A proposito della “Ultima Cena Queer”, ovvero la performance Blue Scrotum messa in scena durante l’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi, ci sono due aspetti di cui si discute molto in questi giorni: uno andrebbe ridimensionato, l’altro andrebbe precisato meglio.

L’aspetto da ridimensionare riguarda la valenza “francese” dell’iniziativa, ovvero il tema ricorrente dei francesi a cui piace provocare, dei francesi volti alla grandeur eccetera: tutti questi elementi possono certamente essere presenti e visibili, ma che essi rappresentino l’aspetto genealogicamente centrale della vicenda mi pare piuttosto opinabile.

La performance Blue Scrotum, infatti, è parte di un vasto insieme fenomenologico che è poi lo stesso di cui fanno parte l’esibizione di Conchita Wurst nel 2024 al Parlamento Europeo, nonché la sarabanda woke/transgender all’Eurovision del maggio di quest’anno. Va in proposito detto che, già oggi, quasi nessuno ricorda più meteore come la citata Wurst o come Nemo: figuranti innalzati di colpo sull’altare dello show business per ragioni di funzionalità alla propaganda ideologica.

Al di là di questo, la casistica internazionale dimostra come non si tratti di una questione di spirito “francese”, bensì come il vero protagonista siano la élite sovranazionali del fronte liberal-globalista. Queste ultime, trovandosi in difficoltà sul piano del consenso, premono sempre più l’acceleratore sulla polarizzazione ideologica fino a raggiungere il paradosso estremo: il tema della cosiddetta inclusività si palesa come ossessione di voler fare assurgere una minoranza a modello socioculturale, finendo così per fare sentire esclusa la stragrande maggioranza della popolazione.

L’aspetto da precisare riguarda invece la blasfemia e l’attacco alla religione cristiana, ma procediamo con ordine.

Il direttore creativo della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, Thomas Jolly, il giorno dopo l’inaugurazione ha pronunciato qualcosa di molto simile a delle pubbliche scuse. Egli ha infatti specificato che quella che è stata percepita come Ultima Cena Queer in realtà non aveva intenzione di parodizzare la simbologia cristiana, bensì di esaltare una concezione neopagana intorno agli dei dell’Olimpo e particolarmente intorno alla figura di Dioniso.

Volendo prendere per buone le parole di questo direttore, ebbene, allora non si può che ravvisare la profonda ipocrisia filosofica di tutta l’operazione.

Nel mondo che stanno costruendo Mr. Macron e gli altri finanziatori della performance olimpica, infatti, ormai da tempo si sta materializzando un completo azzeramento di quella che è stata per millenni la dimensione dionisiaca della coscienza e dei comportamenti. Immerso quotidianamente nel mondo digitale – e prossimamente avviluppato nelle protesi cibernetiche – l’essere umano sta perdendo connessione con la corporeità e con la sensualità. Sprofondando ogni percezione nell’universo calcolabile e misurabile degli algoritmi, l’essere umano perde la percezione dell’universo come caos danzante e avverte solo la separazione fra sé e l’altro da sé.

Le rappresentazioni simulacrali dell’eros quali i Gay Pride – non a caso richiamanti un dissenso sociale ipostatizzato in sfogo istituzionale quale è il Carnevale – esprimono esaltazione del piacere-scarica, afferiscono a quella pulsione di piacere che copre momentaneamente il gelo del Nulla e rappresentano, dunque, la parodia sterile dell’ebbrezza dionisiaca propria dei riti pagani.

Quanto detto sul dionisiaco, pone a seguire il problema del punto di vista cristiano in merito alla percepita blasfemia della rappresentazione: i credenti, infatti, ritengo dovrebbero essere meno autoreferenziali e osservare il problema un po’ più a fondo.

Innanzitutto, i proclami censori che in questi giorni hanno echeggiato nella rete ritengo siano inopportuni per almeno due ragioni: a) da quasi due secoli, le arti ri-elaborano in maniera non credente la simbologia cristiana e sarebbe, dunque, impresa a forte rischio di arbitrarietà quella di tentare di stabilire dove esattamente finisca la libertà di espressione e dove esattamente inizi la blasfemia; b) se la blasfemia è oggi legittimata ai massimi livelli istituzionali, ciò ha origine in una condizione che non è certo la censura a poter risolvere: ovvero la Morte di Dio divenuta oggetto di esaltazione e autocompiacimento da parte delle élite, in una sorta di Nichilismo Reale apparentemente irreversibile.

Dunque, per battere questo Nichilismo Reale occorre in primo luogo analizzare attraverso quali filosofemi e quali dispositivi antropologico-culturali esso si implementa. Scegliendo di mettere momentaneamente da parte le implicazioni relative al Cristianesimo in quanto religione – giacché tema richiedente trattazione molto estesa – e limitandosi quindi al nucleo dottrinale della predicazione di Gesù di Nazareth, possiamo suggerire qualche spunto, senza alcuna pretesa di esaustività.

Innanzitutto, la retorica neoliberale esalta oggi l’essere-nulla come precondizione per “essere se stessi”: la cancellazione di ogni legame collettivo, di ogni retaggio storico e biologico e, infine, la liberazione dal bisogno del legame di coppia, secondo tale visione sono gli unici fattori atti a consentire la realizzazione individuale.

Va da sé, allora, che la dottrina di Gesù di Nazareth indicante la relazionalità amorosa, il principio dell’agàpe come unità ontologica che lega la sfera singolare a quella universale, rappresenti un’antitesi irriducibile.

In secondo luogo, la retorica neoliberale – che si tratti dell’enunciato di sinistra “porti aperti come i nostri culi” o della visione di destra che vede nel welfare state “l’anticamera della dittatura” – è pregna di vitalismo sfrontatamente ostentato. Essa esalta, cioè, un essere umano che non necessita di protezione, che non decade, che non si indebolisce, che si trova sempre e comunque nel massimo della sua potenza.

Il fondamento dell’etica e della condizione umana come quello di affamati che verranno saziati e afflitti che saranno consolati, quindi, è l’antitesi assoluta della filosofia vitalistica oggi dominante. Quest’ultima può contemplare l’altruismo moralista, mai il cuore della compassione.

Per tutte queste ragioni, nelle odierne rappresentazioni di stato Dioniso viene sussunto e reso un’icona vuota collocata nello scenario di un mondo senza danza.

Gesù viene invece del tutto cancellato, così come viene rimossa la consapevolezza della morte: quest’ultima permane solo come terrore impotente rivolto all’invisibile e all’apeiron ovvero al tutto indistinto.

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