Una interessante e piuttosto equilibrata analisi dal punto di vista statunitense delle conseguenze della caduta del dittatore siriano che conclude affermando che i problemi della regione incentrati sull’Iran dovrebbero essere scartati.
di Paul R Pillar per la rivista The National Interest – Traduzione a cura di Old Hunter

Il regime siriano di Bashar al-Assad, crollato nel weekend sotto un’offensiva dei ribelli iniziata solo pochi giorni prima, aveva ottenuto un giudizio di infamia che è stato a lungo dato per scontato nelle discussioni di politica estera occidentale. Questo è in parte dovuto al modo brutale in cui le forze di Assad hanno represso le proteste della Primavera araba nel 2011, che hanno scatenato una guerra civile che è continuata fino ad oggi. Assad era ampiamente considerato come un governante tirannico di cui il mondo avrebbe preferito farne a meno.
Nei discorsi della politica estera americana, Assad era una persona a cui nessuno avrebbe dovuto stringere le mani insanguinate. Gli oppositori alla nomina di Tulsi Gabbard a direttore dell’intelligence nazionale da parte di Donald Trump ne hanno fatto un argomento di discussione, da quando che quest’ultima aveva incontrato Assad in un viaggio “conoscitivo” in Siria sette anni fa.
Il regime di Assad è stato anche visto come parte di un “Asse della Resistenza” incentrato sull’Iran. Questo asse è, a sua volta, ampiamente percepito, in termini manichei, simili a quelli della Guerra Fredda, come la radice del male nel Medio Oriente, alla cui opposizione dovrebbe essere data, secondo tale interpretazione, la massima priorità della politica di chiunque verso quei luoghi. Questa visione è la base per cui il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu celebra pubblicamente la caduta di Assad in termini che senza dubbio avranno un eco a Washington nei giorni a venire.
Ma mentre le forze di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) stanno invadendo Damasco, la situazione in Siria evoca l’adagio di “fare attenzione a quel che si desidera”. Il regime degli Assad – guidato prima da Hafez Assad e poi dal figlio Bashar – è al potere da quando Hafez guidò un colpo di Stato nel 1970. Sconvolgere ciò che è stato in vigore per più di mezzo secolo è destinato ad avere ripercussioni destabilizzanti, e non tutte saranno positive.
Una delle principali cause di preoccupazione è la natura dell’HTS. Si tratta di un’organizzazione jihadista radicale che era stata affiliata ad Al Qaeda ed è tuttora nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato. Ha cercato di presentare un volto più pragmatico e moderato negli ultimi tempi, soprattutto nel modo in cui ha governato la provincia di Idlib, che negli ultimi anni è stata la sua roccaforte nella Siria nord-occidentale. Non c’è motivo di concludere, tuttavia, che questo atteggiamento indichi un autentico cambiamento della natura del gruppo piuttosto che una strategia per ottenere sostegno e tacitare l’opposizione mentre sta ancora cercando di controllare tutta la Siria.
Un possibile parallelo è rappresentato dai talebani afghani. Anche loro si sono mostrati dei moderati quando cercavano ancora il riconoscimento e il sostegno internazionale, ma da quando hanno raggiunto il potere in tutto l’Afghanistan sono tornati alle loro consuetudini, comprese le loro politiche medievali riguardo al trattamento delle donne. Più vicino a noi, non è insolito che dei politici americani appaiano moderati e inclusivi mentre cercano voti durante una campagna elettorale, per poi passare alle politiche più estreme dopo aver vinto un’elezione.
Un regime controllato dall’HTS sarà altrettanto autoritario di quello degli Assad. Questo cambio di regime non altera alcun equilibrio tra le forze democratiche e quelle autocratiche in Medio Oriente. Ne risulterà un regime jihadista che controlla uno Stato consolidato, con confini riconosciuti e un seggio alle Nazioni Unite, cosa che nemmeno lo Stato islamico (ISIS) con il suo “Califfato” è riuscito a ottenere.
Nonostante alcuni tentativi di rassicurare i cristiani in Siria, è improbabile che il nuovo regime diventi un’oasi di tolleranza religiosa. Assad era a capo di un regime che favoriva la sua minoranza alawita, ma era fondamentalmente laico e non guidato da una missione religiosa. Lo stesso non sarà vero per i salafiti che controllano HTS.
Le divisioni religiose ed etniche della Siria continueranno a favorire l’instabilità interna. I ribelli dell’HTS che stanno entrando a Damasco lasciano la Siria molto lontana dall’avere un controllo effettivo sull’intero Paese. I risentimenti e i conflitti d’interesse che sono alla base di oltre un decennio di guerra civile non sono stati risolti. La guerra civile continuerà .
In questo contesto sempre più instabile, gli Stati Uniti saranno costretti a prendere decisioni, in particolare riguardo ai 900 militari che mantengono nella Siria nord-orientale, che hanno rimandato. Anche quando i combattenti HTS hanno iniziato a spingersi fuori da Idlib, gli scontri tra due belligeranti, entrambi indesiderati dagli Stati Uniti in quella parte occidentale del paese, sembrava un problema abbastanza lontano tanto da far prevalere l’inerzia politica.
