È un realismo magico quello del giovane regista vietnamita. È un cinema che sa osare senza elemosinare consensi dal pubblico. È un cinema essenziale, ma non povero. Profondo e sincero e mai scontato. Inside the yellow cocoon shell è un viaggio alla ricerca della fede, dell’anima, fra le piccole comunità cattoliche del Vietnam.

«Mi sento…inquieta e soffocata. Come se ci fosse una densa nube che mi avvolge. E mi impedisce di raggiungere la luce. Non posso esistere simultaneamente nella luce e nell’oscurità. Questo mondo mi ha tentato abbastanza a lungo. Devo decidere». Così, nel film Inside the yellow cocoon shell, una giovane donna esprime la sua inquietudine interiore, spirituale. Il bisogno di affrontare senza più tentennamenti ciò che realmente la vita le sta chiedendo. Ma noi facciamo scivolare volentieri questa espressione verso il nostro tempo, i nostri luoghi, la nostra società, dove abitano anime intrappolate in una nube, di cui molto spesso non sono consapevoli appieno. E in questa nube si sono però anche convinte di aver trovato tutte le risposte che servono, quelle che le rendono migliori di chi risposte non ne ha proprio. Ma la nube, per quanto appaia loro forse luminosa, non è la luce vera. Ed è per la luce invece che ci dobbiamo tutti alfine decidere.

Thien An Pham, giovane regista vietnamita, firma con il suo lungometraggio di esordio una storia che ci porta nel Vietnam forse più sconosciuto a noi occidentali, quello delle piccole comunità cattoliche fra le montagne del centro del Paese. Cattolicesimo che conta oggi circa 8 milioni di fedeli.

Il film si apre con una scena in un bar all’aperto accanto a dei campi di calcetto. Siamo a Saigon nel 2018, nell’estate dei Mondiali di calcio. Tre ragazzi bevono birra ad un tavolo, fra il chiasso degli avventori che guardano una partita. Ma la loro conversazione è quanto di più surreale ci possa essere in quel contesto: parlano di fede, di vita eterna. Uno si dichiara apertamente ateo e sorride all’amico che invece dice di credere. Il terzo, Thien, che sarà poi il protagonista del film, resta silenzioso per tutto il discorso, ma alla fine, interpellato risponde: «L’esistenza della fede è ambigua: voglio credere, ma non ci riesco. Ho provato a cercarla molte volte, ma la mia mente mi trattiene».

Si solleva il vento mentre un’avvenente ragazza cerca di vendere loro una nuova birra artigianale, poi un forte rumore proviene dalla strada accanto: uno scontro fra due moto. L’incidente sembra subito grave. Alcuni si avvicinano per prestare soccorso, mentre molte altre persone osservano senza far nulla, come se fosse semplicemente un altro spettacolo a cui assistere.

I tre ragazzi si ritrovano poi ad una sauna. A Thien squilla il cellulare ma non risponde. Si fa fare un massaggio e il cellulare squilla ancora ripetutamente, ma lui continua a non rispondere, finché lo avvertono che lo stanno cercando per un’emergenza familiare. Sua cognata è morta in un incidente, mentre Dao, il figlio di cinque anni è rimasto solo lievemente ferito. Probabilmente si tratta proprio dell’incidente visto prima davanti al bar, ma il regista non ci tiene a specificare, ad essere didascalico. Il fratello di Thien aveva lasciato la moglie anni fa e lui non ne sa più nulla. Da qui dunque inizia un viaggio che riporta Thien, con al seguito il piccolo Dao, nei suoi villaggi di origine, sulle montagne, per officiare i riti funebri per la cognata. E forse per ritrovare suo fratello, il padre di Dao.

Ma questo è molto più che un viaggio nei luoghi del passato, nella memoria, nelle relazioni che si sono interrotte. È un viaggio alla ricerca dell’anima, della fede, del senso profondo dell’esistenza che Thien non avrebbe probabilmente mai intrapreso se la vita lo avesse lasciato nella sua monotona superficialità della vita a Saigon.

Perché occorre lasciare la folla, la città – metaforicamente le voci superficiali che sole sembrano sostanziare la nostra società ormai morente, i saperi del tutto profani e incapaci di dare ragione dell’immateriale, dell’invisibile – e avventurarsi dove la natura regna selvaggia e maestosa coi suoi apparenti silenzi, dove la nebbia, le piogge violente, paiono togliere riferimenti ai nostri occhi, quasi a volerci far perdere. Perché prima, sì, bisogna perdersi, attraversare “la notte oscura” per poi alla fine trovarsi e giungere alla luce.

