Di Ali Salehian per The Cradle – traduzione a cura di Old Hunter

Israele scommette molto sul fatto che la sua recente escalation in Asia occidentale abbia un esito favorevole. Ma anche i suoi oppositori sono pronti a correre grossi rischi e stanno concludendo che la pace potrebbe arrivare solo con una forte risposta netta e precisa a Tel Aviv.

Quando si tratta di prendere decisioni, in particolare nel contesto delle relazioni estere, entrano in gioco due fattori critici: “capacità” e “desiderio”. Il termine “capacità” si riferisce agli strumenti e al potere a disposizione dei paesi per attuare una decisione nel mondo reale. Altrettanto importante è il  quadro cognitivo  degli attori. Il “desiderio”, o le aspirazioni, si intrecciano profondamente con l’analisi costi-benefici delle decisioni politiche. Quando uno Stato o un attore non statale possiede capacità significative e bastevoli – e percepisce benefici considerevoli con costi minimi o gestibili – è più probabile che proceda con un’azione. Ad esempio, lo Stato di occupazione israeliano non solo possedeva la capacità di colpire gli obiettivi desiderati, ma ha anche sperimentato un cambiamento cruciale nel suo equilibrio costi-benefici, soprattutto nelle sue considerazioni di politica estera. I recenti eventi di escalation in Asia occidentale richiamano l’attenzione su queste due dinamiche essenziali, in particolare quando gli analisti si affrettano a valutare i probabili calcoli e le contromisure degli avversari.

Sconvolgere la razionalità: Israele si sposta verso strategie più rischiose

Dall’avvio dell’operazione Al-Aqsa Flood nell’ottobre scorso, Israele si è percepito come un attore che affronta una minaccia esistenziale, il che ha aumentato la sua disponibilità ad accettare rischi maggiori. Eppure, solo un mese dopo l’inizio dell’operazione di resistenza, Politico ha citato l’ex direttore del Mossad Tamir Pardo, che ha accusato il primo ministro Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden di aver alimentato l’impressione che “Israele stesse affrontando una crisi esistenziale”.Questo cambiamento di mentalità è diventato evidente nell’attacco di Israele al  consolato iraniano a Damasco il 1° aprile. Un giorno dopo, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che l’obiettivo di Israele è “agire ovunque, ogni giorno, per impedire che le forze dei nostri nemici possano aumentare”. Il processo decisionale di Tel Aviv è influenzato da due fattori chiave: primo, gli Stati Uniti, e secondo, lo stato profondo o l’establishment all’interno di Israele. Questi elementi possono aumentare la razionalità o ridurre le cautele nell’accettazione del rischio, in particolare tra gli estremisti influenti di Israele. L’attuale trasformazione del processo decisionale israeliano sembra essere influenzata da uno o entrambi questi fattori. L’operazione True Promise dell’Iran a metà aprile, che ha messo in mostra le abilità militari della Repubblica islamica, ha in qualche modo limitato la capacità di assumere rischi da parte di Israele. Ma le preoccupazioni, come il potenziale di una guerra su larga scala e i costi elevati che ne deriverebbero, sono diventate più pressanti, come ha sottolineato il Maggiore Generale Yahya Rahim Safavi quando ha enfatizzato le capacità missilistiche dell’Iran durante l’operazione di rappresaglia:

Durante l’Operazione True Promise, più di 100 missili sono stati lanciati verso Israele in soli 100 secondi a una velocità di un missile al secondo. Gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati regionali non avevano mai previsto che l’Iran potesse eseguire un’operazione così precisa e su larga scala.

Escalation calcolate 

Le dimissioni di Benny Gantz dal gabinetto di guerra a giugno potrebbero rafforzare ulteriormente la posizione intransigente di Tel Aviv. Inoltre, lo spostamento dell’attenzione del presidente Biden, in particolare in vista delle prossime elezioni americane del 2024 a novembre, ha anche influenzato alcuni tra i calcoli. La domanda chiave che dovrebbe indirizzare a una risposta appropriata, basata sull’analisi e sul ragionamento, è la seguente: perché Netanyahu ha deciso di intensificare il conflitto su così tanti fronti? Varie interpretazioni offrono spiegazioni diverse. Alcuni la considerano un’opportunità operativa per compiere omicidi mirati e di alto profilo senza alterare la strategia complessiva. Altri interpretano gli omicidi simultanei a Beirut e Teheran, con l’accettazione da parte dello Stato occupante dei costi e dei rischi associati, come un cambiamento strategico successivo alla “visita ad alti scopi a Washington” di Netanyahu. In particolare, circa una settimana dopo questo viaggio, si sono verificati almeno due atti terroristici provocatori. È fondamentale ricordare che il solo fatto di avere un’opportunità operativa per un assassinio, soprattutto per i responsabili politici, non giustifica intrinsecamente la sua esecuzione. Ciò indica che il rischio dell’assassinio, che quasi certamente provocherà una risposta da parte di Teheran e dei suoi alleati, è stato attentamente considerato. Persino il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi, durante un incontro con il neoeletto presidente iraniano Masoud Pezeshkian, ha osservato che la mossa rappresenta un tentativo di Netanyahu di allargare il conflitto nella regione.