La situazione non indica una linea d’azione favorevole per gli Stati Uniti. Il diffondersi dell’instabilità nelle aree in cui sono stanziate le truppe statunitensi può evocare riflessioni sul fatto che tali truppe avrebbero dovuto essere ritirate da tempo. La possibilità che una nuova instabilità in Siria faccia rivivere l’ISIS – e combattere l’ISIS è la motivazione ufficiale per mantenere una presenza di truppe statunitensi in Siria – potrebbe far pensare a una direzione opposta. Va ricordato che la crescita esplosiva dell’ISIS dieci anni fa deve molto al suo utilizzo [da parte americana] nella precedente fase di guerra civile in Siria. Rimane il dubbio su quanto un piccolo contingente di truppe statunitensi in Siria possa riuscire a contenere un ISIS rinato.
Il ruolo della Turchia sarà un’ulteriore complicazione per chi deciderà la politica statunitense. Ankara e Washington non sono mai arrivati ​​a una visione comune riguardo alle Forze democratiche siriane a maggioranza curda, che gli Stati Uniti considerano un utile alleato mentre la Turchia le vede associate a un gruppo terroristico turco [PKK] – e che hanno reagito ai recenti eventi conquistando ulteriore territorio lungo il confine con l’Iraq. La Turchia ha sostenuto l’offensiva dei ribelli contro Damasco e probabilmente ora si ritiene in grado di avere una maggiore influenza su qualsiasi questione riguardante i curdi siriani.
La violenza in Siria può riversarsi oltre i suoi confini, forse perfino in Israele. Come ben sa il diavolo, il regime di Assad ha mantenuto la sua linea del fronte con Israele notevolmente stabile e tranquilla durante la maggior parte del suo governo iniziato tre anni dopo che Israele aveva conquistato le alture del Golan nella guerra del 1967. Il fatto che il governo israeliano si renda conto di trovarsi ora di fronte a una situazione diversa e potenzialmente più pericolosa, nonostante la retorica celebrativa e autocelebrativa di Netanyahu, si riflette nella sua occupazione di una zona cuscinetto precedentemente smilitarizzata lungo la frontiera del Golan.
Il regime di Assad è stato anche notevolmente passivo durante la campagna di Israele, sostenuta da attacchi aerei, contro obiettivi iraniani in Siria. È difficile immaginare che questa forma di aggressività israeliana non riceva una risposta da un regime jihadista a Damasco. Ed è altrettanto difficile immaginare che un regime del genere chiuda un occhio sulle azioni di Israele a Gaza e in Libano. Israele potrebbe aver mosso i primi passi su un percorso di maggiore violenza tra Israele e Siria quando ha bombardato obiettivi dentro e intorno a Damasco proprio nel fine settimana in cui le forze HTS stavano entrando nella capitale, con il presunto movente israeliano di impedire che le armi del regime di Assad cadessero nelle mani dei ribelli.
Anche le relazioni di un nuovo regime siriano con gli arabi del Golfo promettono di essere difficili. Gli sforzi degli arabi del Golfo per migliorare le relazioni con il regime di Assad e allontanarlo dalla dipendenza dall’Iran sono stati ora gettati alle ortiche. Per i sauditi e in particolar modo per gli emiratini, un regime islamista nella loro regione è un anatema a causa della base di legittimità che offre come alternativa al governo monarchico. Gli Emirati Arabi Uniti hanno dimostrato fino a che punto sarebbero disposti a spingersi per opporsi a un tale regime con il loro intervento militare in Libia.
Il cambio di regime in Siria non rappresenta un duro colpo per l'”Asse della Resistenza” e per l’Iran come è già stato detto. Il ponte terrestre per i rifornimenti attraverso la Siria all’Hezbollah libanese continua a essere menzionato, e ci saranno alcune sfide logistiche aggiuntive per l’Iran e gli Hezbollah. Tuttavia, il ponte terrestre è solo un elemento delle alleanze regionali dell’Iran. Come presunto membro dell’asse, la Siria sotto Assad era stata più un salasso che una risorsa. Nell’alleanza iraniano-siriana, originariamente forgiata per la reciproca opposizione al regime iracheno di Saddam Hussein, che non esiste più, gli aiuti andavano dall’Iran alla Siria piuttosto che nella direzione opposta.
Fondamentalmente, l’idea manichea di un asse guidato dall’Iran come fonte primaria dei problemi del Medio Oriente deve essere scartata. Non è mai stata una diagnosi accurata della violenza e dell’instabilità della regione. Ora, mentre il mondo sta per assistere a una nuova serie di problemi associati all’avvento di un regime in Siria che non ha nulla a che fare con l’Iran o il suo asse, l’inesattezza di tale concezione dovrebbe diventare sempre più evidente.
Paul R. Pillar si è ritirato nel 2005 da una carriera di ventotto anni nella comunità dell’intelligence statunitense, in cui il suo ultimo incarico è stato quello di National Intelligence Officer per il Vicino Oriente e l’Asia meridionale. In precedenza, ha ricoperto una serie di posizioni analitiche e manageriali, tra cui quella di capo delle unità analitiche presso la CIA, coprendo parti del Vicino Oriente, del Golfo Persico e dell’Asia meridionale. Il suo libro più recente è Beyond the Water’s Edge: How Partisanship Corrupts US Foreign Policy . È anche un curatore editoriale per questa pubblicazione.