Diffidenti del nuovo, i tedeschi optano per l’usato sicuro. Senza grandi sorprese rispetto ai sondaggi, la CDU incassa il voto della classe media, scottata da quattro anni di governo Scholz. AfD avanza, ma rimane sotto il 21%, mentre naufraga al primo appuntamento decisivo la formazione di Sarah Wagenknecht. SPD e Verdi pagano dazio, ma nel complesso reggono il colpo, mentre scompaiono dal Parlamento i liberali di FDP. Nel complesso, il voto tedesco conferma una tendenza già vista nelle ultime elezioni in Francia, in Italia e in altri paesi: ancora non si intravede una nuova classe dirigente che possa sostituire quella vecchia. In assenza di alternative credibili, l’elettore, per quanto sempre più preoccupato e deluso, continua ad affidarsi a chi ha portato il continente ai minimi storici attuali. Il sistema, dunque, per ora regge. Ma le sfide che lo attendono a breve metteranno a durissima prova la sua tenuta.

Il primo dato che colpisce nelle elezioni federali svoltesi ieri in Germania è quello dell’affluenza. È andato a votare l’82,5% degli aventi diritto, una percentuale altissima che non si vedeva dal 1990, con un aumento del 6,2% rispetto al 2021. Dunque, la prima considerazione da fare è che qui non si applica quanto solitamente vale per le elezioni italiane, dove nelle recenti tornate amministrative ha votato in media meno di un italiano su due. I tedeschi hanno sentito queste elezioni come decisive e si sono recati in massa alle urne. Indipendentemente dalla coalizione che alla fine sceglierà, Merz potrà comunque dire che il suo governo ha una forte legittimazione popolare. Su questo nessuno potrà dargli torto.
Il secondo dato che colpisce è che quattro disastrosi anni di governo Scholz non sono bastati ai tedeschi per convincersi della necessità di un cambiamento radicale. Se è vero, infatti, che i tre partiti di governo escono tutti ridimensionati dalle urne, con i liberali di FDP che non superano lo sbarramento e rimangono fuori dal Bundestag (dove è improbabile che ritornino anche in futuro), dall’altro il voto ha premiato in larga misura un partito tradizionale come la CDU, la quale difficilmente proporrà strappi con il passato una volta tornata al governo. Nei Länder occidentali, dove pure l’insoddisfazione verso il governo uscente era forte, l’elettore medio ha scartato ogni ipotesi di rottura con il passato e ha optato piuttosto per l’usato sicuro. Merz viene visto dalla classe media come un candidato autorevole, dotato dell’esperienza economica necessaria per riportare la Germania ai livelli del ventennio merkeliano e tirare fuori il paese dalla crisi economica nella quale si è inabissato negli ultimi tre anni. Che il contesto globale sia oggi profondamente diverso da quello in cui ha governato Angela Merkel per quattro mandati, poco importa. Chi lo ha votato lo capirà ben presto. Intanto, Merz può legittimamente rivendicare una vittoria schiacciante e imporre la propria linea al suo più probabile futuro alleato, la SPD di Olaf Scholz, ridotta al 16,8%. Dunque, nessuna spallata al sistema. Né, del resto, i sondaggi delle ultime settimane lasciavano seriamente prefigurare un tale scenario. L’elettore medio tedesco è oggi un elettore preoccupato per il proprio futuro e per la propria sicurezza, contrariato con il governo uscente, ma non abbastanza da scegliere il famoso salto nel vuoto. Di questo occorre prendere atto e da qui partire per ogni riflessione.
Non c’è stato nemmeno il tanto temuto effetto Musk. AfD galleggiava stabilmente attorno al 18% nei sondaggi già mesi fa, prima della vittoria di Donald Trump il 5 novembre scorso e prima che Elon Musk decidesse di sponsorizzare apertamente il partito di Alice Weidel creando il panico nelle alte sfere di Bruxelles. Se l’effetto c’è stato, è stato marginale. Al contrario, Musk potrebbe aver indirettamente provocato un’onda di ritorno che ha spinto al voto molti elettori che in passato disertavano le urne e che a questo giro hanno ascoltato, invece, gli appelli dei mainstream e dei partiti tradizionali contro quella che è stata sin da subito identificata come un’indebita e pericolosa “ingerenza straniera” nel processo elettorale nazionale. Non stupisce che a beneficiare di questa onda di ritorno sia stata soprattutto la Linke, un partito che contro Elon Musk sembra combattere una sorta di battaglia esistenziale. Data per morta dopo la fuoriuscita di Sahra Wagenknecht mesi fa, la Linke è passata incredibilmente dal 2,7% delle europee all’8,8% di ieri. Il partito guidato da Heidi Reichinnek non solo ha tagliato completamente ogni legame con l’originaria SED, ma oggi promuove apertamente le tipiche politiche di ogni partito progressista post-marxista: difesa a oltranza dell’immigrazione, difesa dei diritti umani e delle minoranze, ambientalismo, europeismo, ricorso ossessivo al tema dell’antifascismo e alla necessità di fermare con ogni mezzo “l’estrema destra”, il tutto coniugato con il consueto egualitarismo, ormai depurato di ogni riferimento alla lotta sociale e da raggiungersi attraverso l’aumento della spesa pubblica senza un preciso piano economico per sostenerlo. Insomma, niente a cui non siamo già abituati da tempo sui nostri lidi. Eppure, è una strategia che ha pagato ieri in Germania come ha pagato alle ultime europee in Italia per AVS, se è vero come è vero che il 27% degli elettori che hanno votato per la prima volta ha scelto la Linke.