Diplomazia ad alto rischio con Washington 

Se accettiamo che si sia verificato un cambiamento strategico, in particolare nel livello o nel tipo di politica, si delineano tre possibili scenari per le interazioni degli Stati Uniti con Israele, sulla base delle recenti visite: In primo luogo, Netanyahu sta optando per la vittoria di Donald Trump e forse ha ricevuto da lui il via libera per intensificare le tensioni, ignorando l’amministrazione Biden. Questo scenario suggerisce che Trump, pur non desiderando una guerra regionale, potrebbe gradire una maggiore pressione sull’amministrazione Biden e il sostegno dei sionisti prima delle elezioni. In secondo luogo, le recenti operazioni potrebbero essere state approvate dall’amministrazione Biden. Se da un lato Biden potrebbe voler mitigare il comportamento di Netanyahu, dall’altro potrebbe aver acconsentito agli omicidi per motivi elettorali, sperando che non si trasformino in una guerra regionale. Questo potrebbe essere visto come un favore a Netanyahu in cambio dell’allineamento dei sionisti e della loro influente lobby statunitense ai democratici a novembre. In terzo luogo, potrebbe essere emerso un progetto di guerra regionale che preveda la partecipazione attiva di Israele e degli Stati Uniti, con la convinzione che i governi in carica riescano ad assicurarsi vittorie elettorali in tempo di guerra. Ciò implicherebbe che i Democratici possano considerare la leva del conflitto regionale e dell’impegno militare come una strategia per assicurarsi la vittoria alle elezioni presidenziali. Tra questi scenari, il terzo sembra il meno probabile sia per gli alti costi che dell’imprevedibilità della guerra, delle battute d’arresto nel conflitto in corso in Ucraina, delle sfide interne agli Stati Uniti e dei disaccordi del vicepresidente Kamala Harris con Netanyahu. I primi due scenari, o una loro combinazione, sembrano più plausibili e suggeriscono l’emergere di un Israele più proattivo e indipendente, che mostra un comportamento ad alto rischio, come dimostra la recente ondata di omicidi effettuati da Tel Aviv. Allo stesso tempo, Israele e l’Occidente probabilmente contano sul fatto che l’Asse della Resistenza non voglia una guerra regionale.

È la mossa della Resistenza 

La svolta strategica di Netanyahu e la decisione di compiere omicidi di alto profilo sembrano essere finalizzate a garantire un accordo con gli attuali o futuri decisori di Washington per far crescere le tensioni nell’Asia occidentale e mantenere uno stato di crisi – stabilendo una “nuova normalità” nella regione, se così la vogliamo definire. Questa manovra sembra progettata per allineare le azioni di Tel Aviv con i più ampi interessi strategici statunitensi, soprattutto nel contesto di elezioni imminenti o di alleanze mutevoli. L’assassinio del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, pur essendo significativo, rappresenta principalmente una mossa tattica piuttosto che un cambiamento strategico nella regione. Ma prenderlo di mira a Teheran, soprattutto dopo l’insediamento del nuovo presidente iraniano e durante una pausa nelle discussioni sul cessate il fuoco [a Gaza], potrebbe avere profonde implicazioni strategiche. Mette in discussione l’immagine di potenza e sicurezza dell’Iran e aggrava la già instabile situazione regionale. Lo ha sottolineato il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, che in una dichiarazione ha evidenziato l’aumento della posta in gioco: “L’Iran stesso è obbligato a rispondere a questo terrore”. Il risultato è chiaro: l’Iran e l’Asse della Resistenza probabilmente aumenteranno i costi per Israele. E ciò suggerisce il passaggio a un livello più elevato di attività militare organizzata, che potrebbe avere un impatto significativo sulla volontà di Israele di impegnarsi e aumentare i costi per la parte avversa. Questa disponibilità a una guerra regionale comporterebbe azioni coordinate su più fronti, potenzialmente in grado di provocare attacchi mirati e perdite significative. Nelle parole di un diplomatico iraniano citate dal Wall Street Journal: “La nostra risposta sarà rapida e pesante”.

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