E in questo viaggio, insieme a Thien, incontreremo figure talvolta bizzarre quanto profondamente umane. Come un’anziana signora avvicinata nel bar accanto ad una piccola officina di montagna, che mentre sorseggia del tè gli parla dell’anima e della salvezza e gli racconta una sua esperienza di pre-morte. «Hai abbandonato la tua anima?» gli domanda. Perché intuisce che Thien prima ancora di suo fratello è in cerca di se stesso, della dimensione spirituale che ha perduto. Poi Thien si sveglia. Era un sogno o realtà? Ormai però è quasi notte e piove a dirotto. Il meccanico ha chiuso l’officina e non c’è più nessuno. Thien si incammina lungo la strada deserta. Poi la pioggia sembra placarsi. Si ferma e in cima ad un grande albero uno sciame di bianche farfalle prende vita. Come una piccola epifania, un segno luminoso in quell’oscurità bluastra.

Quale sarà il traguardo di Thien? Il film non lascia lo spettatore con una risposta definita e chiusa. Resta forse la sua incertezza, l’inquietudine di chi però sa di aver lasciato alle spalle il vecchio Thien per trovarne uno nuovo, forse quello vero. È un viaggio quasi omerico il suo. Fra le montagne ancestrali, dove gli elementi della natura sanno ancora parlare agli uomini. Il vento e l’acqua sono molto presenti nel film, spesso con la loro irruenza, a dominare, a scuotere. E così anche nel finale troviamo l’acqua ma questa volta quella chiara, placida di un piccolo fiume, in una giornata di sole accecante. Acqua come l’anima.

Perché questo è un film animico, nel suo fluire lento e profondo per tre ore. Ma si resterebbe ancora in quel mondo per altrettante ore. Perché si avverte una forza di vita e di verità in quelle immagini, in quelle parole, mai didascaliche, sempre evocative. Un’opera certo tipicamente estremo-orientale nello stile, nel tono. I piani sequenza lunghissimi, con la macchina da presa che si muove negli ambienti insieme ai personaggi. Una stupefacente maestria della messa in scena. E la coraggiosa capacità di alternare intere scene o momenti in campo lungo a primi piani densissimi.

Il film è un’esplosione di altarini, di statue della Madonna e del Cristo, di una religiosità viva, che si fa realmente umana, incarnata. Nella povertà, nella semplicità delle vite dei piccoli villaggi delle montagne. Ma non vi è affatto artificiosità in queste immagini, nei dialoghi solo apparentemente “non quotidiani”. Tutto è al contrario sincero, evocativo, vero. Perché tutto è intimo, la luce come il dolore, la ricerca della fede, come gli impedimenti per raggiungerla.

Thien An Pham scruta spesso i personaggi incorniciati dietro a finestre, porte, pertugi, come a delimitare la realtà. A restringerla, lasciando ai bordi qualcosa che non può essere definito, afferrato. Come se lo spazio di azione interiore sia a sua volta limitato. Eppure essi cercano indefettibilmente la libertà. E noi?

È un realismo magico quello del giovane regista vietnamita. È un cinema che sa osare senza elemosinare consensi dal pubblico. È un cinema essenziale, ma non povero. Profondo e sincero e mai scontato. Un cinema che non violenta la libertà e l’intelligenza dello spettatore, perché in ogni scena affiora un di più che va cercato e scrutato. Noi non dobbiamo banalmente “copiare” questo cinema, ma sì, dobbiamo da esso recuperare il senso della percezione della realtà come qualcosa di stratificato, di vivo, dove il mistero si fonde con la materia più grossolana. Noi che con troppo orgoglio non vogliamo affrancarci dalla nube che ci soffoca lo sguardo e la mente. Noi che invece andiamo in cerca di prodotti, spesso poco più che mediocri, che raccontano “idee diverse” ma sempre utilizzando il morto linguaggio di “questo mondo”. Prodotti, non opere, che sfruttano la nostra emotività più elementare, ma non sanno lavorare in profondità. In verità noi abbiamo perduto contatto con la grandiosità e misteriosità della Vita. Abbiamo perso la fede (pistis), ovvero la fiducia che la Storia è linguaggio, che la Creazione è linguaggio. Sembra bastarci l’informazione lineare. Ma l’arte ha altri fini, ha altre ragioni. Perché l’arte o è poesia o non è.

Vi lasciamo con un tenero, semplice, quanto profondo dialogo fra Thien e il piccolo Dao. Perché possiamo riscoprire al più presto che vi è un Fine a cui tendono non solo le nostre singole esistenze, ma la Storia tutta. È notte, la luce della candela si è spenta, ma Dao non ha sonno, ha ancora molte domande a cui chiede di dare risposta. Lui.

«Cos’è la fede, zio?».

«Perché me lo chiedi?».

«Perché il prete ha detto che la mia mamma aveva una grande fede».

«La fede è qualcosa che sto cercando».

«Che forma ha?»

«Non ha forma».

«Nessuna forma?»

«Hai mai prestato i giochi ad un tuo compagno di classe?»

«Sì».

«E tu pensavi che io tuo amico te li avrebbe restituiti?»

«Certo».

«Perché lo pensavi?»

«Perché…so che il mio amico è una brava persona». «La fede è qualcosa del genere».

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