AfD stravince nei Länder poveri, quelli orientali della ex DDR. Ad ovest avanza, ma ancora incontra resistenze, soprattutto ideologiche. A questo proposito, vale la pena rimuovere subito un equivoco che continua a campeggiare abitualmente nella stampa mainstream: non esiste una correlazione diretta tra immigrazione e voto di protesta in favore di AfD. Il partito di Alice Weidel raggiunge il 40% ad est, dove la presenza di immigrati è ancora relativamente bassa, mentre a ovest, dove gli elettori con Migrationshintergrund sono non di rado anche un terzo dell’elettorato, arriva al 19% solo in Baviera e Baden-Württemberg, mentre fa peggio altrove. Diversamente da quanto molti si ostinano a pensare, l’elettore medio di AfD non è né un nostalgico né uno xenofobo. Se ad est è soprattutto un elettore deluso dalle altisonanti e mai onorate promesse dei partiti tradizionali dopo la riunificazione, a ovest è un elettore preoccupato per il proprio futuro e frustrato dal carovita, che in questi anni ha perso il lavoro o sopravvive con un impiego precario. Un elettore che ogni mese vede aumentare il costo della bolletta e diminuire il suo potere di acquisto, che fatica a pagare l’affitto e che non arriverà mai in vita sua a possedere un immobile. Un elettore preoccupato per l’aumento della criminalità, che fino a pochi anni fa poteva tranquillamente andare in giro di notte anche in una grande città e che oggi ha paura persino a frequentare un mercatino di Natale temendo di essere vittima di un attentato. Sbaglia anche chi pensa che l’elettorato di AfD sia composto unicamente da anziani. Nel voto dei giovani AfD raggiunge il 19% e si piazza al secondo posto dietro alla Linke. In questi anni, il partito ha investito tantissimo sul territorio senza però dimenticare i giovani, che ha saputo attirare con astute e mirate campagne su TikTok. Una strategia obiettivamente vincente.
Resta invece fuori dal Bundestag, per una manciata di voti, la BSW di Sahra Wagenknecht. Sulla parabola discendente di questo partito, che al suo apice era arrivato a raggiungere nei sondaggi anche il 14% a livello nazionale, occorrerà tornare separatamente. Basterà dire, per ora, che è andato male anche dove era andato bene solo pochi mesi fa alle elezioni regionali di inizio settembre. In Turingia ha perso da allora otto punti, in Sassonia due, in Brandeburgo tre. A ovest non ha superato il 5% in nessun Land. Evidentemente gli elettori non hanno perdonato alla BSW l’inciucio con CDU e SPD dopo che il partito si era presentato come alternativa “antisistema” cercando di intercettare una parte del target elettorale di AfD. Quei voti sono andati per la maggior parte ad AfD, in parte sono tornati alla Linke. Gli errori in politica si pagano a caro prezzo. Difficile ipotizzare che questo partito, legato alla figura della Wagenknecht fin dal nome, abbia un futuro dopo la disfatta di ieri.
L’ipotesi più probabile mentre scriviamo è che la Germania venga governata nei prossimi quattro anni da un governo di coalizione CDU-SPD. Una formula già ampiamente sperimentata in passato, che non costituisce certo una rottura, ma, al contrario, garantisce la continuità con il governo uscente in materia di Europa, aiuti all’Ucraina e distanziamento da Trump e che consente a Bruxelles di tirare una boccata di ossigeno. Merz potrà contare su 328 deputati, dodici in più del minimo richiesto per la maggioranza assoluta. In caso di emergenza, potrà bussare alla porta dei Verdi, dove ne troverà altri 85. All’occorrenza, poi, ce ne saranno altri 64 nella Linke. Quanto basta per tenere lontano lo spettro di un’alleanza con AfD e continuare a esercitare l’ostracismo verso quest’ultima.
Grazie a questa vittoria, Merz si candida fin d’ora a essere il leader di un’Europa che vorrebbe contare sui tavoli che contano senza essere una potenza globale. Un’Europa che oggi si sente tradita e abbandonata dall’alleato storico e non riesce a farsene una ragione, sebbene negli ultimi tre anni si sia scavata la fossa da sola allineandosi supinamente alla linea di Washington e autopunendosi con la separazione forzata dall’energia russa, la follia della transizione energetica e la chiusura delle centrali nucleari. Un’Europa che oggi piange per i dazi commerciali che a breve le verranno inflitti da Trump, ma che poi usa la stessa arma per difendere il settore automotive dalle auto cinesi. Un’Europa che negli ultimi venti anni non ha mai pensato seriamente a rendersi autonoma sul piano militare e che oggi vagheggia di un debito comune da 700 miliardi illudendosi che ciò basti a recuperare in pochi anni un ritardo storico ormai incolmabile. Ritardo, peraltro, percepibile nitidamente anche sul piano delle nuove tecnologie.
Questo tardivo bagno di realtà non basterà a salvare l’Europa, e nemmeno la Germania. Merz si troverà ben presto a dover coniugare l’aumento delle spese militari, che dice di voler perseguire, con il mantenimento del suo costoso welfare. Il tutto in un contesto di stagnazione economica e con enormi incertezze per quanto riguarda il costo delle materie prime, anche ipotizzando un parziale allentamento delle sanzioni contro la Russia. Un contesto assai diverso da quello in cui ha prosperato per venti anni Angela Merkel. Ben presto, il nuovo cancelliere, come tutta l’Europa, dovrà fare i conti con la realtà. E fatalmente dovrà scontentare molti di quelli che ieri gli hanno dato il voto e che oggi festeggiano lo scampato pericolo contro l’avanzata dell'”autoritarismo”.