kuwait, dagli Emirati Arabi, dal Qatar, dal Bahreinā¦ e qui si tratta di presenze ben piĆ¹ importanti ā rispettivamente 3.000, 13.000, 5.000, 13.000 e 7.000 militari USA.
In ogni caso, si tratta di una tendenza inevitabile, sia perchĆ© lāinteresse strategico statunitense ĆØ destinato a spostarsi sempre piĆ¹ verso il Pacifico, sia perchĆ© i costi di mantenimento della enorme rete di basi militari estere (ben 64 solo nellāarea, dalla Turchia allāOman) imporranno prima o poi dei tagli, sia perchĆ© la rete di basi mediorientali ĆØ destinata a fare da bersaglio ancora a lungo, per le formazioni combattenti dellāAsse della Resistenza.
Di fatto, la presenza militare americana nella regione sarĆ soggetta ad unaĀ guerrilla warfareĀ di lunga durata, sinchĆ© non decideranno di ritirarsi definitivamente. In un processo destinato ad autoalimentarsi, e ad accelerare progressivamente, i paesi tradizionalmente alleati di Washington si sposteranno sempre piĆ¹ fuori dallāorbita statunitense (il passaggio nei BRICS+ rappresenta appunto il collocamento in una posizioneĀ terza), e questo ne renderĆ sempre meno gradita (e sempre piĆ¹ precaria) la permanenza dei presidi militari. La pressione politicaĀ eĀ militare delle formazioni radicali finirĆ col far pendere la bilancia in favore del ritiro.
Ma naturalmente questa fase di ridisegno della mappa geopolitica medio-orientale avrĆ una estensione ā non solo temporale ā assai ampia, essendo destinata a ripercuotersi su unāarea piĆ¹ vasta.
Posto che lāobiettivo strategico, per lāIran innanzitutto, ĆØ assumere il pieno controllo dallo stretto di Hormuz al Mediterraneo, significa che tutta lāarea del mar Rosso ne sarĆ investita ā e di fatto, il processo ĆØ giĆ in corso.
I punti cardine di questa strategiaĀ estesaĀ sono rappresentati dal Sudan, dove le forze ribelli delle RDF stanno combattendo contro il governo centrale (appoggiato da russi e iraniani, e politicamente vicino agli egiziani), Eritrea e Somalia (con il filo-israeliano governo di Addis Abeba cheĀ contrattaĀ una base navale con il Somaliland, suscitando le ire della filo-egiziana Somalia), lāEgitto (ancora assai riluttante ad agire direttamente, ma che prima o poi potrebbe rompere gli indugi su uno dei fronti che lo vedono politicamente impegnato), e la Libia (con il fronte NATO-Turchia da una parte e quello Cairo-Russia dallāaltro).
Tutte queste aree di crisi sono inevitabilmente destinate a connettersi, nellāambito di questoĀ grande gioco strategicoĀ che vede i tre maggiori avversari degli Stati Uniti ā Russia, Iran e Cina ā lavorare in funzione della liberazione dal controllo americano di questa regione fondamentale, non solo e non tanto per il petrolio, ma perchĆ© si colloca ad uno snodo importantissimo tra il centro dellāEurasia e lāAfrica.
La sua posizione di dominio sulle rotte commerciali navali (il 12% del traffico globale passa dal mar Rosso), inoltre, rappresenta una sfida al dominio della potenza talassocratica anglosassone, ed ĆØ un importante tassello della fondamentale partita energetica europea, da cui dipenderanno le sorti del vecchio continente.
IlĀ cuoreĀ della partita ĆØ perĆ², ovviamente lāIran. Non solo perchĆ© ĆØ sua la visione strategica che muove complessivamente le forze antimperialiste mediorientali (lāAsse della ResistenzaĀ ĆØ una creazione del Generale Suleimani, non a caso assassinato dagli USA), e che le supporta con finanziamenti, addestramenti, forniture di armi e diĀ intelligence, ma perchĆ© la sua potenza militare (e politica) ĆØ lāostacolo sinora insormontabile. Non per caso, mentre sia Israele che una parte dei repubblicani spingono costantemente per un attacco contro Teheran, e mentre la propaganda occidentale attribuisce costantemente allāIran la responsabilitĆ di tutto ciĆ² che avviene nella regione (dallāattacco della Resistenza palestinese ai lanci di missili degli Houti, da Hezbollah alle milizie sciite irachene), sia Tel Aviv che Washington si guardano bene poi dal colpire direttamente lāIran. PerchĆ© sono ben consapevoli che un conflitto aperto e diretto avrebbe costi enormi, probabilmente tali da mettere in ginocchio Israele e da compromettere definitivamente ogni pur minima presenza statunitense nellāarea.
Dopo laĀ debacleĀ in Ucraina, il Medio Oriente rappresenta oggi il terreno su cui viene messo alle strette il disegno egemonico americano, e soprattutto quello dove con maggiore evidenza si manifesta la crisi dei tradizionali strumenti di dominio statunitensi, il dollaro e la forza militare. La capacitĆ di deterrenza di entrambe ĆØ infatti ormai tramontata, ed anche lāutilizzo diretto e coercitivo si mostra estremamente difficile, poichĆ© lāegemoneĀ non ĆØ (piĆ¹) in grado di portare un colpo definitivo contro i suoi sfidanti, ed ĆØ quindi costretto a giocare una partita sostanzialmente difensiva, muovendosi sul filo del rasoio tra il crescente logoramento imposto dalla strategia avversaria e la necessitĆ di concludere in fretta.
A differenza della questione ucraina, quella mediorientale ĆØ una partita assai piĆ¹ complicata ma anche assai piĆ¹ importante. Anche se lāimpegno nella guerra in Europa ĆØ stato abilmente e largamente nascosto dietro il velo dellaĀ proxy war, la portata della sconfitta della NATO ĆØ assai piĆ¹ vasta e profonda di quanto non appaia; ciĆ² nonostante, ĆØ poca cosa in confronto alla centralitĆ strategica del Medio Oriente.
Non a caso, la quantitĆ e la qualitĆ degli aiuti immediatamente forniti ad Israele, in pochissimo tempo, dimostra non semplicemente il legame esistente tra Washington e Tel Aviv, ma appunto la valutazione di una ben maggiore rilevanza strategica dello scacchiere. Questo da un lato fa sƬ che gli USA si impegneranno molto piĆ¹ di quanto non abbiano fatto in Ucraina, ma al tempo stesso implica che manca del tutto lāopzione di un disimpegno graduale, che consenta di sganciarsi da una situazione di crisi irrisolvibile mantenendo lāapparenza di non uscirne sconfitti.
Il Medio Oriente si presenta quindi come il terreno su cui si misurerĆ la effettiva capacitĆ di innovazione strategica americana. Una (eventuale) presidenza Trump probabilmente troverebbe il modo di uscire dal pantano ucraino, ma difficilmente avrebbe vie percorribili altrettanto facili, per uscire da quello mediorientale. Il ridisegno geopolitico ĆØ un processo ormai inarrestabile.